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1 IV

La giornata era soleggiata a Tiro. La città si trovava sulla costa orientale del Mediterraneo, quel mare centrale che comunicava con il mondo intero, il Mare Nostrum che i romani cercavano di monopolizzare per il loro impero emergente. La metropoli, rasa al suolo quasi un secolo prima da Alessandro Magno e dalle sue truppe, si trovava in un punto strategico che costituiva una porta naturale con i Paesi dell'Oriente. Le vecchie rotte delle carovane, che per qualche tempo cambiarono il loro itinerario, tornarono presto a Tiro. La vecchia città, distrutta anni prima quasi interamente, iniziò a risorgere dalle sue ceneri con nuove energie.

Le rotte dell'Asia, che arrivavano attraversando l'Eufrate e il Tigri, alimentavano la città di merci esotiche che in seguito erano distribuite verso sud ai mercati egiziani, verso nord in seguito all'estensione di quello che era l'impero macedone e verso il mare Mediterraneo raggiungendo le colonne di Melkart e anche oltre il mondo civilizzato grazie allo zelo commerciale dei suoi mercanti. In cambio, Tiro era diventata una fonte di risorse per i Persiani e i loro vicini limitrofi, fornendo loro vino, olio, ceramiche e, soprattutto, schiavi. La città un tempo demolita era diventata il principale mercato sulla costa orientale del Mediterraneo per l'acquisto e la vendita di carne umana come manodopera. La sua situazione strategica le permetteva di fornire schiavi a molti trafficanti che vagavano per le principali città del Mediterraneo orientale e le terre del vicino Oriente.

Qualsiasi essere umano poteva cadere in stato di schiavitù. Le guerre e le liti tribali erano la principale via di rifornimento per gli schiavi che in seguito riempivano di forza lavoro templi, terreni agricoli e proprietà private. Un altro modo importante di conversione in schiavitù era quello generato dal mancato pagamento dei debiti contratti con altri cittadini o con le diverse istituzioni; in molte regioni si veniva puniti con il pagamento del debito per mezzo della perdita della libertà per un periodo di tempo determinato. La disperazione e lo sradicamento potevano anche portare alla schiavitù. Janira, Nerisa e Almice osservavano la città dal ponte della nave, preoccupati per il futuro. Nel loro villaggio non avevano mai visto uno schiavo; anche se sapevano perfettamente di cosa si trattasse; le persone abbandonate dagli dèi che avevano perso la libertà. E così si sentivano i tre, abbandonati dagli dèi, sottoposti ai loro capricci e spinti sull'abisso dell'incertezza. Il loro timore principale era di essere separati. Janira non capiva bene la situazione, gli eventi degli ultimi giorni sfuggivano completamente alla sua comprensione. Nerisa e Almice avevano provato a spiegarglielo il giorno prima, ma la bambina non capiva perché dovevano andare a vivere a casa di uno sconosciuto. Lei voleva insistentemente tornare a casa sua con i genitori, queste furono le uniche parole che riuscirono a farle pronunciare nei giorni della prigionia.

Il porto di Tiro presentava agli occhi dei visitatori un trambusto commerciale paragonabile ad altre grandi città del mondo. Numerose navi entravano e uscivano costantemente dal porto. Attaccate le une alle altre, a causa della mancanza di spazio sui moli. La barca di Zamar attraccò a fianco di un'altra imbarcazione di dimensioni simili. I capitani si salutarono. La lingua che usavano era strana. Almice avrebbe poi scoperto che parlavano in fenicio. Per raggiungere il molo del porto, i ragazzini dovettero passare in catene, tra gli sguardi indifferenti dell'equipaggio delle altre navi, da una imbarcazione all'altra fino a quando non misero piede sulla terraferma.

Nerisa e Almice tentarono ancora una volta di convincere il pirata a rinunciare all’intenzione di venderli; la risposta fu un colpo alle costole del ragazzo, diligentemente propinato da uno dei marinai. Janira si aggrappò forte al braccio della sorella.

Il piccolo gruppo, guidato da Zamar e scortato da quattro marinai, iniziò ad avanzare attraverso la darsena congestionata della città. L'odore del porto era intenso, le bancarelle con le sarde arrostite diffondevano l'aroma caratteristico e penetrante di quel piatto caratteristico. Le bancarelle situate lungo le strade vendevano anche birra, vino e vari cibi molto stagionati che impregnavano i sensi dei passanti con forti aromi. Le viscere dei tre bambini brontolavano per la fame alla vista di quei cibi, avevano trascorso più di una settimana a nutrirsi esclusivamente di acqua con farina e dei resti di cibo che alcuni marinai gli avevano dato qualche volta.

Gli uomini di Zamar li condussero lungo vie strette e buie addentrandosi nella città popolata. Gli odori del porto lasciarono il posto ad altri tipi di odori altrettanto profondi. Le feci degli abitanti si ammassavano lungo i bordi dei vicoli e gli insetti si muovevano accanto ad esse liberamente. Anche alcuni roditori apprezzavano l'atmosfera e Almice ricordò la scena vissuta con Telma giorni prima nella loro casa. Il percorso nella città li condusse attraverso diversi quartieri. Era la prima volta che i ragazzi si trovavano in una grande città. Ad eccezione di Almice, le sorelle non avevano mai lasciato il piccolo villaggio, una popolazione di meno di duecento anime. Janira continuava a camminare incurante delle catene ai piedi. I suoi occhi erano spalancati, guardando molti strani personaggi in quella città piena di sfumature. Almice fu deluso da ciò che vide mentre entravano nella metropoli; più che una città, sembrava un porcile, così diversa dalle lontane acropoli greche che aveva visitato con suo padre. Nerisa non immaginava quante persone potessero vivere stipate in così poco spazio. Mentre le mancavano la spiaggia e la casa, istintivamente afferrò più forte la mano della sorellina.

Camminarono a lungo attraverso strade irregolari e caotiche. Attraversarono il quartiere dei conciatori, che lavoravano i pellami producendo un odore nauseabondo e fetido che permeava le narici di tutti i passanti. Attraversarono anche il quartiere dei cestai, dove osservarono in alcuni magnifici portali opere d'arte fatte di palma e canna esposte per essere acquistate dal miglior offerente. In quello dei tessitori, le strade erano ricoperte da centinaia di tessuti e tappeti che coprivano le pareti delle case formando un mosaico multicolore che sembrava lasciare il posto a un altro mondo. Nerisa ammirò i colori vivaci dei tessuti che davano vita alle figure in molti modi. Continuarono a camminare fino a che a poco a poco le case iniziarono a distanziarsi. Svoltarono ad un incrocio e davanti al gruppo si aprirono, sulle mura, le colline che flirtavano con la città.

Le caviglie dei ragazzini sanguinavano già quando attraversarono le mura. Zamar e il suo gruppo presero uno stretto sentiero scarsamente percorso che si perdeva arrampicandosi dietro una piccola collina. Dopo aver raggiunto la cima arrotondata, i ragazzini guardarono la loro destinazione dall'altra parte. Ai piedi della collina, sul suo pendio orientale, c'era un ridotto gruppo di case circondato da una piccola palizzata che occupava un'importante area di terreno.

Almice aguzzò la vista osservando le grandi gabbie di legno all'interno della palizzata e si rese conto che Zamar li stava portando lì. Il sentiero scendeva serpeggiante fino a raggiungere il recinto e proseguiva accanto alla palizzata costruita con tronchi di legno irregolari, paglia secca e fango che formavano un muro leggermente più alto della statura di un adulto. Pensava che non sarebbe stato difficile da saltare. Continuarono lungo la struttura fino a una grande porta chiusa formata da due spesse lastre di legno. Zamar estrasse la sua spada di bronzo e colpì con energia una delle porte con l'impugnatura dell'arma. Attesero alcuni istanti e la porta cominciò ad aprirsi. Un uomo molto piccolo, dell'altezza di Nerisa, iniziò ad aprire la pesante porta per lasciare il posto al seguito del pirata. Il nano riconobbe il capitano e lo salutò servile, si scambiarono alcune parole e l'omino gli fece un gesto per invitarlo a seguirlo. L'intero gruppo avanzò attraverso il recinto dopo il capitano. I ragazzini si guardavano intorno con il timore dell'ignoto riflesso negli occhi.

L'interno del recinto era spazioso, con un'ampia spianata punteggiata su entrambi i lati da diversi edifici di fango. Molte persone si dedicavano a diverse faccende. Era come se fosse un piccolo paese, cresciuto all'ombra di una grande città. Al centro della spianata c'erano le enormi strutture di legno che Almice aveva visto dalla cima della collina e spiccavano su tutto il resto. Il gruppo continuò ad avanzare fino a superarle. L'odore emanato dalle gabbie era aspro e penetrante. I ragazzini osservavano gli individui rinchiusi lì dentro. Sporchi, mal vestiti o addirittura nudi, i loro occhi spenti li guardarono passare come se fossero fantasmi. Uomini, donne e bambini, divisi in diversi scomparti. Individui che erano spaventosi e altri che ispiravano pietà. Tutti molto diversi l'uno dall'altro. Tutti loro erano schiavi.

Il nano avanzò verso una costruzione di pietra che si trovava sul fondo della palizzata. Il gruppo si fermò vicino all’edificio. Il piccolo uomo parlò a Zamar in quella strana lingua che Almice aveva già sentito e i due uomini avanzarono fino a perdersi all'interno della casa.

Era passato un bel po' di tempo da quando il capitano era entrato in quello che sembrava essere l'edificio principale del recinto. I marinai si rilassarono parlando delle loro cose e i tre ragazzini, che rimasero in catene, si scambiarono a bassa voce delle impressioni su quel luogo quando la porta della casa si aprì di nuovo, questa volta per far posto a Zamar insieme ad un uomo di circa cinquant'anni, con la barba folta e grigia, un po' più basso del pirata e di corporatura robusta, sicuramente per il buon cibo. Entrambi avanzarono senza parlare fino ai ragazzini. Lo sconosciuto si piantò di fronte ai tre fratelli guardandoli con occhi esperti, esaminando i possibili difetti della merce, valutandone le possibilità commerciali. Li costrinse ad aprire la bocca, ma Almice resistette finché un altro colpo alle costole non gli fece cambiare atteggiamento. L'ispezione fu molto breve. L'uomo scambiò alcune parole con Zamar ed entrambi tornarono all'interno della casa.

I ragazzini ora divennero più consapevoli della loro situazione. Stavano negoziando il prezzo. Sembrava che il loro destino fosse deciso e che, nonostante le loro insistenti suppliche, il capitano li avrebbe venduti a quell'uomo. Si tennero tutte e tre per mano mentre si scambiavano delle occhiate spaventate.

La porta si aprì di nuovo e Zamar uscì sorridendo. Si chiuse la porta alle sue spalle e si avvicinò al gruppo. I ragazzi pensarono per un momento di essersi sbagliati.

«Beh, sembra che le nostre strade si separino qui.» Camminò verso i ragazzini alzando le braccia senza riuscire a reprimere un sorriso sulle labbra. «Avete già un proprietario.»

«Cosa ci hai fatto?» Nerisa parlò con risentimento, con voce insicura. Quella era la conferma delle sue peggiori paure.

«Vi ho venduto a uno dei più noti commercianti di schiavi di Tiro, e a un prezzo molto buono.» Si toccò con la mano destra la borsa che portava appesa ai vestiti. «Non vi ci vorrà molto per conoscere la vostra nuova casa. Deve ammortizzare ciò che ha pagato per voi.»

«Sei un essere spregevole» lo accusò Almice.

«Non credo, come ti ho spiegato qualche giorno fa, vi ho fatto un favore prendendovi a bordo e impedendovi di morire di sete, anche se mi dispiace per vostra sorella. Gli ho chiesto di provare a vendervi insieme» mentì scusandosi davanti ai ragazzini. «Abbiamo fatto solo uno scambio, vi ho salvato e voi mi avete ricompensato per questo; per il resto, è stato un piacere.»

Il pirata si congedò senza aspettare una risposta e si rivolse ai suoi uomini facendogli cenno di accompagnarlo, si voltò e si diresse verso l'uscita dal recinto. I fratelli restarono lì, in attesa del loro futuro incerto, sorvegliati da due uomini muscolosi come torri che avevano circa trent'anni.

Dopo un po', la porta dell'edificio si riaprì e il mercante di schiavi si avvicinò ai ragazzini.

«Quanti anni hai?» si rivolse ad Almice in un greco rarefatto.

«Dieci.» La voce del ragazzo suonava timida, incerta.

«E cosa sai fare?» Il mercante scrutò il ragazzo con gli occhi.

«Sono un pescatore, ma non abbiamo fatto nulla per essere qui.» Il suo interlocutore sembrò non sentirlo.

«Parli solo greco?

«Lo parlo e lo scrivo.

«Lo scrivi? Caspita, molto interessante. E voi?» Si rivolse a Nerisa e Janira.

«Aiutiamo nostra madre in casa, parliamo greco ed io lo scrivo anche un po'.»

Janira restò in silenzio.

«Molto interessante» ripeté tra sé. «Non trascorrerete molto tempo qui. Domani è giorno di mercato, quindi faremo un breve giro in città e che gli dèi possano essere misericordiosi e portarvi fortuna.» Li salutò con un gesto inespressivo.

I due uomini che continuavano a sorvegliare i ragazzini li portarono alle gabbie sulla spianata. Quando arrivarono accanto ad esse, uno di loro aprì una porta spostando una pesante barra di metallo. Li fecero entrare e chiusero la porta dietro di loro con un chiavistello. La gabbia era vuota, sembrava riservata a loro. L'unico oggetto all'interno era una piccola brocca piena d'acqua. Nonostante le catene ai piedi, Janira corse verso l’acqua e cominciò a bere. I suoi fratelli si avvicinarono per imitarla. Si dissetarono e si sedettero all'ombra di alcune assi di legno che costituivano il tetto della gabbia. Si rannicchiarono insieme, come quando avevano perso la sorella e restarono con sguardi senza speranza, sguardi identici a quelli di altre persone rinchiuse nelle gabbie adiacenti. Non c'erano parole, nessuno dei prigionieri parlava, solo un mutismo assoluto. Le parole non avrebbero restituito loro la libertà.

Il resto della giornata trascorse in eterno silenzio. Janira guardava attraverso le sbarre gli enormi cani che dormivano sulla spianata, approfittando dell'ombra degli edifici vicini. Nerisa piangeva inconsolabile pensando cosa sarebbe successo a sua sorella se fossero stati separati. Intanto Almice continuava a pensare che questa poteva essere l'ultima notte trascorsa con le sorelle, gli dispiaceva di averle deluse e di non essere stato in grado di fare nulla per aiutare i genitori.

Era tardo pomeriggio quando un piccolo gruppo di uomini si avvicinò alle gabbie seguito da alcuni cani che annusavano in giro annoiati, spaventando alcune mosche con la coda. I visitatori si fermarono davanti al recinto, ispezionando i suoi occupanti. Parlavano la stessa lingua che i ragazzini avevano sentito sulle labbra di Zamar. Una lingua strana, pensò Almice, sebbene il significato fosse chiaro, sembravano fare una preselezione visiva della merce che avrebbero acquistato il giorno successivo. Il giovane allora cominciò ad osservare quegli uomini. Erano undici o dodici, ben vestiti. Le loro tuniche tradivano un buon livello sociale ed economico. Almice immaginò le loro professioni: commercianti, principi, persone potenti senza dubbio. Con i loro vari volti, alcuni amabili, altri di aspetto insidioso e meschino, quegli uomini li stavano studiando con curiosità. Cosa li aveva portati lì a comprare degli schiavi? Concluse che sia il destino suo che delle sue sorelle era completamente affidato al caso.

Che strano contemplare l'alba con il sole che sorgeva dall'entroterra. Almice e le sue sorelle lo avevano sempre visto nascere dal mare. I tre avevano trascorso la notte irrequieti, chiudendo gli occhi per piccoli istanti per riaprirli di nuovo spaventati con il timore di perdere il contatto l'uno con l'altro. Nerisa aveva scambiato qualche parola con una donna greca che era nel recinto adiacente. Spiegò che erano nella proprietà di uno dei più grandi commercianti di schiavi della regione. Lei era finita lì perché suo padre non aveva potuto pagare alcuni debiti di gioco e l'aveva ceduta il tempo sufficiente per raccogliere l'importo necessario e riscattare la sua libertà, ma più di un mese fa. Spiegò anche che un giorno alla settimana caricavano due carri pieni di schiavi e li portavano al mercato di Tiro per venderli. L'offerta di schiavi nella proprietà sembrava essere costante.

Il disco solare era già completamente visibile quando una dozzina di uomini avanzarono verso le gabbie accompagnati da due carri trainati da coppie di buoi. Quella era anche una mattinata di mercato in città. I ragazzi si alzarono in piedi, nervosi. Due uomini si avvicinarono e loro si abbracciarono con forza, spaventati. Gli uomini li obbligarono a salire su uno dei carri. Dalle sponde di legno sbucavano lunghi pali che puntavano verso il cielo. Tenuti insieme da altri tronchi più sottili, posti in posizione orizzontale, formavano una fitta rete sormontata da un'altra fitta rete di tronchi, più sottili, come un tetto che impediva l'evasione. Sul retro, un robusto cancello si chiuse quando gli ultimi occupanti salirono a bordo del carro. In breve tempo i due carri furono pieni. Almice contò dodici persone nel suo carro e sei nell'altro. Gli occupanti dell'altro carro erano uomini più o meno tozzi, tutti con i ceppi a mani e piedi e anche tutti uniti da una stessa catena. Sembravano uomini pericolosi, a giudicare dalle misure prese dai loro custodi, otto uomini pesantemente armati scortavano il carro. Sul loro mezzo solo due guardiani li sorvegliavano, uno seduto di fronte alla gabbia e l'altro a piedi dietro il cancello. Almice si fermò quindi a guardare i suoi compagni di viaggio. Le sorelle erano in piedi accanto a lui, senza spazio per sedersi. Di fronte, accanto al guidatore del carro, cinque giovani donne che avevano circa vent'anni, con i capelli neri come l'ambra e la pelle olivastra, i loro lineamenti sembravano provenire da terre lontane. Dall'altro lato, la donna che aveva parlato di notte con Nerisa urlava ai carcerieri che si trattava di un errore, che doveva aspettare suo padre. Accanto a lei una coppia abbracciava il figlio, circa dell'età di Almice.

Videro arrivare il mercante seduto su un sontuoso palanchino ornato da veli dai colori vivaci sorretto da quattro corpulenti portatori color ebano. Il trafficante aveva indossato i suoi abiti migliori. Passò a guidare la comitiva, che si mise in marcia. Attraversarono la palizzata e si diressero a sud, Almice fu sorpreso di essersi lasciato alle spalle il sentiero che avevano intrapreso con Zamar il giorno prima.

«Dove ci stanno portando, Almice?»

«Suppongo a venderci, Janira; ma non so se a Tiro, questa non è la strada che abbiamo percorso ieri.»

«Io voglio venire con te.»

«Tranquilla, tesoro, non ci separeranno, siamo fratelli, hai sentito cosa ha detto Zamar.»

«Non ne sono così sicura.» Nerisa si intromise nella conversazione.

«Perché dici questo, Nerisa? Non ha senso che ci separino.»

«Cos'ha senso? Non cercare il senso, Almice, pensa a cosa ci è successo finora, pensa a cosa hanno fatto a quella donna.» Volse gli occhi verso la donna che continuava a chiamare l'uomo che l'aveva messa sul carro, insistendo sul fatto che di trattava di un errore. «Temo il peggio, ci venderanno separatamente, ne sono sicura.» Gli occhi di Nerisa riflettevano neri presagi.

«Non può essere, non ci credo.»

«Non preoccuparti adesso, Janira.» Almice lanciò un'occhiata di traverso a Nerisa. «Possiamo fare una cosa per essere sicuri». Le sorelle lo guardarono in attesa. «La verità è che non sappiamo quando né a chi ci venderanno. Non sappiamo se ci separeranno, cosa ci accada o chi ci comprerà, l'importante è che rimarremo vivi e possiamo giurare che, indipendentemente da quanto saremo separati, non riposeremo fino a quando ci incontreremo di nuovo.» Le sorelle avevano gli occhi lucidi, sul punto di piangere.

«Giuriamolo ora.» Nerisa afferrò con forza le mani dei fratelli.

«Sì, sicuramente ci incontreremo.» La bambina adesso si mostrava un po' più vivace.

«Giuriamolo allora.» Almice strinse anche la mano di Janira, formando così uno stretto cerchio tra loro tre. «Ripetete con me: giuro che ovunque sarò, cercherò i miei fratelli finché non li troverò e recupererò la libertà insieme a loro. Lo giuro sui miei genitori.» Le sorelle ripeterono il giuramento mentre gli altri occupanti del carro tranne la donna, che aveva già smesso di urlare contro i suoi rapitori, li guardavano senza capire le loro parole, pronunciate in una lingua straniera in quelle terre. I tre fratelli si abbracciarono con affetto, proprio come avevano fatto in innumerevoli occasioni da quando Almice aveva compiuto dieci anni. Le lacrime ora scendevano libere sulle loro guance.

La comitiva continuò a spostarsi verso sud per costeggiare una delle colline e poi dirigersi ad ovest, verso il mare. Presto fu in vista la città. Tiro era una città che dopo la ricostruzione era cresciuta lungo la costa, sfruttando le possibilità di comunicazione marittima offerte dalla sua ambita posizione geografica. Mentre si avvicinavano alla parte meridionale della città, sempre più persone andavano e venivano occupate dalle loro faccende quotidiane. Arrivarono fino ai piedi della piccola muraglia. Almice fu sorpreso dal fatto che una città così grande aveva delle mura così basse. In seguito, avrebbe scoperto che i suoi abitanti non davano più credito alle mura. La città, che un tempo si vantava di essere la più sicura e inespugnabile del mondo, era rimasta infatti imbattuta finché cento anni prima il grande Alessandro l'aveva assediata con le sue armate macedoni e l'aveva presa oltre ogni aspettativa. Sotto le mura, un notevole numero di persone continuava ad andare e venire da un luogo all'altro. La comitiva arrivò lì e si fermò di fronte ad alte piattaforme di legno molto affollate.

I carri si fermarono accanto a negozi colorati e il trafficante entrò in uno di essi. Le guardie aprirono il cancello del carro dove stavano i ragazzini e mandarono i loro occupanti in un altro negozio, costruito su una base di lunghe aste di legno scuro tese con robuste corde di canapa e spessi tessuti multicolori come pareti. I prigionieri attraversarono il negozio e uscirono da un'apertura posteriore, dove una serie di grossi pali bloccati nel terreno servivano ad incatenare gli schiavi. Era una piccola spianata nascosta nell'area esterna dove avevano lasciato i carri, lontano dagli occhi dei curiosi. Da lì i ragazzi potevano contemplare la parte posteriore delle piattaforme. Una rudimentale scala metteva in comunicazione la spianata con le piattaforme. Le guardie portarono gli occupanti dell'altro carro vicino ai pali. Come durante il viaggio, rimasero pesantemente sorvegliati.

Dopo un po', apparve il mercante. Arrivò parlando animatamente con un altro uomo elegantemente vestito con una ricca tunica di colori vivaci e raffinati sandali intrecciati ai piedi. Osservarono da vicino gli incatenati e continuarono con la loro conversazione. Il mormorio della gente all'esterno aumentò mentre il sole sorgeva nel cielo. A metà mattina, il compare del mercante salì la scala fino alla piattaforma e iniziò a lanciare appelli alle persone che si affollavano lì sotto. Le guardie presero a fatica gli uomini dall'altro carro e li fecero salire sulla piattaforma. L'uomo con la tunica multicolore offrì al pubblico il gruppo di uomini corpulenti che erano ancora sotto stretta sorveglianza, mostrando la potente muscolatura di uno di essi o esaltando la statura di un altro.

«Li stanno vendendo. Li stanno vendendo insieme.» Nerisa sembrava speranzosa.

«È vero» affermò Janira. «Ci venderanno insieme.»

La vendita continuava tra l'uomo della piattaforma e gli offerenti tra il pubblico. I ragazzi non capivano le loro parole, ma sembrava chiaro che stessero contrattando. Così continuarono per un po' di tempo, che sembrò eterno fino a quando tre di loro furono fatti scendere da alcune delle guardie, passarono accanto ai ragazzi, aizzati dalle lance delle loro guardiani e furono spinti di nuovo nel negozio.

«Sono stati venduti separatamente.» Le parole del ragazzo riflettevano una gravità e un pessimismo schiaccianti. Le sue sorelle rimasero in silenzio. Si abbracciarono di nuovo, come se fosse l'ultima volta.

La vendita sulla piattaforma continuò per gran parte della mattinata, fino a quando non fu il turno dei tre ragazzini. Le guardie li fecero salire insieme alla donna greca e alla coppia con il bambino. Tutti rimasero in silenzio, spaventati da ciò che sarebbe potuto accadere, con le catene in piedi. Le guardie del variopinto gruppo non sembravano preoccupate della possibilità che gli schiavi potessero scappare.

Dall'alto si contemplava l'intera atmosfera della piazza. C'erano diverse piattaforme, poste in un semicerchio che occupava una vasta area, molte persone si aggiravano tra di esse ascoltando le parole dei venditori e guardando la merce umana esposta lì sopra. L'uomo con la tunica policroma iniziò la sua serie di argomentazioni per vendere meglio i suoi prodotti. La folla iniziò a raggrupparsi intorno, per godersi lo spettacolo. Presto iniziarono le offerte. Quando la vendita fu chiusa, una donna carica di perline lanciò un grido di vittoria, le guardie presero Janira e la trascinarono giù. Almice e Nerisa cercarono di seguirla urlando e lottando, ma diversi colpi alla schiena li dissuasero.

Le offerte ripresero mentre i fratelli vedevano impotenti con gli occhi pieni di lacrime come Janira si perdeva tra la folla, senza avere nemmeno il tempo di dire addio alla sorellina. Il venditore alzò sempre più la voce per attirare l'attenzione di potenziali acquirenti, indicando ora uno, poi un altro. Un altro accordo fu chiuso e le guardie presero l'uomo tra le urla di sua moglie e suo figlio. L'eccitazione tra la gente aumentò. Era come se il pubblico si divertisse molto con la sofferenza degli schiavi.

Il venditore continuò con la vendita. L'asta ricominciò, senza che i ragazzi capissero cosa venisse detto. Questa volta fu più feroce, e le guardie alla fine trascinarono giù Nerisa e la donna con cui lei aveva parlato durante la notte. Nerisa, incapace di articolare le parole, lanciò uno sguardo profondo e triste a suo fratello, pensando che sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe visto. Scese i gradini come poté, le gambe la sostenevano a malapena, con gli occhi di nuovo pieni di lacrime e il cuore in frantumi.

Almice si sentì sopraffatto, aveva appena perso tutti i legami con la sua famiglia. Non si rese conto del tempo trascorso fino a quando una delle guardie non lo spinse giù dalle scale. Il giovane uscì dalle sue fantasticherie e capì di avere già un proprietario. La guardia lo introdusse nel negozio in cui erano precedentemente entrati con l'altro ragazzo. I due si guardarono spaventati senza sapere cosa gli riservasse il destino; apparentemente, li avevano venduti allo stesso padrone. Un uomo, che Almice non aveva notato prima, si alzò per salutare altri quattro che entrarono nel negozio, parlarono per un momento e uno di loro si avvicinò ai ragazzi, esaminandoli attentamente. Almice lo riconobbe come uno di quelli che erano stati nella tenuta del mercante il giorno prima, aveva una carnagione scura, naso aquilino e capelli neri, circa venticinque anni e uno sguardo gentile. Parlarono di nuovo e quell'uomo tirò fuori dalla veste una borsa di cuio e pagò con una manciata di monete il proprietario del negozio.

Con un sorriso rassicurante, si rivolse a loro, parlandogli in quella lingua sconosciuta, e due colpi di bastone colpirono il dorso dei giovani, indicando che era passata l'ora della gentilezza e che era il momento di mettersi in marcia. Almice si stava stancando dei sorrisi amichevoli e dei colpi sulla schiena.

L'uomo si diresse verso l'interno della città, entrando attraverso la porta sud della piccola muraglia. Gli altri tre lo seguivano, spingendo e deridendo Almice e l'altro ragazzo. La città era una rete complicata e caotica di strade che si snodavano, scendevano o si arrampicavano senza nessun ordine. Attraversarono quartieri densamente popolati, i cui abitanti non prestarono quasi attenzione al piccolo gruppo. I ragazzi camminavano con le catene sulle caviglie, il che rallentava la marcia. Le ferite alle caviglie di Almice sanguinarono di nuovo. Attraversarono strade puzzolenti, in alcune tratti inondate di feci e urina, emanando un forte odore che il ragazzo considerava già come abituale di qualsiasi grande città. Entrambi i ragazzi erano disorientati, le strade a zig-zag avevano cancellato il loro senso dell'orientamento. Rimasero sorpresi quando dietro un angolo apparve il mare davanti a loro. Il vicolo terminava in una stretta apertura del muro, che conduceva a un lungo viale che costeggiava la costa. Da lì proseguirono verso nord. In lontananza era perfettamente visibile quella che una volta era la città originaria di Tiro, e che grazie al grande Alessandro restò per sempre legata al continente.

La lunga strada, in realtà una stretta striscia di terra tra il mare e il muro, era piena di gente che lavorava per la pesca. Almice riconobbe molti attrezzi simili a quelli usati dal padre e dagli altri uomini del villaggio. I pescatori scuriti dal sole sistemavano le reti o preparavano il pesce per portarlo a salare nelle terre dell'interno. Alcune donne e bambini aiutavano in questo lavoro. Le barche da pesca erano in qualche modo diverse, presentavano forme più allungate nello scafo e per lo più non avevano occhi o manifestazioni divine a prua, anche se alcune a poppa mostravano una figura equina intagliata. I bassi edifici costruiti tra la strada e il muro erano molto fragili e piccoli a vedersi. Almice pensava che molti di essi all'interno ospitassero intere famiglie come la sua. Ricordò sua madre che preparava da mangiare vicino alla finestra di casa.

La strada continuava verso nord. Mentre si avvicinavano alla penisola che un tempo era la grande e inespugnabile Tiro, le piccole case lasciavano il posto a magazzini sempre più grandi. La flotta di navi ormeggiate sul fondo non era più formata da pescherecci; erano per lo più navi mercantili e qualche nave da guerra, probabilmente della stessa città.

L'uomo si voltò di nuovo verso il muro, in quel punto un po' più lontano dalla costa, ed entrarono attraverso un'altra piccola porta, zigzagando per alcune strade fino a quando non finirono in una piazza piena di mercanti che esponevano i loro oggetti sul terreno in vista di possibili acquirenti. Tessitori, allevatori, orticoltori, scribi, indovini, guaritori e venditori di ciondoli; tutto ciò di cui si poteva aver bisogno era sicuramente in quella piazza. La attraversarono nel centro ed entrarono in un'altra strada, senza uscita, che terminava in un piccolo cortile preceduto da un grande arco. Si diressero verso una porta sulla destra. Un servitore salutò l'uomo e aprì loro la porta. Entrarono in un altro cortile interno, che sembrava più un giardino che il patio interno di una casa. Alte palme indicavano spudoratamente il cielo mentre aranci arrotondati punteggiavano il cortile, circondati da siepi basse e spesse che formavano una struttura geometrica attorno agli alberi. Il piccolo gruppo si fermò all'ombra delle palme.

In mezzo al patio, un vecchio di circa quarant'anni impartiva istruzioni ad un giardiniere mentre osservava attentamente le foglie di un arancio. Il gruppo aspettò all'ombra, apparentemente in attesa di quell'uomo. Restarono in attesa per un po' mentre il vecchio continuava ad ispezionare le foglie degli aranci. I due giovani, in piedi, sorvegliati dai loro accompagnatori, di tanto in tanto si guardavano di sottecchi. Almice aveva notato che il suo compagno di sventura aveva pianto quando lo separarono da sua madre ed era rimasto a testa bassa per tutto il tragitto. Ora entrambi guardavano nervosamente il recinto in cui si trovavano. Il vecchio si avvicinò al piccolo gruppo e diede loro un'occhiata mentre si rivolgeva all'uomo che li aveva acquistati. Cominciarono a parlare in quella lingua, i loro sguardi saltavano da un ragazzo all'altro. Il vecchio si rivolse quindi a loro parlando in greco.

«Buongiorno, sono Abta, un commerciante di Tiro e a partire da oggi il vostro nuovo proprietario.» Almice fu sorpreso che quest'uomo si rivolgesse loro in greco. «Vi ho acquisito perché ho bisogno di mani forti e giovani per i miei affari nel porto e ho anche bisogno che le persone del porto parlino greco. Voi siete greci, vero?

«Sì», confermò Almice, mentre il compagno annuiva.

«Dovete sapere che ho l'abitudine di chiamare i miei schiavi per il luogo da dove provengono. Ho capito che uno di voi è di Naxos e l'altro di Samos. Quale dei due viene da Naxos?»

«Io» balbettò l'altro giovane, a capo chino.

«Bene, allora d'ora in poi ti chiameremo Naxos e tu, Samos» concluse guardando Almice. «Ora Aylos» rivolgendosi all'uomo che li aveva acquistati «vi spiegherà come funziona l'ordine a casa mia. Dovete tenere presente che sono molto severo con gli schiavi. Al minimo problema, vi venderò o vi farò giustiziare; tuttavia, se mi servite come dovrebbe essere, può darsi che alla fine dei vostri giorni vi conceda la libertà di morire come uomini liberi. Dipende solo da voi. Se avete qualche abilità o se possedete qualche virtù speciale, voglio saperlo, qualunque cosa crediate sia importante, potete riferirla ad Aylos e lui me lo farà sapere. Se non vi comportate come ci aspettiamo, verrete puniti. Se, al contrario, supererete le aspettative che riponiamo in voi, vivrete molto meglio di quanto avreste potuto vivere nei vostri luoghi di origine, non vi mancheranno le donne e se ciò che volete con gli anni è avere una famiglia vi sarà permesso, sempre che sia con altri schiavi della mia proprietà.»

I ragazzi rimasero zitti, senza sapere cosa rispondere, sebbene il loro interlocutore non si aspettasse di ricevere alcuna risposta da parte loro. Abta si rivolse ad Aylos in quella strana lingua e poi si perse nel giardino, contemplando di nuovo le foglie verdi e lanceolate dei suoi preziosi aranci.

Quando quell'uomo la portò giù dalla piattaforma, Janira non capiva cosa stesse succedendo. Tentò di opporre resistenza; ma lui la afferrò al volo e, una volta all'interno del negozio, una donna più anziana, di oltre trent'anni, le fece togliere le catene dai piedi e le mise una catena più sottile e leggera attorno al collo. Lei cercò di spiegare a quella donna che si erano sbagliati, che i suoi fratelli erano ancora sulla piattaforma, ma tutti parlavano quella strana lingua che era impossibile da capire.

La donna lasciò il negozio nervosamente, trascinando Janira con sé. Era raggiante per il suo nuovo acquisto. C'erano voluti molto tempo e coccole per convincere suo marito in modo che potessero comprare una schiava che la sollevasse dalla fatica quotidiana del suo lavoro. Le amiche le avevano detto che non avrebbe mai avuto la possibilità di acquistare una schiava per aiutare lei e le sue due figlie nella taverna. Avevano bisogno di altre mani senza pagare alcuno stipendio, la soluzione più pratica era comprare una schiava a buon mercato. Le sarebbe piaciuto pagare lo stesso per qualcuna delle schiave più grandi, di circa dieci anni; ma perse la vendita e dovette accontentarsi di quella piccola. Quella ragazza con il tempo le sarebbe stata più utile e poteva anche modellarla a suo piacimento. D'altra parte, non sarebbe stato un problema per suo marito, la sua più grande paura era che potesse esserle infedele con chiunque, compresa una schiava.

Janira afferrava la catena con le mani per evitare i colpi sul collo, sapeva già di cosa fossero capaci le catene sulle caviglie e non voleva nemmeno immaginare cosa le sarebbe potuto succedere con lo sfregamento della catena sul collo. Entrarono in città e vagarono per i vicoli intricati. Il tragitto non fu lungo. Presto arrivarono ad una casa di fango di due altezze. La donna aprì la porta ed entrò nella sua taverna. La bambina non era mai entrata in una taverna prima, ma sapeva da Telma com'era la taverna del villaggio, anche se non ci aveva mai messo piede. Sua sorella le aveva raccontato che lì si radunavano gli uomini per bere e mangiare e che in alcune avevano persino spazio per passare la notte. Quella era una grande sala, con una mezza dozzina di tavoli allungati in cui diversi clienti bevevano e mangiavano nel mezzo delle urla. La bambina abbassò la testa, vergognandosi di trovarsi in un posto come quello, che sua madre le consigliava di evitare sempre, perché una ragazza rispettabile non dovrebbe mai mettervi piede. Il pavimento era pieno di avanzi di cibo e alcuni insetti correvano tra le gambe dei tavoli in cerca del loro sostentamento. Janira si sentì disgustata, distolse lo sguardo. A sinistra, un bancone separava lo spazio dai tavoli nell'area della cucina. Un uomo grosso afferrava alcuni piatti di cibo affondando le dita nei pezzi di quella brodaglia per reggerli meglio e portarli verso uno dei tavoli. Accanto a lui, una ragazza sui vent'anni prendeva delle brocche con una mano per portarle allo stesso tavolo e spingeva via le mosche con l'altra mano. L'odore del cibo stantio inondava la stanza. In fondo, una scala dava accesso al piano superiore, la donna tese la catena e la condusse verso il fondo; lì attraversarono una porta accanto alle scale e accedettero a un piccolo cortile, circondato da alte mura appartenenti alle case adiacenti. C’era un piccolo capanno di legno pieno di buchi tra le assi e con la porta aperta. La donna si fermò dicendole qualcosa in quella strana lingua mentre indicava il capanno.

Janira dedusse che avrebbe dovuto stare lì, nel capanno, ma non sapeva cosa fare o come compiacere quella signora. La donna si avvicinò al collo della bambina e la liberò dalla catena, poi lasciò il cortile lasciandola sola e Janira sentì che un catenaccio trafiggeva la porta dall'altra parte. Si palpò il collo con le mani e si guardò intorno. Il patio comprendeva un piccolo recinto a circa dieci o quindici passi dalla piccola, le cui alte mura lo rendevano insormontabile. Il capanno era l'unica costruzione; accanto ad esso, un piccolo cespuglio, un po' più alto di lei, dava l'unica nota di colore al recinto. Si avvicinò a quella specie di stalla. Si fermò quando vide che era occupata da un paio di capre. Non le piacevano le capre, avevano occhi così strani, una volta Almice le aveva raccontato che erano esseri malvagi, ma necessari per il latte e il formaggio. Si rannicchiò sulla porta del capanno, timorosa di disturbare gli animali. Se avesse potuto avere sua madre accanto a lei, per stringerla con le sue calde braccia. Cosa sarebbe successo ai suoi fratelli? Li avrebbero venduti insieme? Ricordò il giuramento fatto ore prima sul carro, e pregò gli dèi come le aveva insegnato sua madre in modo di potersi riunire presto con loro, così che potessero trovarla.

Nerisa sentì il cuore spezzarsi mentre scendeva i gradini della piattaforma. Quando entrarono nel negozio, si afferrò alla sua compagna di sventura. Entrambe guardavano i due uomini che avevano fatto un'offerta per loro. Lasciarono il negozio, tolsero loro le catene e le legarono sul retro di un carro carico di anfore e recipienti. Salirono sul carro trainato da due buoi e si misero in marcia. Loro avrebbero dovuto fare la strada a piedi.

Camminarono per tre lunghi giorni verso sud-est, sempre a piedi, fermandosi più volte al giorno per riposare, approfittando degli abbeveratoi d'acqua per gli animali che incontravano lungo la strada. Attraversarono diversi villaggi e le persone che incrociavano di solito guardavano con indifferenza le due donne. Al crepuscolo del terzo giorno, il piccolo gruppo si appollaiò su una piccola collina e gli uomini sorrisero guardando in basso; di fronte al gruppo, il sole al tramonto illuminava con la sua luce arancione un enorme campo di viti che circondava quasi completamente un piccolo gruppo di case protette da un muro di pietra. Da quell'altezza potevano vedere le persone all'interno del recinto. Animali e persone erano occupati nelle loro faccende in attesa della fine della giornata. Il gruppo prese il dolce sentiero che scendeva verso il recinto delle case. I due uomini parlavano animatamente, indicando le viti. Cleanta, così si chiamava la donna greca, si rivolse a voce bassa a Nerisa.

«Stanno parlando delle condizioni delle loro viti, apparentemente il nostro destino sono quelle case che vediamo. Suppongo che presto sapremo cosa ci riservano le Parche

«Non sembrano persone cattive» rispose Nerisa, sorpresa dalle prime parole che la sua interlocutrice aveva pronunciato dall'inizio della marcia giorni prima. «Penso che abbiano bisogno di persone che lavorino nelle loro terre, quindi molte viti richiedono molta manodopera.»

«Sei incredibile, Nerisa, hai perso i tuoi genitori e ti hanno separato dai tuoi fratelli, sei diventata una schiava e la tua voce è ferma e sicura.» Gli occhi di Cleanta la guardarono con ammirazione.

«Non credere che io sia così forte. Mio padre ci ha insegnato che dobbiamo sempre comportarci secondo ogni momento. Non voglio essere una schiava e farò di tutto per uscire da dove sono ora e tornare dai miei fratelli. Nel frattempo, non mi servirà a nulla oppormi, devo aspettare l'occasione giusta e tu dovresti fare lo stesso.»

«Io tornare? E dove? Sono sicura che mio padre mi ha venduta per pagare i suoi debiti e continuare a giocare, e mia madre non ha fatto nulla per impedirlo. No, Nerisa, non ho nessun posto dove tornare. Non m'importa. Quando ci hanno messe sul carro per venderci, mi sono resa conto di quanto ero stata stupida a pensare che mio padre mi avrebbe tirata fuori di lì. Io non ho una famiglia, solo alcuni lontani parenti di mia madre che vivono a Rodi; quindi, sono sola.»

«Stai con me.» La voce di Nerisa era chiara, senza esitazioni. «Mia sorella maggiore è stata violentata e uccisa un paio di settimane fa. Tu hai la sua stessa età. Voglio essere la tua sorellina.» Gli occhi di Cleanta si appannarono davanti alla determinazione della sua amica.

«Hai nove anni, ma quando parli sembri più grande di me. La tua forza d'animo mi sorprende.» Sembrò esitare un momento. «D'accordo, sarò la tua sorella maggiore.» Si tennero per mano mentre gli uomini continuavano a guidare il carro e parlare dei loro argomenti, ignari della conversazione delle due ragazze.

Erano a poca distanza dal recinto quando una coppia di cani neri attraversò la porta abbaiando verso di loro e agitando le code vivacemente. Dietro di loro, due ragazzi uscirono di corsa verso il carro.

«Ciao, papà» esclamarono i giovani all'unisono, rivolgendosi al più anziano dei due uomini. Scuri di carnagione e vivaci, Nerisa calcolò che il più piccolo avesse una decina di anni e l'altro circa quindici. Cleanta le traduceva a bassa voce la conversazione dei loro padroni.

«Ciao, figli miei. Come è andata qui?» L'uomo sorrise mentre guidava il carro verso l'ingresso.

«Molto bene» questa volta rispose il ragazzo più grande. «I lavori sono stati eseguiti come avete ordinato, padre, e i preparativi per la celebrazione sono quasi pronti.»

«Bene, corri e vai a chiamare tua madre e tua sorella mentre sganciamo i cavalli.» I ragazzi corsero verso la grande casa; il carro si diresse verso una stalla a sinistra, all'interno del perimetro della proprietà. Il recinto era ampio, quasi grande quanto il villaggio di Nerisa. Una decina di edifici si trovavano nella parte interna fortificata. La zona delle stalle doveva costituire un terzo dell'estensione. Due edifici di altezza diversa dominavano il tutto, situati al centro del recinto. Senza dubbio devono essere le dipendenze dei padroni della tenuta. A destra, un gruppo di case ad un solo piano, dall'aspetto più fragile, sembravano a Nerisa l'alloggio per i contadini e gli schiavi del luogo.

Un contadino aprì le porte della stalla ed entrarono all'interno. Gli uomini scesero e lasciarono i cavalli alle loro mangiatoie. Quindi si avvicinarono all'uscita della stalla, lasciando Nerisa e Cleanta legate sul retro del carro, come se fossero parte del veicolo.

«Ciao tesoro! Quanto mi sei mancata.» L'uomo più anziano abbracciò con forza la donna che era appena arrivata. Accanto a loro c'era una donna più giovane; l'altro uomo arrossì quando la vide.

«Saluta la tua futura moglie, non essere timido.» Ora l'uomo più anziano si stava rivolgendo al suo compagno di viaggio, dicendogli di avvicinarsi alla giovane donna.

«Ciao, Thera, il viaggio mi è sembrato eterno lontano da qui.» Entrambi i giovani arrossirono guardandosi negli occhi, mantenendo una distanza di sicurezza tra i loro corpi. Una risatina li sottrasse ai loro pensieri.

«Figlia mia, futuro genero, mi sono permesso di portarvi un regalo per celebrare il vostro matrimonio imminente.» Fece l'occhiolino all'altro uomo e si voltò verso il carro avvicinandosi alle ragazze.

«Fanno parte della prebenda. Due schiave in modo che tu, figlia mia, possa dedicare tutto il tuo tempo a tuo marito e ai miei futuri nipoti, e loro eseguiranno tutti i lavori di casa.» Cleanta e Nerisa si guardarono, non era necessaria alcuna traduzione. Facevano parte della dote di nozze per la nuova coppia.

Samos

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