Читать книгу L'Incendiario; col rapporto sulla vittoria futurista di Trieste - Aldo Palazzeschi - Страница 3

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Il nostro treno corre verso Trieste, rossa polveriera d'Italia.

Oh! rabbia di sentirci, noi, poeti futuristi, portatori d'idee esplosive, demolitori della vecchia Italia, imprigionati in uno scompartimento come aquile in una gabbia.... Ma le anime nostre s'avventano nel buio, precedendo la locomotiva che si sforza di seguirci.

Non è lontano il giorno in cui per forza si dovranno constatare sui nostri cadaveri ammonticchiati la straziante sincerità del nostro programma e la tragica serietà della nostra violenza. Questo però non c'impedisce di essere allegri, pazzamente allegri, questa sera, non foss'altro che per schernire la lentezza del treno sgangherato che ci trasporta, scricchiolando per tutta la sua nera ossatura, battendo i denti sonori, trascinando le ferree pantofole e sdraiandosi in tutte le stazioni come un ubbriaco nella luce vinosa di tutte le bettole: Treviglio, Brescia, Verona....

— Bando alla musoneria e alla gravità!

— Noi andremo alla guerra danzando e cantando.

— Ecco Vicenza.... Questa nebbia puzza di vecchia beghina! osserva Aldo Palazzeschi.

— Attraversiamo infatti l'anima tabaccosa e ammuffita del senatore Fogazzaro.... Che schifo!

Centinaia di fanali elettrici sfilano davanti a noi, a destra e a sinistra.... Sono i nostri luminosi sputacchi futuristi, lanciati nelle tenebre immonde.

All'alba, il confine: tragici burroni sassosi, probabile teatro di una battaglia di domani. Ognuno di noi già si sceglie, muto, il suo posto di combattimento.

Cormons, Miramar.... ed ecco il mare Adriatico, grigia immensa bandiera spiegata, che palpitando aspetta dal sole i suoi tre colori trionfali.

Finalmente, Trieste!... Un crepitare di grida infiammate, un lampeggiante scoppiare di urrah! Tutti i nostri amici son venuti ad aspettarci. Cento mani appassionate si tendono verso di noi.... Cento sguardi ebbri e inebbrianti cercano febbrilmente fra noi l'unico dio invisibile: l'esaltante vessillo italiano!

Alle sette di sera, dietro al sipario del Teatro Rossetti, noi contendiamo i lembi tricolori di una poesia al capo della polizia austriaca, pettoruto e bardato di decorazioni, mentre una folla torrenziale inonda fragorosamente le gallerie....

Quando ci mostriamo finalmente alla ribalta, tutto il popolo di Trieste è davanti a noi.... tutto, con l'ardente gioventù dei suoi maschi bellicosi, con lo scintillìo di eleganza parigina che dà risalto alla flessuosità appassionata delle sue donne. A destra, in un palco, la grazia felina e squisitamente spirituale di Delia Benco, scrittrice ispirata, dallo stile affascinante come la sua toilette artisticamente originale. Con lei è Silvio Benco, l'illustre e grande romanziere del Castello dei desideri. Nello stesso palco, Willy Dias, la geniale scrittrice di cento indimenticabili novelle, e la bellissima signora Ciatto. In un palco più vicino alla scena, la superba figura, romantica e notturna, di Nella Doria Cambon, poetessa dal volo pensoso e nostalgico. Le sta al fianco l'amica nostra Elda Gianelli, poetessa che inneggiò recentemente al verso libero con ala di genio.

In platea, la signorina Haydée, la scrittrice ben nota che tanto onora Trieste col suo versatilissimo ingegno; il dottor Prezioso, grande patriota, giornalista-principe, dominatore di pensieri e di folle; il direttore dell'Indipendente, Zampieri, fortissimo campione dell'irredentismo; il dottor Cimadori, il poeta Riccardo Pitteri, il dottor Spadoni, Carlo Banelli, l'avvocato Costellos, presidente della Società Filarmonica, l'ingegnere Menesini, il poeta futurista Luigi Crociato, il poeta Cesare Rossi, e moltissimi altri notabili della città.

Fuori, rumoreggia violentemente la marea d'un migliaio di persone, tra le fetide dighe dei poliziotti.

Ci sono dei professori, dei pedanti, degl'invalidi, nella sala? Noi non li vediamo.... Silenzio di Corte d'Assise nel momento della sentenza, o, piuttosto, silenzio di profondità sottomarine, ove io scaglio le frasi del mio discorso, come siluri contro le vecchie galere romane che beccheggiano invisibili sul fluttuare del pubblico:

AMICI, NEMICI FORSE!

Giudico necessario premettere alcune brevissime spiegazioni alla nostra declamazione di poesie futuriste.

Anzitutto, che cosa vuol dire Futurismo? In termini molto semplici, Futurismo significa odio del passato.

Noi ci proponiamo infatti di combattere energicamente e di distruggere il culto del passato, ed obbediamo in ciò all'istintivo bisogno di difendere le nostre forze vive, che vogliono liberamente ed interamente esplicarsi prima di estinguersi.

Considerate che il numero dei grandi uomini defunti è quasi infinito: sono eserciti formidabili di genii morti, ormai indiscussi, che accerchiano e schiacciano la esigua legione dei vivi. — A quelli e per quelli, tutto è concesso: libere le strade, spalancate le porte, profuso il denaro. — I vivi, invece, non raccolgono che dileggi, insulti, calunnie, e patiscono la fame!

Nella repubblica dell'arte, particolarmente, coloro che difendono ed esaltano i morti, lo fanno per una subdola vigliaccheria e per l'invidia che ispirano loro gli uomini veramente vivi.

Si uccide un poeta giovane e forte, scaraventandogli addosso la mummia cartacea di un grande poeta morto da cinquecent'anni. Gli editori cestinano i manoscritti di un genio affamato, per prodigare il loro denaro nella ristampa di capolavori d'epoche lontane. I miliardari sprecano somme favolose nella compera di cose che non hanno altro valore che quello di essere corrose e consunte dal tempo.

Si esumano musiche fredde e soporifere, statue insignificanti, tele tarlate e annerite, mentre musicisti, scultori e pittori viventi aspettano invano, nel buio di una sordida miseria, il divampare vittorioso delle loro creazioni. Quando non si può uccidere un giovane con un cadavere esumato, gli si scagliano attraverso le gambe dei vecchi rimbambiti, dei fantocci rispettati, o degli stomachevoli opportunisti.

È perciò che noi, nell'arte, nella politica, e, insomma, in ogni manifestazione di vita, combattiamo brutalmente la religione del passato e il rispetto di tutto ciò che è antico.

Proclamiamo cretina la massima: «in medio stat virtus», e odiamo tutti i mezzi termini. Disprezziamo e combattiamo tutte le forme di obbedienza, di docilità, d'imitazione, i gusti sedentari, e glorifichiamo invece i nomadi, i refrattari e le grandi belve libere.

Disprezziamo e combattiamo le maggioranze avvelenate e corrotte dal potere, i divieti dell'opinione corrente i luoghi comuni della morale e della filosofia.

Nel campo letterario propugnamo l'ideale di una grande e forte letteratura scientifica, la quale, libera da qualsiasi classicume, da qualsiasi purismo pedantesco, magnifichi le più recenti scoperte, la nuova ebbrezza della velocità e la vita celeste degli aviatori.

La nostra poesia è poesia essenzialmente e totalmente ribelle alle forme usate. Bisogna distruggere i binari del verso, far saltare in aria i ponti delle cose già dette, e lanciare le locomotive della nostra ispirazione, alla ventura, attraverso gli sconfinati campi del Nuovo e del Futuro! Meglio un disastro splendido, che una corsa monotona, quotidianamente ripresa! Già troppo a lungo furono sopportati i capi-stazione della poesia, i controllori di strofe-letto, e la stupida puntualità degli orari prosòdici.

In politica, siamo tanto lontani dal socialismo internazionalista e antipatriottico — ignobile esaltazione dei diritti del ventre — quanto dal conservatorume pauroso e clericale, simboleggiato dalle pantofole e dallo scaldaletto.

Noi esaltiamo il patriottismo, il militarismo; cantiamo la guerra, sola igiene del mondo, superba fiammata di entusiasmo e di generosità, nobile bagno di eroismo, senza il quale le razze si addormentano nell'egoismo accidioso, nell'arrivismo economico, nella taccagneria della mente e della volontà.

Disprezziamo e combattiamo la tirannia dell'amore, che specie nei popoli latini, falcia le energie degli uomini d'azione. Combattiamo il rancido sentimentalismo, l'ossessione dell'adulterio e della conquista femminile, nel romanzo, nel teatro e nella vita. Vogliamo insomma sostituire, nelle immaginazioni, giovanili, alla figura stucchevole del Don Giovanni, quelle violente e dominatrici di Napoleone, di Clémenceau e di Blériot.

Tutto ciò, naturalmente, contraria ed esaspera le maggioranze; ma noi Futuristi, noi Estrema Sinistra della letteratura, ce ne rallegriamo, poichè solo temiamo le facili approvazioni e gl'insipidi elogi dei mediocri.

Sicuri e convinti che nulla vi sia di più facile e di più spregevole insieme che il piacere al pubblico, solleticandone i gusti volgari, noi preferiamo piacere soltanto al nostro ideale, e, al pubblico ostile, non domandiamo che fischi!

Uno scoppio formidabile di applausi.... Le carene del passato si sfasciano nella risacca sbatacchiante delle mani entusiasmate.

Ed ecco Armando Mazza, dal gran corpo atletico, avanzarsi come un lottatore. La sua voce tonante sfonda le pareti del teatro e sembra coprire tutto il mondo delle nostre prime volontà futuriste. In verità i saggi mummificati, i custodi del buon senso e tutti coloro che portano sulla schiena la loro poltrona come le testuggini il guscio, si sentono schiacciati dal passo di quel gigante che con alte grida chiama alla riscossa gl'incendiarii.

Abbasso i musei! Riseppelliamo i morti! Glorifichiamo la violenza! Viva la guerra! Morte ai pacifisti! Abbasso le maggioranze sedentarie! Gloria alle belve!... Altrettanti pugni roventi nei petti freddolosi dei Passatisti, arbusti scarniti e contorti dalla lava sui fianchi di un vulcano!

Poi, i poeti futuristi, uno dopo l'altro, con una disinvoltura da studenti in baldoria, versano a fiotti il rosso vino della sublime poesia in tremila coppe invisibili, tese freneticamente a volerlo.

Ma, ad un tratto, scoppia un gran baccano e s'accende un parapiglia infernale.

Si urla allo scandalo; mani di spettatori naufraganti si aggrappano alle poltrone; altre stringono disperatamente rotonde calvizie, come se abbrancassero il mondo per salvarlo. Occhi moribondi cercano ansiosamente dei crocifissi introvabili. Cresce il tumultuare della calca: è la grande insurrezione delle mummie. Non una italiana: tutte austriache o leccapiattine. Ma la possente gioventù trionfa. Tutti i maschi sono in piedi, e coi pugni, con gli scoppi della voce, costringono i morti a ricoricarsi nei loro scanni tombali.

Il soffio dell'entusiasmo ci spinge fuori e ci trasporta per le vie di Trieste.

Entriamo nel Caffè Milano, fornace da cui si sprigionano e scattano, investendoci, i tizzoni in fiamme dei più entusiastici urrà! Sulla grande tavolata fraterna, il sangue delle gote, il fuoco delle voci, i vermigli fermenti della poesia e del patriottismo.... Aldo Palazzeschi dice con raffinata sapienza le sue belle poesie: Villa Celeste, La Regola del Sole e Palazzo Mirena, contenute in questo volume. Poi Armando Mazza è costretto a declamare per la terza volta il celebre Manifesto. Tutti gli alcool traboccano, scorrono e s'incendiano. Sorge un giovane dagli occhi elettrizzati d'ingegno, che clama la sua professione di fede futurista, la sua ardente simpatia pel nostro movimento di ribellione contro il passato.... Tutti lo ascoltano intenti, ed egli, invaso da un furore ispirato, scarica in alto mille idee paradossali, come tanti razzi sguscianti senza posa da una botte pirotecnica. Quell'uomo è il forte poeta triestino Mario Cavedali.

Intorno a lui si affollano moltissime altre figure bellicose di pubblicisti, di letterati, di artisti: i valorosi patrioti fratelli Tamaro, redattori dell'Indipendente, il fervido giornalista Mario D'Osmo, l'inesauribile pince-sans-rire Doro Finzi, il maestro Saragoz, Barison, l'insuperabile violinista, il geniale poeta Arturo Bellotti, Oberdorfer, l'energico segretario e difensore dell'Università del Popolo, l'elegantissimo De Sala, corrispondente del Figaro, il biondo e simpatico Paolo Zampieri, Augusto Datta, il poeta Dolcetti, Mario Alberti, Guido degli Sforza, Gualtiero Finzi, ed altri ed altri ancora.

Si odono a quando a quando le schioccanti risate dello spiritosissimo Nordio. Si alza l'avvocato Tedaldi, che declama un'ode del Carducci con emozione di cuore, efficacia di gesto e tonante forza di voce.

Usciamo dal Caffè Milano per portare la nostra focosa anima italiana entro il covo notturno degli ufficiali austriaci: l'Eden.

Vi troviamo invece molti ungheresi che accompagnano con gesti e con danze un'impetuosa zuffa di violini tziganeschi. Essi ci salutano clamorosamente, inneggiando alla liberazione dell'Ungheria e di Trieste, e — allegri martiri del patriottismo — si torcono sulla sonora graticola del cembalum, sotto le rabbiose sferzate dei violini.

Gioia, follia e guerra!

Alcuni ufficiali austriaci, in un angolo, hanno l'itterizia della loro bandiera.

Quando usciamo, una frenetica ebbrezza goliardica e gaiamente vandalica agita la nostra irruente colonna.

Noi, futuristi, proclamiamo senz'altro la morte della saggezza, l'ignominia della parola prudenza.... Guai a chi non è capace di audacie teppistiche! Guai a chi, ogni notte, non si sente signore assoluto della città e gonfio di disprezzo per coloro che dormono!

In lunga fila indiana, camminiamo prima rapidamente e poi ci slanciamo a passo di corsa, formando festoni rumorosi e beffardi intorno alle facce lorde dei poliziotti, vespasiani ambulanti.

Così correndo, giungiamo al Molo San Carlo. Un gran veliero che fora le nuvole coi suoi tre alberi altissimi.... Fin dove salgono, quegli alberi? Bisogna pur saperlo!... Su! Su!... Chi potrebbe impedirci di seguirne l'acuto slancio verso il cielo? Che importa se il veliero oscilla, se il sartiame miagola al soffio rovesciante della bora?... E ci arrampichiamo su per l'albero maestro, in cerca di nidi di stelle.... Di lassù, ci sarà forse anche dato di scorgere all'orizzonte i fanali della formidabile squadra di Bettolo, a cui forse giungeranno le nostre grida di ansiosa chiamata!

Ci si avvia verso Servola, i cui fumi biancastri laggiù, sembrano pilastri enormi eretti a sostenere le rosseggianti vôlte della notte.... Lieti come scolari in libertà, ci agitiamo intorno alle pance fuligginose delle ferriere, che partoriscono muraglie di bragia... Grida di vittoria erompono dai nostri petti.... Finalmente, le più folli immagini futuriste si realizzano: ecco edifici di fuoco che camminano, si sventrano e rovesciano a terra viscere di topazi e di rubini!

Noi assistiamo così alla fusione del nuovo sole futurista, più colorato, più fantastico, più caldo del vecchio sole di ieri. Ne sorvegliano l'immane colata incandescente i mostruosi camini, giganti burberi, impennacchiati di fumo che nemmeno si sentono passar tra i piedi le stridule fughe dei treni, sorci di ferro spaventati....

Oh! come invidiamo le case appollaiate sulle colline circostanti, le case attente a cui la gioia ubbriacante del fuoco incendia gli occhi ogni notte. Come invidiamo le nuvole dalle facce accaldate e l'orizzonte marino solcato da lunghi riflessi scarlatti!

A Trieste, i giovani non dormono mai. Igienica insonnia, che ci fa divorare il gran pranzo futurista offertoci dagli amici e servito spiritosamente a rovescio, così:

 Caffè

 Dolci memorie frappées

 Frutta dell'Avvenire

 Marmellata di gloriosi defunti

 Arrosto di mummia con fegatini di professori

 Insalata archeologica

 Spezzatini di passato con piselli esplosivi in salsa storica

 Pesce del Mar Morto

 Grumi di sangue in brodo

 Antipasto di demolizioni

 Vermouth.

Dappertutto, nelle sale sontuose della Filarmonica, nei salotti intellettuali, nei ritrovi mondani, le dame rivaleggiano nell'accoglierci con regale e squisita cortesia, affascinate piuttosto che sgomentate dalla violenza incendiaria delle nostre volontà futuriste.

Partiamo a malincuore, ma già rivolto lo sguardo ad altri campi di battaglia, e Trieste ci accompagna al treno acclamandoci ancora con le voci squillanti dei suoi cento figli più eletti, che galoppano intorno alla nostra carrozza, e ci salutano col grido di Viva l'Italia! Viva il Futurismo!

F. T. Marinetti.

L'Incendiario; col rapporto sulla vittoria futurista di Trieste

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