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V.

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A tanto era ridotto il sapiente osservatore della vita umana nel tramite dei secoli: a scrutare anime di giovinette e a rintracciare amori di villeggiatura!

Ma io medico, che dovevo curare me stesso d'un male così strano e pauroso, intravedevo ancora un progresso nella mia coscienza: dai ricordi ero passato a osservazione di cose, persone, animi; e seguendo il barlume di ragione che m'aveva condotto, quella sera, a interpretar l'animo di chi mi stava intorno e a dimostrarmi cogli altri abbastanza disinvolto e mutato, pensavo ora che potrei di nuovo essere attratto alla vita e ricuperare la facoltà di sentire. N'era prova l'amarezza suscitata in me dallo spettacolo della giovinezza e della gioia.

Però la ragione mi diceva che la salvezza sarebbe nel dimenticar me stesso; e per dimenticarmi era necessario accrescere l'esercizio della volontà.

Come? Non in cose grandi o in cose gravi poteva più esercitarsi la volontà di un uomo annichilito. Mi ripetei che bisognava mi limitassi a piccoli desiderii, piccoli affetti, piccoli doveri.

Sì, anche doveri. L'amicizia me ne imponeva uno che cercai presentare alla mia coscienza come impellente. Guido e Marcella facevano all'amore e Claudio non ne sapeva nulla. Ed Eugenia sapeva, ma taceva e annuiva? Impossibile! Bugie; imbroglio! I due giovani avevano fiducia in me, ma io non dovevo prestarmi a ciò che un giorno mi costasse rimproveri; non dovevo tradir l'amicizia. Urgeva parlar a Guido, subito.

Gli parlai infatti, appena lo vidi.

Egli mi disse che sua madre voleva un gran bene a Marcella, perchè era una ragazza senza capricci; e ne aveva discorso lei stessa, alla signora Eugenia, delle intenzioni del figliolo.

— E Eugenia?

— Interrogò subito Marcella. — Sì che gli voglio bene, a Guido — (Il ragazzone contraffaceva, nella voce, anche l'innamorata). — Allora la signora chiamò me e mi fece una predica....

— Una predica? Eugenia?

— Un discorsetto: che senza il consenso di Moser non poteva permettermi d'essere assiduo; che, d'altra parte, finchè non fossi laureato, l'ingegnere s'opporrebbe.... Capisce, lei, adesso, perchè abbiamo tanto giudizio? — conchiudeva Guido ingenuamente — Marcella io non la vedo che la sera....

— Di sera in casa....; di giorno alla finestra.

— Ahi! — Con una comica smorfia, che gli era abituale, egli significò il dispiacere d'essere stato scoperto.

Tuttavia, stando così le cose, io non avevo più nè diritti ne obblighi d'intromettermi. E Guido, in attesa della felicità, era felice. Laureatosi, eserciterebbe la professione per conservare il patrimonio; e ora studiava solo per superare gli esami. La ricchezza del padre; la fortuna di Moser; il carattere e le abitudini di sua madre; l'arrendevolezza di Eugenia, tutto era predisposto alla felicità di lui, tutto il mondo per lui. Che beatitudine!

Ma di nuovo che amarezza in me! O forse la contentezza altrui mi suscitava finalmente odio? Per fortuna non potevo odiar Mino, che mi assaliva con richieste di nuove favole. E Ortensia l'assecondava; come indovinasse che il proposito di adattarmi a loro mi farebbe bene.

Di su le ginocchia della sorella il fanciullo mi ascoltava ad occhi spalancati; entrambi mi ricompensavano di risate trionfali se attraverso i semplici intrichi portavo in salvo il debole dal forte, il topolino dal gatto, la pecora dal lupo, il bambino dall'orco.

Ma allorchè i miei ascoltatori ridevano più di cuore, io ricordavo Diderot:

«Amici! raccontiamo storielle! Finchè si dicon racconti non si pensa a nulla; il tempo passa e si compie la favola della vita senza accorgersene.»

Questo consigliava un uomo che aveva goduto il mondo con tumultuosa natura e ferrea fibra; che aveva negato Dio e proclamata la sovrana libertà della mente umana....

Ohi ma se tutte le gioie dell'amore, tutte le lusinghe dell'arte e del sapere, tutte le ebbrezze della gloria, tutte le frenesie di tutte le passioni, valgono in realtà meno che le favole della nostra fantasia, e lo scopo della vita è l'illusione, l'inganno, l'oblìo della vita, a che vivere?

.... Appunto in quei giorni, ad accrescere la mia pena, un'anima semplice e umile presso a me benediceva la vita.

Per Eugenia era imminente il «gran giorno».

La sera prima di quello Ortensia mi chiamò.

— Venga con me!

— Dove?

— Dove? Dove? Venga con me: lo saprà. Avrà una bella improvvisata.

Mi fece andar da sua madre. La convalescente era ancora alzata nella poltrona, presso l'ampia finestra, e avevan spenta la lampada, poichè la luna, quasi piena a mezzo il cielo, bastava.

Eugenia sembrava una imagine di cera in un velo di luce bianca.

— Alzata? — io dissi entrando. — Non vi affaticherete troppo?

— Mi sento così bene — rispose. — Guardate che sera!...

— Una delizia! un incanto! Par di sognare! — esclamò Ortensia, entusiasta. — Io stasera sono felice.

Felice, venne ad appoggiare la sua guancia a quella della madre, come soleva.

— E Marcella? — chiese poscia la madre.

— Sono tutti nella terrazza.

— Va tu pure, se vuoi. Da me resta Sivori.

Quando Ortensia fu uscita, sedetti. A lungo tacemmo. Eugenia taceva forse perchè io ammirassi quello splendore; ed io tacevo indifferente. Finchè dissi:

— Dunque dimani vi avremo in giardino?

Allora la mia voce ruppe l'incantesimo di quella bianca luce che nel silenzio investiva la convalescente e ne rendeva bianco il pallido viso.

— Mi porteranno giù da voi. Solo a pensarci provo un piacere....; un piacere che non so esprimere. La mia guarigione è quasi un miracolo: è vero? Bene; immaginate, Sivori, che io abbia avuto un miracolo e me ne senta degna; abbia ottenuto una grazia per me e le mie figliole, dopo il perdono, dopo un'espiazione....

Scosse il capo.

— No, è impossibile esprimere il piacere che provo a pensare che tornerò alle mie faccende, che rivedrò i fiori, che potrò girare.... Questa notte — proseguiva adagio adagio, quasi per ricuperare l'apparenza del sogno — questa notte ho sognato che prendevo dall'armadio la biancheria, per darle aria, e che l'odore della tela e il profumo di lavanda mi riempivano il cuore. Lo credete? anche adesso mi sento intorno il profumo di lavanda.

— Segno che siete guarita — dissi io freddamente —, ma che siete debolissima. Vi bisogneranno ancora molti riguardi.

L'ammonimento tolse da noi l'impressione di gioia che aveva avuta la sua voce trepida; e io non provavo che un'impressione di freddo, di silenzio e d'immobilità a guardare il lume di luna. Esanimi, gli alberi del giardino prolungavano ombre di morte. Nel cielo senza una nube il lume scialbo spegneva il palpitante mistero delle stelle e per me non rischiarava che l'impenetrabile vôlta d'aria sospesa su questo povero mondo, sbiancando con neri contrasti questo povero mondo diaccio, muto, scheletrico, quasi fosse tutto un cimitero.

Pensavo a Ortensia, a quel che aveva detto, alla sua felicità. Per lei, per gli altri, gravava al cuore una lenta dolcezza e in quello splendore un'anima fluiva per tutto e tutto era un'anima. Una creatura sola era priva di un tal senso di vaga letizia; io solo n'ero privo: il mio cuore n'era privo! Pativo in me la condanna di un'esclusione inumana; provavo una mortale stanchezza, come se su di me solo cadesse il peso di una maledizione universale. Invocavo le tenebre.

— Il piacere della convalescenza! — dissi a un tratto. — Ecco un piacere che non proverò più!

Eugenia fissò ne' miei occhi il suo sguardo appena percettibile.

Nei brevi colloqui, durante le visite che le facevo ogni giorno, avevo notato che essa cercava parlare di cose estranee a noi e piuttosto di sè che di me. Ma dopo quelle mie parole, pensò forse prossima l'ora in cui spontaneamente le rivelerei il mio animo, ed ebbe un accenno:

— Io ho da chiedervi perdono, Sivori.

— Perchè?

— Dubito che le ragazze e Mino v'importunino.... Siete troppo buono con loro, soprattutto con Ortensia....; e io commisi l'errore....

L'interruppi.

— Credete forse che io resterei quassù, da voi, se qualcuno mi desse pena o se dubitassi di dar troppo pena a qualcuno?; se non mi paresse di star meglio qua che a casa mia?; se non fossi certo che in nessun altro luogo troverei amicizia così riguardosa, così paziente? — Ma ciascuna di queste interrogazioni era cercata per attenuare la durezza che mi restava nella voce e nell'aspetto.

Invece Eugenia fu commossa essa di gratitudine. Mormorò:

— Noi vorremmo vedervi contento, Sivori....; ma comprendo che purtroppo questo non sta nè in noi nè in voi.

— In chi sta, dunque? — chiesi con violenza mal repressa. Ella non rispose subito; poi rispose:

— In Dio.

Esclamai:

— Ah Dio mi ha tradito anche lui!... Voi pensate che Dio bisogna cercarlo non nella mente ma nel cuore, è vero?

— Sì.

— Sì, perchè Dio dovrebbe esser la vita e la vita dovrebbe esser qui (mi toccavo il cuore). In tal caso (e cercai d'attenuare in forma dubitativa ciò che per me era certo) in tal caso, io comincio a temere che la vita non mi serbi più nulla, più nessun bene! Temo, Eugenia, che la mente mi abbia divorato il cuore.

— Sivori! Sivori! — pregava la buona donna. — Non vi abbandonate alla tristezza, al dubbio. Siete ancora giovane, non siete un debole....

Tacevamo di nuovo. Ingrato e tristo io invocavo Ortensia, o qualcun altro, a liberarmi, o a mutar discorso. E fui soddisfatto. Batterono all'uscio. Il cavalier Fulgosi veniva a portare i suoi omaggi, le sue congratulazioni, i suoi auguri alla «cara signora Eugenia».

— Come va, cara signora?

— Sono molto debole....

— Sfido! È stata una gran batosta! Ma adesso ne siamo fuori.... A la bonne heure!

Ripigliò:

— Eh, io lo dicevo anche con mia moglie: la nostra signora Eugenia è più forte di quel che sembra. Vedrete che se la cava; vedrete! Poi è bene affidata. Un gran bravo dottorino, quel Minguzzi!; lo dicevo ieri col sindaco: un giovane studioso, tranquillo, in questi tempi che tutti i medici fanno i socialisti e dovrebbero piuttosto essere moderati. La scienza, è vero, dottor Sivori?, deve procedere adagio. Festina lente. Soprattutto la medicina. A lei, che più che un medico è un filosofo, posso confessarlo: nella medicina io ci credo poco. Medice, cura te ipsum! E per me, di medicine non ne prendo mai.... Un po' di cremor tartaro, alle volte. S'intende però che nei casi seri, come il suo, signora Eugenia, bisognava aiutare la natura con tutti gli sforzi della scienza. Basta: ora ringraziamo il Cielo e stiamo allegri. Hurrà! Domani a desinare in casa Fulgosi si leveranno i calici alla salute della signora Moser, e mai toast sarà stato più cordiale.

— Grazie — ripeteva Eugenia, — grazie, cavaliere!

— E lei, dottore, benone? Si vede.

— Benone — io feci.

— Già l'ingegner Moser esagera a dire che il troppo studio ammazza. Eh! quando si è sani le fatiche intellettuali si sopportano come le altre.... Ne so qualche cosa anch'io....

In quel mentre al lume di luna il cavaliere si guardava alle scarpette nere e lucenti: ad una delle quali il nastrino s'era sciolto, o almeno sembrava non più del tutto uguale all'altro. Lo ricompose; e rialzando il capo guardò alla luna e l'apostrofò a tu per tu.

Casta diva.... Che sera! eh, dottore? Peccato non aver vent'anni!... Del resto, per tornare a quel che si diceva, mens sana in corpore sano; e, viceversa, se è sana la mente è sano anche il corpo. Quando non si è sani e forti, non si fanno le opere del dottor Sivori.... No, no, dottore; mi lasci dire. Non è flatterie, è verità....

— Voi siete ancora molto debole, ed è tardi — io dissi a Eugenia, alzandomi....

In faccia al destino

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