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AQUILA REALE

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T'ho vista ieri, irta ferrigna immobile

dietro le sbarre d'una vasta gabbia.

Non guardavi già tu la gente piccola

che ti guardava.—Ferma sugli artigli

d'acciajo, gli occhi disperati al torbido

cielo volgevi, al cielo!...—Uno scenario

t'hanno fatto di rocce, per illuderti:

perchè tu creda ancor d'essere in patria,

fra pietrami di grotte e di valanghe,

fra protervie di rupi e di ciclopici

templi, sospesi in vetta a' precipizii,

in faccia al vento che a procella sibila.

—Ma non t'illudi tu.—Vedi le sbarre,

sai che è finita.—Io voglio ora una storia

dirti d'uomini saggi, che le proprie

mani a foggiar la propria gabbia adoprano,

—d'oro o di ferro—quasi sempre d'oro:—

e bene assai la temprano e la rendono

inaccessa, e là dentro si rinserrano,

e si lamentan poi d'essere in carcere,

guardando il mondo co' tuoi occhi d'odio

vano e di vana disperazïone.

Tu almeno, tu fosti ghermita al laccio,

fosti ferita, tu, nella battaglia

feroce, prima d'esser come un cencio

ignobile fra mano al tuo nemico.

E stai senza speranza e senza gemito

vile; e chi passa ti può creder morta

o sculta in bronzo, così immota e diaccia

t'irrigidisci, chiusa in un disdegno

indomito per tutto che non sia

l'ebbrezza della libertà perduta.

E, se tu comprendessi, con un colpo

di rostro lacerar vorresti il volto

di chi t'offende con la sua pietà.

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