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— Sua Maestà la Regina attende.

Il conte Ercole Pagano Silf, gran Maresciallo di Birònia, dette queste parole rimase fermo nel mezzo della sala, sotto l'immensa scintillante lumiera veneziana, considerando la persona del Re.

Ludovico XII, Re di Birònia, alzatosi in piedi incominciò a camminare assalito da una palese agitazione, da un tremito nervoso. Andava e veniva davanti alla specchiera della consolle, acciuffandosi gli enormi baffi orizzontali, neri e ferrigni, fulminando sè stesso coi terribili occhi rotondi dilatati, inarcando le spalle, spingendo in avanti il petto robustissimo, aggiustandosi dipoi la giubba azzurra gallonata d'oro. — Come a vent'anni — pensava Ludovico XII — peggio assai che a vent'anni, io mi sento oggi più impaziente e imbarazzato di allora.

— Tutto è pronto? — chiese il Re.

— Tutto, Maestà.

— Fu pensato a tutto?

— A tutto.

Voleva Ludovico XII domandare se già la preghiera nella cappella Reale fosse incominciata ma non osava, non intendeva palesare di ammettere soverchia importanza a quel fatto soprannaturale, e non avrebbe voluto dopo rimproverarsene il torto. Era convinto che Dio, lo avrebbe meglio esaudito direttamente che per mezzo del prelato di corte, ma siccome altra volta ciò non era accaduto voleva che la formalità fosse adempiuta.

E il conte Ercole Pagano Silf, al quale nulla sfuggiva del pensiero del Sovrano, comprese.

— Monsignore vicario già da mezz'ora è genuflesso dinanzi all'altare acceso, dall'alba di stamane le Orsoline alzano al cielo la loro invocazione, Monsignora Superiora delle Clarisse fece eseguire il digiuno di preparazione, e nella cattedrale fu adempiuto il triduo solenne, al grido di tutte le vergini e le madri di Birònia.

— Andiamo — disse il Re interrompendolo bruscamente.

Il gran Maresciallo aprì la porta e, passato il Sovrano, lo seguì a capo basso per il lungo e deserto corridoio della Reggia.

Giunti ad una porta si fermò il Re, il gran Maresciallo l'aprì, entrò, e fattosi a un passo dalla soglia annunziò:

— Sua Maestà il Re.

Nel mezzo di quella camera tappezzata di seta azzurra a gigli d'argento, cadente di ampi ricchissimi cortinaggi, cordoni e galloni, sopra una chese longue, sorretta da innumerevoli cuscini la Regina Sofia Clementina di Birònia era distesa, cerea, quasi dormente. All'annunzio aprì gli occhi con quel terrore rassegnato ch'hanno i moribondi davanti al sacerdote che porge loro gli ultimi conforti per l'ignoto viaggio, e li richiuse quasi subito stancamente sopita.

Il conte Ercole Pagano Silf si ritirò, chiuse cautamente la porta, restò un momento a capo basso, si dette a girellare su e giù per il corridoio, e fermandosi davanti ad una finestra e levando in alto la testa e le braccia parve volesse dire: — Signore, esaudiscilo!

* * *

Ludovico XII Re di Birònia, Re assoluto, tipo straordinariamente forte di soldato, aveva da poco varcati i quarant'anni, e regnava da dodici sul trono di Birònia. Era adorato dal suo popolo che vedeva in lui degnamente e fedelmente rispecchiata secondo quella tradizione la grandezza, simbolica ormai, di Ludovico il Grande di Birònia che quattrocento anni prima aveva riunito il Regno, dichiaratane l'indipendenza, fissatane la costituzione.

Quando Ludovico XII passava fra le turbe riverenti e si volgeva da destra a sinistra coi tremendi baffi orizzontali e gli occhi sgranati, terribile, lanciando sguardi da sgherro d'operetta, le folle protese a capo chino e scoperto se ne sentivano invase beatamente e possedute tutte.

— Come gli è grande!

— Come Lui — ognuno diceva e pensava. — I baffi, gli occhi, la persona tutta!

— Come gli è Re!

— Che garbo da Sovrano!

— Quanta maestà!

Sarebbero stati tutti ben volentieri ventiquattro ore digiuni per offrire a lui un pranzo di gala, e si sarebbero sentiti tutti pieni, e se taluno avesse toccato un filo d'erba solo in Birònia non un cittadino sarebbe rimasto indietro d'un passo al suo Re per difenderlo.

Era il Regno della Birònia come una patriarcale famiglia.

Vicino alla figura fortissima del Re eravi quella della Regina, pallida e sofferente da varii anni per una nevrosi cardiaca che le si andava aggravando ogni dì, e la faceva rimanere sempre colla bocca aperta come i pesci.

Raramente essa poteva mostrarsi al popolo così malata com'era, ma quando nelle grandi solennità dello Stato vi era costretta e gli compariva boccheggiando e dolorosamente sopita, ognuno guardandola in espressione desolata e amorosa pareva supplicare: — Signore! Perchè, perchè non l'hai esaudita? Perchè l'hai voluta sì infelice?

* * *

S'era poco a poco addensata una nube sul limpido cielo di quel Regno, una nube che pareva oscurare dalla fronte del Re quella dell'ultimo cittadino.

E quando il Sovrano assorto nel pensiero divenuto fisso, dava un enorme pugno sulla tavola, quello che si chiamava in Birònia il pugno di Ludovico, e venivano a quel modo prese le decisioni supreme dello Stato, e il giudizio inappellabile del Re era pronunziato, non si poteva più dire ch'esso fosse divinamente puro, che un riflesso di quella nube ne turbava la serenità.

Il conte Ercole Pagano Silf, gran Maresciallo di Birònia, era il regolatore di quel pugno, e faceva colla sua parola, collo sguardo, coi suoi mezzi tutti a che il braccio del Monarca si movesse il più possibile in tempo, ed era riuscito, l'eminente uomo di Stato, a farglielo tenere su alzato per tre quarti d'ora interi e a fargli dare il pugno proprio nel momento giusto.

Quando Ludovico XII, allora Principe ereditario di Birònia, sposò la principessa Sofia Clementina Spifz Mai de Burgo Manèro, nove mesi in punto da quel giorno benedetto vide la luce la bella principessa Eufrasia ora diciottenne. Esultò il popolo all'avvento, e non molto tardò a nuovamente esultare quel popolo sapendo che un nuovo dono regale attendeva dall'augusta coppia e fu la principessa Angelica, alla quale seguì a breve distanza, quello delle principesse Giovanna Francesca, e Maria Carolina. E siccome era tradizione dei Ludovichi avere numerosa e fiera prole seguirono dipoi gli avventi delle principesse Olimpia, Zelinda, Zaira, Colomba.

E fin qui nulla avrebbe turbato la pace del nostro Sovrano e del Regno tutto della Birònia se a tale punto, per la fatica dei parti troppo frequenti non ne fosse uscita turbata la salute della Regina Sofia Clementina, che venne assalita da una ancor lieve affezione di cuore per la quale i medici del regno e quelli chiamati dai regni limitrofi, si pronunziarono per un certo periodo di riposo dai doveri coniugali, e sopratutto a che Sua Maestà non avesse dovuto subire a breve scadenza le fatiche di una nuova gestazione e di un parto conseguente, per non dover gravemente risentirsene in salute.

Attese fiducioso il Re di Birònia, e non appena l'augusta consorte parve guarita andò a lei con tutto il suo poderoso slancio e la più ardente speranza sicuro che quella sarebbe stata la sua ultima fatica e insieme il coronamento di tutte le altre.

Non mentì il sangue Ludovico, la graziosa signora potè in breve fare annunziare a tutto il popolo suo che l'avvento troppo lungamente anelato era prossimo.

Tutto fu alla Corte preparato colla sicurezza nel cuore, e primo il Re, dopo quasi due anni di tregua, dopo la malattia della Regina, certo sarebbe giunto quello ch'era aspettato in Birònia come il messia, l'erede, colui che doveva essere Ludovico XIII.

Giunse il parto assai scabroso per la debolezza della Sovrana che fu dovuta sostenere con farmachi, e quando il Gran Maresciallo si presentò a darne annunzio al Re, che aspettava trepidante, comprese il Re da quello sguardo.

— No! No! — gridò Sua Maestà — Vai via sai, brutto pagliaccio che non sei altro, via!

E questa nuova principessa fu chiamata Geltrude.

* * *

Da quel giorno si oscurò la pace del felice Stato.

— Sangue Ludovico! — urlava ora spaventosamente il Monarca come un'invocazione una minaccia e una bestemmia.

Le nove principesse erano state segregate all'ultimo piano della Reggia, e venivano condotte a prendere aria per i giardini nelle ore che il Re dava udienze, acciò egli, attratto a carezzarle per quel dolce istinto paterno che è in tutti gli uomini, non venisse assalito dal pensiero orribile, che lo turbava dì e notte, proprio nel momento che le piccole teste gli erano fra le mani e non si sentisse lanciato a stritolarne una senza potersi rendere responsabile del suo operato.

Cadeva il Regno nelle mani dei Ludovichi Giulii, ramo bastardo dei Ludovichi, e che viveva fuori Regno. Senza dubbio essi avrebbero stretto alleanza cogli Sgòrpi, dominatori di quattro secoli prima, vinti e cacciati da Ludovico il grande con soli settantasette uomini. E sulla piazza dei Settantasette era il monumento equestre di Ludovico il Grande. La Birònia sarebbe divenuta un lacchè della Sgorpìa. Tutto finiva, la tradizione eroica, tutto cadeva, era la fine dei Ludovichi!

E tutto perchè una donna, una pallida donna dannata non riusciva a dare alla luce che delle miserabili principesse. Quale gastigo! Era dunque maledetta? Che aveva in corpo costei? E quella che aveva adorata e stretta nelle estasi pure della giovinezza prese a odiare come il peggiore nemico. Per la sua mano, per la sventura che l'aveva segnata tutto cadeva, Birònia, dinastìa, Ludovichi, la pace, tutto! E sapeva che il popolo con lui ne soffriva quanto lui.

Il conte Ercole Pagano Silf, aveva tentato di condurre il sovrano a riflettere, si sarebbe potuta ritoccare la costituzione ed ammettere la donna al regno. La bella principessa Eufrasia sarebbe stata una regina meravigliosa.

— Mai! — urlava il Re. — Mai!

Sotto il regno dei Ludovichi la femmina era stata amata solamente come tale, ma non le era stato concesso da nessuno dei dodici Re l'ombra di accesso nelle cure dello Stato. Furono le donne dei Ludovichi sagge ed ottime spose, e migliori madri; giunse taluna ad occuparsi colle proprie mani della cucina della Reggia, non più in là. Che direbbero gli occhi di Ludovico il Grande dalla Piazza dei Settantasette nel vedere un giorno una gonnella ai suoi piedi, sul suo trono, per la festa della costituzione?

— Mai!

Il buono e saggio Maresciallo aveva anche consigliato qualche strattagemma per salvare la situazione e il Regno dalla rovina, avrebbe potuto il Re segretamente giacersi con altra donna, fingere una nuova gestazione della Regina, operare sapientemente il baratto, come in mille altri casi del genere erasi usato.

— Mai!

E su questa faccenda il conte Ercole Pagano Silf non era mai riuscito ad attaccare un filo solo al braccio del Monarca e il pugno Ludovico era sempre caduto disperatamente senza pietà e fuori di tempo.

Non c'era che una via, sottoporre la Regina ad un'ultima estrema prova e fu fatto. I medici, dopo avere preparata l'augusta donna al cimento, e avere cercato prima ogni mezzo per sollevarla e rinforzarla, si espressero che pure essendo assai pericoloso il farlo si poteva tentare, e fu l'avvento, il decimo, della principessa Genovieffa.

E siccome Sua Maestà aveva resistito, pure soffrendo orribilmente, Ludovico XII con tutta la furia della sua disperazione la costrinse brutalmente ad un undicesimo fatto del genere che fu l'avvento della principessa Penelope, durante il quale la Regina fu dichiarata perduta.

Nè si sa come riuscì dipoi a tenersi in vita, ma rimase in condizioni tali da non potersi più sollevare, e colla bocca sempre aperta come i pesci.

* * *

Era avvenuto da due anni il parto tragico della principessa Penelope.

Il Re compariva ora solo, come un vedovo, nelle grandi solennità dello Stato, guardava torvo, minaccioso, il popolo suo, ultimamente aveva firmato una sentenza di morte colla più grande naturalezza di questo mondo, cosa mai avvenuta in Birònia. Tutto il Regno ne era turbato, sconvolto.

Consultati ancora una volta e chirurghi e ostetrici e specialisti e fattone venire uno apposta dall'America, dopo due anni sua Maestà si era ridotto a questo ultimo inumano tentativo pure nella certezza che la Regina vi sarebbe rimasta definitivamente uccisa.

Ma che voleva dire ormai? S'ella avesse dato alla luce l'anelato erede? L'eroe! S'ella moriva, moriva sì eroicamente per la sua patria! E il conte Ercole Pagano Silf, e tutti i dignitari e medici della corte, e lo stesso monsignore Vicario, e Monsignora Superiora delle Clarisse, e Monsignora Generalissima delle Rocchettine ve l'avevano persuasa.

E allorchè il Grande Maresciallo di Birònia fu ad annunziare che Sua Maestà la Regina lo attendeva nella camera dell'appartamento ufficiale dove la prima volta l'aveva stretta fra le sue braccia possenti, folle di amore e di desiderio, vergine, forte e bella, si sentì invaso da un tremito convulso, egli andava per l'ultima volta da lei quasi morente, ella si era rassegnata a soggiacere ancora una volta, poteva darsi che gli rimanesse cadavere fra le braccia, pareva che l'odio gli si placasse in cuore e vi rinascesse l'amore, per quella donna che poco a poco aveva dovuto odiare, ma che tutto il suo istinto avrebbe portato all'adorazione. Certo, prima di darle quella suprema stretta le sarebbe caduto ai ginocchi ed avrebbe pianto con lei come un fanciullo in una più viva commozione di quando soli a vent'anni si dettero il primo bacio, ora che la sorte dopo tanto amore li aveva rabbiosamente divisi.

Due ore dopo la porta della camera regale fu aperta ne uscì il Re, e vi entrarono con premura il medico e il chirurgo della Corte e le infermiere e cameriere, e di lì a poco il Vicario. Il Gran Maresciallo che aveva vegliato e forse sperato e pregato, seguì in silenzio Sua Maestà che rientrò senza dir motto nelle sue stanze.

* * *

Il sangue Ludovico che mai non mentì ebbe ragione anche questa volta e pochi giorni dopo il popolo di Birònia seppe quello che doveva aspettare.

— Santa creatura!

— Angelo sulla terra! — Gridava ogni cittadino.

— Ella muore per noi!

— Per salvare la sua patria diletta!

La Regina fu dovuta assistere durante la pericolosissima gestazione quotidianamente con farmachi, caffeina, morfina e cocaina e strofanto. Il Re rimase torvo, cupo, levando ora la testa al cielo in atto che voleva essere di preghiera ma che pareva di atroce minaccia e di bestemmia, ora l'abbassava alla terra quasi volesse schiacciarla tutta come un rettile sotto il tallone, ora fissando paurosamente gli occhi sbarrati sul povero Maresciallo che sembrava divenuto la causa di tutta la sventura.

Quando il conte Ercole Pagano Silf comparve tremante ad annunziare al Sovrano che Sua Maestà la Regina era stata assalita dal tremito del parto questi gli fu addosso e afferratolo per la nuca lo schiacciò a terra: «Odi, brutto pagliaccio che non sei altro, vai, annunzia al popolo l'erede del trono o sei morto».

Sette ore dopo, fra gli squilli altissimi delle trombe e delle campane, e sventolare di bandiere e di fazzoletti e cenci tutti della Birònia, il conte Ercole Pagano Silf, Gran Maresciallo, apparve al balcone della Reggia dove la porpora era distesa ed annunziò che Ludovico XIII era nato vivo e vitale!

Solo allorquando l'urlo della gioia più selvaggia, ch'era sprigionato così naturale dal seno di quella folla, fu potuto un pochino acquetare, con gesto lento, con voce spenta, dolorosamente il buon maresciallo annunziò che Sua Maestà la Regina Sofia Clementina era agonizzante.

* * *

Lontano dagli occhi di tutti cresceva il giovine principe. Si sapeva che mai non usciva dalle mani del suo istitutore, e mai non doveva uscirne, uomo straordinariamente dotto e rigidissimo appositamente fatto venire da Tatillon.

Pure anelava il popolo di potere anche fuggevolmente vederlo, il suo giovine Re, ma non gli veniva concesso che assai di rado nelle più eccezionali solennità dello Stato, quando vi compariva alla sinistra del Monarca. Oh! Come ne gongolava tutto in quei giorni, in quei brevissimi istanti che gli era concesso goderlo.

— Quali fattezze!

— Che pelle vellutata!

— Quali sguardi di fuoco!

— La magnificenza dei capelli!

— Come le ali dei corvi!

— Le labbra coralline!

— La bianchezza dei denti!

— Tu ci hai fatto languire ad aspettarti perchè eri tanto bello!

Si sapeva già di certi gesti imperiosi del Principe, di sguardi sdegnati che avevano abbruciato interi personaggi nella Corte.

— Oh! s'egli era giustamente superbo d'essere tanto bello e tanto grande!

Di tutti i Ludovichi questo, il più agognato, era il più bello e il più sovrano, nella sua eccezionale figura.

La povera Regina s'era spenta nel dare alla luce un simile prodigio, era rimasta ancora per quattro anni colla bocca spalancata in agonia, prima d'esalare la sua anima purissima a Dio.

Ma che voleva dire? Ella si era tutta sacrificata per la patria adorata, il sacrificio era stato a pieno coronato, s'era trasfusa intera in lui, e in lui più grande risplendeva, e la si venerava già come una martire santa.

Lo stesso Ludovico XII, dopo la nascita dell'erede si era placato, offuscato, si sentiva più poco la sua presenza in ogni cosa, e infine il suo pugno di ferro s'era fatto mansueto, e il conte Ercole Pagano Silf poteva oramai manovrarlo come un manico qualsiasi attaccato alla spalla del Re.

Un giorno, il bellissimo principe sarebbe stato incoronato! Con quale grandezza avrebbe salito il trono, e cinta la corona e vestito l'ermellino! Gli sarebbe stata scelta una sposa degna di lui, e tutto ritornava a sorridere lietamente in Birònia dopo il dramma delle undici principesse, e della infelice Regina Sofia Clementina.

D'anno in anno le principesse crescevano e andavano spose alle più lontane e vicine corti, e venivano per loro mezzo strette nuove e salde amicizie, in tutto era tornata la pace e la felicità.

* * *

Compiva il ventesimo anno il giovine Principe, e Ludovico XII Re di Birònia, moriva.

Si sa che negli ultimi istanti della sua vita volle al suo capezzale solo il figlio, e che proprio prima di chinarvi sopra la testa definitivamente fece chiamare ancora una volta il conte Ercole Pagano Silf, che rimase fino all'ultimo presso il morente Sovrano, e a fianco di quello che sorgeva.

E per primissima cosa terminati i funerali imponentissimi di Ludovico XII ed il lutto brevissimo, se pure angoscioso e sincero, fu deciso di dare una sposa a Ludovico XIII.

Il popolo reclamava il giusto atto, reclamava una Regina, della quale da tanto si sentiva privo, degna di tanto Re.

E fu precisamente alla corte di Caudiria che una delle più pure e soavi principesse della terra gli venne destinata.

I giorni che precederono le fauste nozze tutto il popolo andò sottosopra per l'avvenimento, ognuno coltivò fiori nel campo e nel giardino, nell'orto, sopra il balcone, e in un testo, nell'angolo del più umile davanzale fiorì una rosa per quel giorno e fu la Birònia un solo giardino.

Il Re di Caudiria conduceva di sua mano la graziosa principessa fino alla soglia della Reggia di Ludovico XIII dove l'altare era inalzato, ai piedi del quale ei l'avrebbe impalmata dinanzi al popolo.

Come egli fu bello quella mattina benedetta dal più smagliante azzurro del cielo, dal sole più fulgido, si sarebbe lasciato uccidere ogni cittadino per un suo bacio.

Escono maestosamente dalla porta della reggia le guardie reali, e dipoi i componenti il corpo diplomatico e corpi religiosi, i grandi dignitari della Corte, le dame, i cavalieri, gli ufficiali, squillano alto nel cielo le trombe d'argento e il tutto s'apre in due bande, appare alla soglia il Re coronato, fermo, alto, superbo, lanciando con divina semplicità tali sguardi fieri sulle plebi in ginocchio ammonticchiate, nella polvere.... tali sguardi che ognuno implora dal cielo gli sia messo quel piede sopra le spalle per sentirsene schiacciato e posseduto.

Altre trombe d'argento rispondono come coro di angeli dal fondo del viale, una berlina come cigno d'oro si muove e al volo s'avanza. Il Re di Caudiria conduce di sua mano la sposa, e appena la berlina giunge e si ferma ne discende essa e il padre l'accompagna ai piedi dell'altare dove Ludovico XIII con un sorriso sovrumano, alzando il braccio verso di lei, intreccia la sua in quella mano, e insieme sul broccato d'argento s'inginocchiano.

Nel silenzio della piazza e degli attigui viali, scoppiano e sussultano i singhiozzi di tutto un popolo, nessuno ha saputo contenere il pianto.

E quante volte volle poi quel popolo che i graziosi sovrani venissero al balcone della Reggia, mai dissetandosi di quella religiosa ammirazione, nessuno poteva mai sentirsene satollo. E quel popolo che aveva trascorsa la notte intera sul piazzale, che nemmeno la fame sarebbe stata capace di allontanare, avendoci portate le provvigioni, incominciò i bivacchi, furono accesi i fuochi dell'accampamento, in attesa del dì seguente, per l'incoronazione del Sovrano e della sua sposa.

* * *

Congedati i grandi dignitari della Corte, quelli delle cariche, i gentiluomini, i cavalieri, le dame, gli ufficiali, tutto quanto il corpo diplomatico e corpi religiosi, i giovani sposi vennero alfine lasciati soli. Ultimo a congedarsi fu il vecchio conte Ercole Pagano Silf, che, fattosi presso al Sovrano, balbettò qualche parola sommessamente, guardingo, in aria sospetta, alla quale il Sovrano rispose con una mossa della più brusca e completa seccatura.

Aveva proprio bisogno di essere lasciato solo Ludovico XIII, anelava un'ora di tranquillità e di riposo dopo la scena snervante del suo matrimonio, il ricevimento ufficiale.... e il resto, non ne poteva più.

Ora andava di finestra in finestra per il salone che era quello delle conversazioni e precedeva le stanze private del Re e della Regina. Guardava assorto i bei colli della Birònia seminati di ville e di villaggi, alzava di tanto in tanto la testa al cielo come per trarre un più lungo respiro, torcendosi un po' nei regali indumenti quasi vi si fosse sentito troppo stretto, ed avesse una grande voglia di sciogliersi.

Nemmeno degnando di uno sguardo la tenera sposa che rimasta ferma presso un tavolo gelido di musaici, colla mano appoggiatavi appena come sul ghiaccio, tremante quale colomba attendeva senza il coraggio di alzare il capo d'oro, un po' stopposo, sul suo Re, sullo sposo suo, sul giovane bellissimo dal quale attendeva vacillante e ignara una prima stretta.

Fece ancora alcuni passi dall'una all'altra finestra, Ludovico XIII, e poi, come avesse dato corso ad ogni suo pensiero, e si sentisse stanco e seccato si lasciò andare sopra una di quelle ampissime poltrone ad occhi semichiusi.

Fu dopo alcuni minuti di questa posizione, che scossosi e riaperti gli occhi, come sovvenendosi che un'altra persona era lì con lui nella stanza, e che forse aspettava proprio una sua parola, un gesto, qualche cosa da lui, la sua sposa, ancora in piedi, colla fronte a terra, avvolta ancora nei veli candidi....

— Uhm.... — Sorrise Ludovico XIII scorgendola in quella posizione. — Uhm.... siediti cara, siediti pure, sciogliti, mettiti pure in libertà, fai il tuo comodo sai, anche te poverina devi essere stanca e stonata quanto me, levati, levati pure, io sono addirittura smembrato, mi sento la testa come un tamburo. Dio mio, che corvè! Uhm.... — la considerò bruscamente, immobile — che faccia da stupida che c'hai — pensava. — Oh! ma non ne hai mica colpa te, te l'hanno fatta così.

Si alzò, andò ancora verso una finestra, ma il suo pensiero era ora vicino, lì in quella sala dalle grandi cornici che si attorcevano dappertutto come serpenti d'oro, dove lui era colla giovine donna quasi rattrappita dal suo contegno stranamente indifferente.

— Già.... — prese poi a dire come chi non sappia incominciare un discorso difficile — già.... eh!... povera piccina.... Eh! sei venuta qua.... anzi, ti hanno portata qua, te ci sei venuta.... come un salame, non è vero? Povera creaturina! Sposa al più bel Re del più beato regno della terra....

Andò ancora per la sala, imbarazzato dalla difficoltà delle proprie parole, e per nulla aiutato dal contegno passivo di lei, ma poi, avvicinandosi dolorosamente, accigliato: — che dici, che pensi di me, che da un'ora sono qui e non ti abbraccio, non corro a ricuoprirti di baci e di carezze, ora che sei mia, e non ci avvinghiamo insieme immemori di tutto colla forza dei venti anni nostri?... Povera piccola mia, sai? — e più le si avvicinava pietosamente carezzevole, con una grande amarezza nelle parole; ella non sapeva più dove nascondere lo sguardo per la soggezione, la gola le si era serrata, gli occhi le si velavano, credendo che il momento ignoto fosse giunto, tremava sentendosi così vicina la bella persona profumata, ancora stretta nell'uniforme sfolgorante. — Un orribile inganno pesa su te, su me, un orribile inganno, un destino perverso ci tiene nel suo pugno e ghigna e ride in quest'istante della nostra sciagura. Guardami, guardami, alza la faccia, alza la faccia sopra di me, guardami, ma guardami per Dio! — Alzò la testa spaventata la Regina, e parve che gli occhi arginassero un rivo di pianto che fosse per isgorgarvi, guardami cara, la mia pelle, la mia bocca, il mio sguardo, i capelli, le mani, ma guardami per Dio, non ti accorgi, di nulla ti accorgi? Non senti?... Che senti vicino a me?... — Due grosse lacrime riuscirono a sgorgare ed irrigarono le guance rosee della fanciulla che guardava il Re senza nulla vedere, nulla comprendere, colla confusione di un bambino che si senta rimproverare da una persona della quale abbia la più grande soggezione. — Guardami.... ti sembra davvero che io sia il tuo Re? Lo sposo tuo? Che senti vicino a me? Non ti agghiaccia un poco — le prese la mano fra le sue — la stretta della mia mano troppo morbida, e troppo bianca? Ti pare, dimmi, che con questi occhi possa io impossessarmi della tua piccola anima intera, di te? Povera piccina mia, sai, non sono un Re, non sono il tuo Re, il tuo sposo, trascino da venti anni sopra la terra la più ridicola menzogna, ed ho giurato a mio padre, al suo letto di morte di trascinarla sempre, sono dannato a questa pena, questo solo tu dividerai meco, questa ridicola e infame menzogna, questo solo ci unisce. Sei stata trascinata con me in un gorgo infernale, questo solo ci unirà. — Vagò ancora per la stanza scuotendo dolorosamente la testa, guardando coi grandi occhi perduti nel vuoto dinanzi. — Sei venuta sposa.... al più bel Re del più beato regno della terra — rise ghignando amaramente scandendo una ad una le parole — bello come quello delle favole, non è vero? — Rise ancora torcendo la bella bocca. — Non sono il tuo Re mia cara, no, no, eccoci qui, siamo due regine.... — spalancò le braccia — proprio così — e le lasciò andare giù morte lungo la persona.

Andò ancora Ludovico XIII verso la finestra che guardava i colli verdeggianti della Birònia inondati dal sole.

— Oh! Ma non è per te sì crudele la sorte, tu, rifatta dallo stupore, abituata a rivestire l'inganno atroce che ci avvince e nel quale siamo insieme rinchiusi come in una botte di ferro, potrai ugualmente essere felice, non disperare. — Si volse a guardarla ancora nella primitiva posizione piangendo silenziosamente pure senza capire, piangendo per il disagio di quel momento senza scorgere più in là, senza rendersi ragione nemmeno un poco di quelle parole, di quel contegno così inaspettato, sentendo che qualche cosa di ignoto e di orribile era su lei.

— Vieni, vieni, guarda, disse ora il Re nella persuasione ch'ella avesse seguito e compreso il suo discorso, le andò ancora vicino e la prese per la mano dolcemente come si fa con un fanciullo al quale si voglia ristagnare il pianto conducendolo finalmente alla cosa desiderata, una chicca o un balocco, la portò presso la finestra e le cinse il collo affettuosamente e se la strinse al petto — guarda guarda cara, là, in fondo allo scalone, vedi quello lì, la guardia, la guardia, vedi? Guarda come è bello nell'uniforme di gala, come è fiero, alta la testa, avrà.... poco più di vent'anni, come noi, è uno dei giovani più belli del Regno, dei più forti, è perfetto come un cavallo di sangue, sono le nostre guardie d'onore quelle, le tue, guardie fedeli come i cani, dove tu sei vigilano su te, sul tuo respiro, guarda come i calzoni gli serrano bene le gambe robuste, guarda, su, alla coscia, guarda, sembrano nude, lo vedi? e le mani forti stringono la sciabola, con quanta vigoria, e quanta grazia! Oh! s'egli potesse imaginare che in questo istante noi lo guardiamo avvinti dalla sua bellezza! Pensa quale languore deve dare la sua stretta, pensa, nell'oscurità della notte sentirlo arrivare clandestino dentro la tua stanza furente di desiderio, pazzo di voglia, prenderti e stringerti, possederti tutta, e abbandonarti svenuta fra le sue braccia dopo di averlo atteso, atteso, ed ogni istante esser sembrato un anno! Pensa! Guardalo, com'è bello! Appena ha ombrato il labbro superiore; guarda la sua bocca fieramente chiusa eppure dolce, pensa immergere le tue in quelle labbra, perdertici dentro, ah! che morsi deve dare quel boia! Guardalo, ce ne sono tanti sai alla corte, ci sono i bruni, come lui, hanno degli occhi che ti spogliano se ti guardano e ti frugano e ti arrivano fino in fondo dove più non è vergogna e ragione, non è pudore, hanno delle grandi sopracciglia folte, e ci sono i biondi, belli quanto gli altri, e sono cose tue, tu, spiando dalla finestra, puoi scegliere quello che il tuo capriccio il tuo desiderio vorranno, e con un solo cenno, senza parola, la donna che ti è stata destinata te lo farà la notte giungere fra le braccia, anche stanotte istessa se vorrai, e potrai chiamarlo ancora e sempre, quando vorrai, ed essere felice, e se ne vorrai un altro, potrai averlo, e un altro ancora, tutto potrai, tu sei la Regina, padrona di lui, puoi farlo uccidere se vuoi.... e puoi essere la sua schiava. Tu.... tu sei felice.... ma io.... io.... — lasciando la spalla rattrappita della donna Ludovico XIII si portò una mano alla testa arruffandone i magnifici capelli in atto di disperazione — io.... no! Nulla è per me, il deserto è nel mio cuore, la tortura più infame è nei miei sensi, io sono il Re, intendi? — A questa frase ch'egli pronunziò imperiosamente alzando terribile l'indice al cielo e lo sguardo fisso, dilatato, la giovane Regina alzò la testa e lo guardò con tale faccia trasognata e rasciugata, spalancando gli occhi, scostandosi poco a poco da lui, indietreggiando cauta inorridita, assalita da un tremito di paura orrenda. Era un pazzo dunque quello che le si era destinato per marito, un folle orribile, questo solo comprese finalmente, nulla avendo potuto afferrare del resto. Era la follìa, e tentava ora istintivamente di fuggire a quelle unghie atroci che già si sentiva affondare nel collo.

Rise, rise, Ludovico XIII comprendendo il suo terrore. — Ma che! ma che! grulla! ah! che grulla! ma che! stupida! Non ci credi? Vedrai, vedrai, poi, ti farò vedere. Ora quando ci spogliamo, vedrai, vedi, se mi tolgo questa corazza che mi serra sono come te, ce l'ho anch'io il seno, guarda, come il tuo, tutto come te, sì, le poppe, come te, più belle delle tue, vedrai, grulla!

Ma ella sempre più rattrappita rientrava in se stessa colla gola serrata indietreggiava verso la porta chiusa nella certezza di non potere più sfuggire alle grinfie orrende del mentecatto, come avesse voluto scomparire sotto il pavimento. E Ludovico XIII lasciandosi tutto andare sopra una di quelle ampissime e morbide poltrone rideva, rideva. — Ah! Ah! Ah! Ah!

* * *

E nell'ora dell'incoronazione la mattina seguente, e al pranzo di Corte poi, fu Ludovico XIII di una grazia e di una gaiezza divine. Pareva sprigionargli dagli occhi una felicità non più terrena.

La Regina gli sedeva accanto colla faccia cerea, un poco contratta e sofferente di chi non abbia potuto dormire per una notte intera. Ma di lui solo s'occupavano tutti, affascinati dalla sua prodigiosa e pur delicata figura che tutto illuminava e riscaldava.

— Come gli è bello!

— E come è felice accanto alla sua sposa che pare una tortorella spaventata.

— Dopo tanto trambusto di emozioni....

— Il viaggio....

— E la notte?

— Dove la mettete la notte?

— Come deve averla conciata!

— Poverina!

— Tutti così i Re di Birònia, tutti così!

E intanto che la cerimonia lentamente si svolgeva Ludovico XIII che tutto cercò di illuminare intorno col suo sguardo e il suo sorriso, sopra la piazza dei Settantasette non volle lasciare all'oscuro alcuna delle magnifiche guardie reali che ai piedi del baldacchino impettite e immobili per quattro ore rimasero come statue.

— Guarda, guarda — balbettò ad un certo punto impercettibilmente alla sua sposa. — Guardalo come è bello eh? È quello di ieri. Sì quello di ieri, ti ricordi? Alla finestra? Bello eh? Ti piace?

Videsi il collo della Regina ingollare un singhiozzo e gli occhi due lacrime, e un «no» amarissimo parvero rientrare quelle labbra tremanti.

— A me sì. Come ti guarda! E guarda anche me, figlio d'un cane. Sapessi un po' te che ci sta sotto!

E allorquando infine si avanzarono i paggi seguìti dal Gran Maresciallo di Birònia Conte Ercole Pagano Silf, e da tutti i dignitari della Corte e dalle altissime cariche dello Stato, e dal corpo diplomatico e corpi religiosi, e i cavalieri tutti della Rosa di Birònia, e dame e ufficiali, e furono i paggi inginocchiati ai piedi del trono reggendo alto il cuscino di porpora, e le voci bianche, accompagnate da cento violini intonarono l'inno a Dio, s'alzò Ludovico XIII, erano le plebi nella polvere protese, e presa la corona di diamanti dal cuscino se la pose lentamente sulla bella testa, con tale gesto sì solenne e grazioso ad un tempo, come Re di nessun popolo di nessun tempo potè avere mai. E fu un vero miracolo se ognuno di quei cittadini non ne ritornò, per la gioia, pazzo alla propria casa.

* * *

Circa tre mesi dopo questi memorabili avvenimenti, una mattina il vecchio Maresciallo conte Ercole Pagano Silf veniva di premura chiamato in udienza privata dal Re.

Ludovico XIII era ad attenderlo seduto al suo banco di lavoro con la consueta aria seccata e distratta colla quale sbrigava con lui le faccende più gravi dello Stato, accettando sempre con sorridente ironica naturalezza, ogni consiglio dell'ormai infallibile uomo di governo.

E non appena questi fu entrato e la porta fu bene richiusa dietro a lui, gli fece cenno, il Sovrano, con l'indice della sinistra di avvicinarsi più del consueto.

— Maresciallo, voi dite sempre: «poche parole» non è vero?

— Così è Maestà.

— Poche parole dunque: sono gravido.

— Oh! Sua Maestà!

— Il Re, proprio lui.

— Oh! che sciagura!

— Che sciagura d'Egitto? E non si sa che le donne fanno i figlioli, che è una cosa nuova?

— Sì, sì, ma voi....

— Io io io.... io. Così doveva finire.

— E come fu?

— Fu.... fu una cosa molto semplice, semplicissima, non dovevano venir di sopra quei giovinotti, i dragoni, per la Regina, la notte?

— Sì.... ma....

— Non siete voi che avete combinato il trucco?

— Oh!

— Già, e siccome la Regina poveretta è la più citrulla creatura che sia sopra la terra, non ne ha voluto sapere, perchè crede sempre che io sia il Re, e badate, non c'è da dire che non glie l'abbia fatto vedere che cosa sono io, ma lei è tanto grullerella che non se ne persuaderà mai, non gli c'entra, è inutile. Ho tentato di mostrarle.... tutto quanto, si cuopre la faccia e scappa inorridita con la stessa vergogna come se si trovasse davanti a un uomo davvero. D'altronde, non può farsene una ragione e non ha poi tutti i torti, via.... convenitene, è un bel trucco, ma bello davvero.

Il vecchio Maresciallo chinava la testa sotto il peso della nuova arruffatura nell'intrigo reale del quale un giorno la disperazione l'aveva reso autore.

— Allora.... allora — riprese Ludovico XIII con molta disinvoltura — non avendone voluto saper lei, l'ho pregata, anzi, sarò sincero, ce l'ho quasi costretta, a farmene sapere qualche coserellina a me, non ne potevo proprio più sapete, scoppiavo.... ed ho preso il suo posto. Del resto nemmeno questo è bastato a convincerla, sì, ci vuol altro....

— Oh!

— Che ragazzi, Maresciallo! Con quelli là non si estinguono i popoli, vivete pure tranquillo.

— E voi, Maestà, ne avete conosciuto.... più d'uno?

— Quanti sono?

— La guardia reale si compone ora di... trentasei uomini.

— Eh.... allora....

— Che? Tutti?

— Ho paura di sì.

— Oh! Maestà! Maestà!

— Tanto, uno più o uno meno, a voi che vi fa?

— Bisogna allontanarli tutti dal regno, bisogna far cambiare la guardia.

— Basta che me ne lasciate almeno tre o quattro eh? Se volete che le cose camminino, se no faccio baracca! Ve lo giuro io! — Poi rabbonendosi, quasi supplichevole — almeno.... almeno.... uno guardate, sono discreto, mi contento di uno, via siate buono maresciallino, uno solo, uno.... del quale forse.... sono così. E che da tante sere sempre ritorna, e vuole ritornare, sempre lui, il furfante, che animale Maresciallo!

— E conoscete il suo nome?

— Si chiama.... si chiama.... Gastone. È bruno, con delle enormi sopracciglia nere e i grandi occhi fieri e dolci, dove arriva quel ragazzo con quegli occhi.... e la faccia oblunga, e i denti bianchissimi, quando ride è bello come il sole. In queste ultime notti egli sempre volle ritornare ed io volli lui solo, e attende palpitante l'ora del segnale, e di giorno mi beo, insospettato a guardarlo, a fissarlo, quando è giù nel cortile a far la guardia, in fondo allo scalone....

— Ma egli nulla sa?

— Nulla, nulla povero bamboccione mio, nulla, e come potrebbe? Nulla ha compreso di chi abbia conosciuto. E guardate — alzò il capo fieramente il Re, aggrottando imperioso la fronte — guardate che se gli torcerete un capello solamente voi finite nel forno! Per il resto — continuò abbassando di tono. — Per il resto.... farò quello che voi vorrete.

Taceva il vecchio Maresciallo colla testa stretta fra le mani, incapace di trovare sul momento una via d'uscita dal groviglio.

— Mio caro Maresciallo, ne avete combinati tanti dei pasticci nella vostra lunga carriera, e io ne sono un bell'esempio, mi pare, coraggio, pensateci un pochino e ne troverete un altro senza dubbio che ci caverà tutti dall'impiccio.

— Ma poi.... ma poi.... — balbettava smarrito il conte Ercole Pagano Silf — Gennaio, Febbraio, Marzo.... — e calcava i mesi puntando leggermente il polpastrello della destra sul banco del Sovrano — Luglio, Agosto!

— Agosto, già, saremo lì, verso la metà del mese.

— Dio! Dio! È il centenario della costituzione! Il quarto centenario, il quindicesimo giorno di Agosto.

— E cosa volete che ci faccia?

— Tutto, tutto in contrario.

— Rimandate le feste.

— Rimandare.... è una parola.

— Non mi farete mica venir fuori con quella pancia, o, peggio ancora, appena sgravato, o partoriente? Bisogna rimandare le feste a Settembre, a Ottobre, meglio, è più fresco.

— Ma voi Maestà, non conoscete il vostro popolo!

— E cosa me ne importa a me del popolo? Se sapeste un po' dove ce l'ho io, il popolo, non sareste nemmeno capace di figurarvelo, signor Maresciallo!

— Ah! Quale jattura!

— Insomma, fate come volete, basta che non secchiate me, c'intendiamo? perchè io, non ne posso più.

* * *

Ora accadde che Ludovico XIII venne assalito da certe febbri intermittenti che poco a poco lo costrinsero a non uscire più dalla Reggia.

Negli ultimi tempi si era presentato al popolo tutto ravvolto in un'ampissimo mantello bianco. Era stato notato con muto lacerante dolore il tremito delle sue labbra, e tutta una leggera deformazione del bel volto purissimo come s'esso si maturasse, ingrossasse e colorisse soverchiamente.

Anche nelle udienze di Corte si stringeva sempre addosso freddolosamente quel solito mantello bianco così ampio come a nessun re era stato veduto mai. Infine nessuno lo potè più vedere, eccetto il Gran Maresciallo per gli affari urgenti del governo, e si recava nella camera dalla quale il Sovrano più non usciva.

Il vecchio Maresciallo di Birònia gli era a fianco quasi costantemente per confortarlo e incoraggiarlo, oltre che per le decisioni supreme dello Stato.

— Coraggio, coraggio Maestà — esortava l'abile uomo politico divenuto ricurvo sotto il peso degli anni e del governo aspro e difficile, coraggio.

— Ah! Maresciallo mio, che frittata! Sono veramente una creatura da far compassione ai sassi. E quella povera Regina anche è compassionevole, disgraziata anche lei, in che ginepraio è venuta a ritrovarsi. Non è più che un'ombra, io ingrosso tutti i giorni e lei sempre scema, è tanto grullerella poverina. Eppoi? E dopo?... Dove andremo a finire? Si può durarla in una situazione di questo genere? Ah! Padre mio! Padre mio, che facesti mai! E anche voi c'entrate per la vostra parte. — Il vecchio Maresciallo di Birònia chinava il capo dinanzi al Sovrano tutto avvolto nell'ampissimo mantello. — Potevo essere felice.... e sono la più miserabile creatura dell'universo, tutto per i vostri pasticci, vecchio intrigante che non siete altro. Io.... non sono nulla.... non lo so nemmeno io che cosa sono, sento salirmi al cuore qualche cosa a inondarlo di dolcezza, e subito un pensiero lo riavvelena, ah! Maresciallo, che dolcezza sentirsi madre! E quando mi guardo con questi calzoni addosso.... e questa panciona grossa grossa.... — faceva atto di aprirsi l'immenso mantello davanti Ludovico XIII — mi viene da piangere....

— Coraggio, coraggio Maestà, foste sì forte, sì superbamente forte in ogni istante della vostra vita, vero sangue Ludovico è il vostro, sangue d'eroi!

— Ah! questo è certo.

— Coraggio, ricordate il giuramento a vostro padre, egli vede e benedice la vostra meravigliosa fermezza dal cielo.

— Benedice.... benedice.... e che cosa me ne importa a me se benedice, e io sono così? Che colpa ne ho io? Che feci mai? All'ultima delle dodici sorelle dovevano capitare tutte queste sciagure. Le mie sorelle sono felici, sparse per tutte le corti del mondo, vivono e godono, amano e sono riamate, possono partorire finchè vogliono circondate di carezze e di affetto, io.... eccomi qui, non sono nè maschio nè femmina, non lo so più neppure io che cosa sono....

— Coraggio, coraggio Maestà, ricordate la promessa a vostro padre, i suoi occhi come vi fissarono in quell'istante supremo.

* * *

Era la festa dello Stato. Il quattrocentesimo anniversario della costituzione del regno di Birònia. Per quanto i festeggiamenti, che avrebbero dovuto avvenire strepitosi, fossero stati rimandati per la malattia del Re, i cittadini tutti fino dai grigiori dell'alba si aggiravano cupamente sopra la piazza dei Settantasette che avrebbe dovuto essere una giostra di colori, un vulcano di gioia e di felicità, ed era invece grigia e muta in quell'alba, non uno spiraglio di finestra vi era aperto in segno di lutto, cupamente si aggiravano i cittadini dinanzi alla Reggia, sull'ampio piazzale, nei parchi adiacenti, per i viali, a capo chino e scoperto.

La festa rimaneva serrata dentro i cuori, gelosamente custodita e il gaudio vi si raccoglieva in un'invocazione al Signore perchè presto facesse risanare il Sovrano adorato.

E in quell'alba istessa, il conte Ercole Pagano Silf Gran Maresciallo di Birònia, veniva d'urgenza chiamato al letto del Re sofferente.

— Ohi! Ohi! Maresciallo, ci siamo, lo fo! Proprio oggi, sembra fatto apposta.

Corse il vecchio Maresciallo a chiamare il chirurgo di Corte che di lì a poco giunse con un'infermiera, e insieme si chiusero nella camera regale.

In poco tutto fu preparato e il conte Ercole Pagano Silf andava e veniva per la stanza in una trepidazione incontenibile. All'uomo che aveva atteso i dodici parti desolati della Regina Sofia Clementina, pareva che una speranza fosse rimasta accesa sotto le ceneri in fondo all'anima e giungesse ora ad irradiarne la pupilla.

— Ohi! Ohi! — gridava il Re tenendo la bella testa bruna scomposta sui cuscini — Ohi! Ohi! — mordendo il fazzoletto che spremeva nella mano bianca, mentre il chirurgo e l'infermiera gli sottoponevano aromi alle narici affannosamente spalancate, e ne bagnavano con farmachi ristoratori le tempie che pulsavano forte — Ohi! Ohi! Dio mio, che male! Ohi! Ohi! questi non sono dolori da Re caro Maresciallo, vorrei un po' sapere come ve la caverete ora! Ohi! Ohi! Uhm.... che male atroce! Finchè era qui dentro.... Ohi! Ohi! era un'altra faccenda, c'era il mantello che cuopriva ogni cosa.... Ohi! Ohi! Ohi! Ah! Che tortura.... Uhm!... vorrei sapere come farete a ricuoprire ora, ci vuole altro che mantello! Ohi! Ohi! Ohi!... Cosa pensate di farne di questa mia povera creaturina?...

Neppure badava il Maresciallo alle parole del Sovrano spasimante, ma continuava a passeggiare nervoso stirando le gambe, le braccia, torturandosi l'una l'altra le dita.

— Almeno se ero nato maschio davvero! Mi sono toccate tutte le sciagure delle donne, tutte quelle degli uomini senza un benefizio di nessuno. Ohi! Ohi! Povera mamma mia, come devi aver patito a farci tutte e dodici, scalcinata come eri povera donna! Questi uomini sono proprio delle bestie irragionevoli, irragionevoli! Ohi! Ohi! Povero piccino mio, tu non ne hai colpa ma mi fai soffrire troppo così. Chi sa suo padre a quest'ora come se la gode, che ne sa lui, se ne frega, il maiale! Ohi! Ohi! Ohi! Ah! Mi sento strappare i reni! Mi par d'averci dentro un battaglione di soldati. Ohi! Ohi! Ohi! Maresciallino mio che male.

Passeggiava nervosamente il vecchio Maresciallo invaso dal suo pensiero che gli bruciava in seno e gli dava la febbre per tutte le membra.

Un urlo lacerante uscì dal petto del Re, alzò presto le coltri il chirurgo e ne scuoprì il corpo candido, il parto era aperto. Tele cerate e topponi e ovatte gli furono destramente posti di sotto, e facendosi uno da un lato uno dall'altro il chirurgo e l'infermiera presero le gambe d'avorio che si spalancarono, mentre un mugghio atroce gli sussultava dal petto e gli moriva nella gola.

Il Gran Maresciallo di Birònia dietro, in mezzo ai due assistenti spiava mandando da destra a sinistra la testa scheletrita fra le fessure che i due lasciavano operando, e si vide ad un tratto il suo collo lungo, fermo, rigido, uscito fuori dal busto come quello di un pollo automatico che si sia guastato e più non lo possa rientrare, e gli occhi anche parevano usciti dalla testa, senonchè dopo esser rimasto a lungo in quella tensione orribile ne uscì dando un guizzo ed un grido rauco secco che parve essergli, come la corda dell'arco, schiantato il cuore in petto, ma invece delle grandi lagrime ristoratrici gli inondavano le fosse delle guance incartapecorite e gli scendevano giù giù sull'abito gallonato come quelle di un fanciullo.

Il vecchio, freddo e indurito uomo di governo, per la prima volta piangeva così in vita sua, senza potersi più contenere, e come assalito da follìa si gettò sui cuscini e stretta la bella testa del Sovrano si dette a baciarne la fronte.

Ma Ludovico XIII ancora mezzo sopito sui cuscini si ritorceva spasimando, mentre il chirurgo lo assisteva e l'infermiera che aveva preso il neonato ne immergeva le fragili membra nel latte caldo, e ne frizionava e profumava le tenere carni delicatamente.

— Presto! Via! Presto! Le girava attorno palpitante il conte Ercole Pagano Silf scoppiando d'impazienza. — Presto! Via! Via! — ansava il vecchio pestando i piedi come un fanciullo, non potendo più contenersi, — mentre la donna curava ancora il corpicino. — Presto! Via! — E quando fu bene mondo e ravvolto in flanelle e ricoperto in un broccato d'oro, il Gran Maresciallo afferratolo nelle braccia fuggì dalla camera.

Come per incanto fu spalancato il balcone della Reggia e la porpora cadde, suonarono le campane, squillò alto l'allarme per la nascita del Re. La guardia reale sorpresa fuggì fuori senza il tempo di disporsi, precipitosamente si gettò sul piazzale, ignara di quello che accadeva, ignara della parte che pure in quello che accadeva rappresentava, si schierò al completo in fretta e senza sapere che facesse presentò le armi al Re.

Esce sul balcone della Reggia ad un tratto il conte Ercole Pagano Silf Gran Maresciallo di Birònia coll'involucro d'oro alto nelle braccia e grida: Eccolo! È lui! È lui! il Re!

Il popolo che dalle prime ore della mattina s'aggirava torvo dolorosamente assorto nei pressi della reggia, s'adunò sotto al balcone al richiamo inaspettato colla faccia tutta spalancata in su senza potersi rendere in nessun modo ragione di quello che accadeva, senza nulla comprendere di quella scena.

— È lui! È lui! Urlava il maresciallo a squarciagola tra il frastuono delle campane delle trombe e del movimento delle folle accorrenti. — È lui! Il Re! Popolo di Birònia! Il tuo Re!

Ma come? Ma che? Ma chi? Chi l'ha fatto? Pareva interrogare ogni faccia. Che cosa era quello che succedeva? Nessuno potendo capire.

— Il tuo Re! Sì! No! — gridava il Gran Maresciallo cercando di superare colla sua voce la marea montante della folla! Il tuo Re! — E si udiva ancora qualche sua parola a intervalli — Ester! — Sì! No! Che? Chi? — Giuditta! — Dove? Come? Quando? — Giovanna d'Arco!

Mentre il sole di mezzogiorno irradiando l'involucro d'oro lo faceva risplendere come un astro.

— Vedi, vedi popolo! — Urlava senza più fiato il Maresciallo, e aperto il broccato e lasciate cadere le flanelle che l'avvolgevano, scoperto il corpicino e apertene le coscine morbide indicando nel mezzo il segno impercettibile, come il pistillo del fiore, quel piccolo segno che aveva amareggiato tutta la sua vita di governatore superando tutti i rumori:-è Ludovico! — urlò.

Ma dalle vetrate della loggia lo si chiama affannosamente, al che il Maresciallo non risponde, una mano si sporge recando un altro involucro d'oro uguale al primo, egli accorre, un'altra creatura uguale gli viene porta, mentre egli credendo di avere smarrita la ragione si sente vacillare.

— Sì, maschio, anche questo, gli si grida di dentro. Sua Maestà! Or ora! Senza capire più, agendo come in sogno il Grande Maresciallo afferrò l'altra creatura nell'altra mano e fattosi al balcone urlò:

— Due! Due Re! Popolo di Birònia! Due Re!

Guardava in sul principio ognuno smarrito verso l'alto senza potere capire in alcun modo che accadesse, in quell'immane frastuono senza farsi una possibile ragione di ciò che accadeva.

— Due Re? Chi erano? Chi li aveva fatti? Chi li doveva fare? A chi appartenevano?

Ma afferrato poi da quel delirio che dal balcone scendeva e invasolo tutto — Evviva! Evviva! — si pose a gridare intero il popolo, come vivesse un sogno. — Evviva! Evviva! — Tra gli squilli delle trombe i doppî delle campane le note dell'organo gli scoppi dei mortaretti — Evviva! — Quasi aspettandone un terzo uguale ai primi due — Evviva! — E alle facce che giungevano interrogando: di dove sono venuti? — Il Gran Maresciallo alzati i due corpi nudi nelle mani e alte le braccia verso il cielo urlò ancora. Di lassù! — E l'urlo di tutto un popolo s'alzò allora verso il cielo.

* * *

Per quanto la situazione venisse poco alla volta chiarita essa rimase sempre in un'atmosfera di leggenda e di mistero.

Il Re Ludovico XIII fu dichiarato creatura fuori del sesso, e al disopra di ogni umanità, venuto sopra la terra solo per salvare un paese giusto dalla rovina. Esso si dileguò dopo il miracolo, nessuno n'ebbe più nuova, e certamente salì al cielo.

Il suo regno fu chiamato «il Regno Santo» o anche «il Regno della Vergine» e ancora: «il Regno del Miracolo». Ne seguì il regno dei Gemelli che si chiamarono Ludovico XIV, e Ludovico XIV e Mezzo, per il qual modo la costituzione non venne toccata d'una virgola sola. I Gemelli regnarono in maniera tanto mai esemplare, e furono così fratelli come un solo uomo, col vantaggio che l'uno temendo e rispettando il giudizio dell'altro ognuno si mostrò sempre tanto cauto e pieno di riserbo che il più grande equilibrio ne risultò dall'unione.

E fu per questa giustizia detto il regno della bilancia, e con una bilancia appunto si usò simbolizzarlo.

Essi ebbero poi due spose belle, forti, che si sedettero maestosamente e piene di grazia al loro fianco sulla piazza dei Settantasette dove solamente il baldacchino fu dovuto ingrandire un poco, senza ledere per questo un pelo soltanto la grandezza e l'autorità di Ludovico il Grande che sì fieramente dall'alto del suo cavallo il tutto vigilava. Ebbero insieme ventisette figliuoli, diciotto dei quali maschi e fu assicurato così per un millennio il regno alla dinastia dei Ludovichi. Per le lontane e più luminose capitali d'Europa visse e vagò una certa contessa Marina Del Pioppo, che tenne vita simpaticamente libera, e un poco licenziosa dicono i peggiori critici sociali, la bellissima donna suscitò profonde e folli passioni in molte anime e febbri in molti corpi, alla bellezza essa accoppiava una maniera così aristocratica da doversi dubitare qualche volta, pure ignorando sempre quali fossero i suoi precisi natali, ch'ella discendesse da qualche gran sangue, pure nessuno avrebbe mai osato pensare o intravedere in quella bellissima donna, una spodestata Regina, nè, tanto meno, un Re assoluto.

Si sa infine, che una notte, anzi, nelle primissime ore del mattino circa un mese dopo il Miracolo dei Gemelli, ad una stazione di frontiera in Birònia, erano discese da una misteriosa vettura due figure aristocratiche. Le persone di servizio non tardarono a riconoscere nel vecchio signore il Conte Ercole Pagano Silf Gran Maresciallo di Birònia, seppure in incognito e vestito in borghese e a capo scoperto, gli si inchinarono dinanzi. Nessuno potè però fare accertamenti a carico della signora, bellissima di figura, ma alla quale un velo troppo fitto cuopriva interamente la faccia. I due aspettando il passaggio del treno, parlavano assai intimamente e con affetto e al momento di salutarsi volarono per l'aria delle parole presso a poco come queste: — Eh! ci volevo proprio io, Maresciallo, per salvare la Patria, e un poco anche voi, sì, vecchia trappola. — Alzato quindi il velo fin sopra la bocca la bella signora posò la sua faccia fresca su quella rugosa e dura di lui, e lo baciò come si bacia il vecchio e caro padre.

Il Re bello

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