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TRIESTE ELETTRIZZATA.

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SILVIO BENCO

presenta i futuristi nel “Piccolo„.

Serata di poesia futurista: la chiamano veramente i manifesti e gli striscioni apparsi in gran numero a tutte le cantonate della città. Infatti i sei giovani poeti che reciteranno mercoledì i loro versi al Politeama Rossetti hanno accettato come insegna del loro sodalizio il manifesto del futurismo lanciato l'anno scorso dal Marinetti: del quale manifesto molto si rise e molto si discusse, e si rise perchè veramente andava oltre a ogni seria intenzione di rinnovamento letterario; e si discusse perchè spalancava ambo le porte a un problema che è forse il supremo problema della letteratura: è fatale che l'arte si atteggi sempre conforme al passato, e si giudichi sempre con le opinioni che furono del passato? ovvero non deve trarre essa i suoi impulsi dalle concitazioni della vita moderna, e giudicarsi a norma delle aspirazioni che ciascuno di noi ha verso il futuro?

Il manifesto del futurismo premette dunque una contraddizione alla legge del perpetuo ritorno di ciò che fu; e se questa è una legge, esso contiene un'illusione o un inganno, se no è una legge, esso contiene, in forme brutali, un'enunciazione di verità. Il che non può decidersi dopo un anno dall'apparizione del manifesto, e mentre il mosto fermenta e non si è fatto vino. Non giudichiamo dunque il futurismo che allo stato di ebollizione; limitiamoci a presentare i futuristi che sono allo stato solido di personalità: uno di essi, e il loro capo, F. T. Marinetti, non ha più nemmeno bisogno di presentazione; poichè già lo conosce il nostro pubblico come un poeta d'impulso e di fervida fantasia: all'opera sua nell'ultimo anno non aggiunse che un dramma, Les poupées électriques, inventato molto ingegnosamente sul tema delle segrete affinità delle anime che sì sostituiscono inconsce l'una all'altra, dapprima nell'indeterminatezza delle commozioni psichiche, poi nella concretezza delle sensazioni. Non è necessario nemmeno presentare il giovane siciliano Federico De Maria, che fu l'anno scorso fra i lettori dell'Università del popolo: il suo libro La leggenda della vita, scritto quasi tutto in versi liberi, ma con rime e assonanze e ricchezza di melodia, lo rivelò come uno dei poeti che meglio fanno suonare il lor pensiero nella armoniosità della lingua nostra.

Una sorpresa per il pubblico potrebbe essere Paolo Buzzi, il più complicato temperamento del gruppo. Vasto intelletto; volontà ambiziosa e tenace che lo disciplina a una costanza di lavoro quasi sovrumana; gusto non ancora purificato, non ancora naturalmente sensibile alle proporzioni di ogni opera d'arte, qualunque essa sia. È milanese. Sorse anni or sono, vincitore di un concorso letterario della rivista Poesia, con un romanzo, L'esilio, dove aveva cercato di mettere tutta la sua mente: e poichè la mente era vasta, il romanzo uscì in tre volumi. Troppo; non tutto aveva lo stesso valore; ma c'erano capitoli mirabili per verità e ricchezza di colore, per lucida esposizione di idee, per trascrizioni d'una vorticosa vita fantastica. La stessa impressione d'un uomo che ha molte cose da dire si riceve dal suo volume di versi Aeroplani. Il contenuto ne è più denso, più vario che nei consueti libri di versi; la vita delle città vi è vissuta con una anima complessa d'uomo che sente dentro di sè una folla; la natura vi è descritta con colori che paiono e sono nuovi soltanto perchè sono più esatti. Ma anche qui regna talvolta il disordine, la febbre dell'improvvisare, l'irriflessione, la mancanza di associazione delle idee e di continuità delle forme; è un vigoroso e penetrante ingegno non ancora tanto padrone della sua vita strabocchevole da placarla in un'opera d'arte.

Enrico Cavacchioli invece, è un artista: cesella le strofe, e le fonde nello stampo del bronzo; scrive di rado in versi liberi come i suoi compagni, e non sono i suoi versi migliori. La sua originalità è fatta di precisione: precise le visioni, per quanto strane, morbose e macabre; preciso il vocabolo; preciso e ben ponderato il suono. Se qualche suo componimento ha la forza dell'allucinazione, la ricava dalla saldezza, dall'incisività di ogni segno tracciato dal suo stile acuto ed acre.

Di Aldo Palazzeschi confessiamo di non conoscere che una poesia, ma bellissima: La regola del sole. È scritta con una espressione di candore e di umiltà appropriata alla visione ingenua; con un ritmo da fiaba, morbidamente irregolare e dolcemente monotono. Ricorda, per la ispirazione e per le forme, il Maeterlinck della prima maniera: Les sept princesses. Ma non si può dire che lo imiti; fa una propria opera d'arte, molto limpida, molto chiara, interessante. Infine Armando Mazza, poeta pur lui, ci è annunziato come un magnifico dicitore di versi, e come tale ebbe gran plauso a Palermo. Egli reciterà non soltanto le proprie poesie, ma anche quelle d'altri futuristi: Libero Altomare, Corrado Govoni, e infine di colui che questa pleiade di poeti venera come il suo sole: Gian Pietro Lucini, un poeta lombardo che da più di vent'anni vive in continuo arricchimento e in continuo rigurgito del pensiero e in indefesso fermento e che ha scritto, tra dieci libri, in una forma di versi inventata da lui, un fervido, caleidoscopico poema di evocazione del settecento filosofico e lussurioso: La prima ora de la Accademia. Egli, per vero, si schermisce dall'essere futurista; ma i futuristi dicono che è il loro padre. Già, ogni futuro ha un passato.

Silvio Benco.

ELDA GIANELLI

presenta i Futuristi nell'“Indipendente„.

Dei sei poeti futuristi che Trieste intellettuale è chiamata a sentire domani a sera — e sappiamo ben viva la curiosità del nostro pubblico — Aldo Palazzeschi è uno dei più giovani. Pure egli ha al suo attivo parecchi volumi: I Cavalli Bianchi, Lanterna poemi; Riflessi romanzo. Annunzia: Il Codice di Perelà, e intanto raccoglie l'eco della critica giornalistica sui Poemi, ampio volume di aristocratica edizione fiorentina.

Trovai, tornando appunto da Firenze, i Poemi, l'estate passata; e non ebbi agio nella stagione di segnalarli ai lettori dell'Indipendente; i quali, di quelli della modernissima scuola, conoscono già da lungo F. T. Marinetti il duce, come i giovani chiamano mano il direttore di Poesia: il principe dei guerrieri, come lo chiama Paolo Buzzi dedicandogli il suo inno alla guerra. Ed è infatti una guerra che i giovani combattenti per l'avvenire dell'arte sostengono. Questi giovani sono i primi, contrariamente a tutta la violenza del programma futurista, a riconoscere, a salutare la bellezza del passato che fu bellezza. Il loro odio è per le muffe, che mai sono state altro, e ostentano sempre, in tutti i rami dell'arte e della vita, il più feroce misoneismo, e vorrebbero soffocare ogni nuova germinazione, ciechi contro nuovi colori e nuove forme, solo perchè non corrispondono a colori e forme catalogate e lustre della patina del passato; disperatamente sorde contro ogni nuova armonia incomprensibile all'ovatta dei loro orecchi.

Battaglia accanita quella dei giovani che non vogliono entrare nella strada della vita coi soliti ritornelli belanti, con le solite genuflessioni a una retorica ch'essi non sentono e non accettano per canone d'arte. Nè può meravigliare o disgustare l'irruenza, la scompostezza del loro gesto di battaglia, il linguaggio che par talora di un fervore pazzesco, se pensiamo alla fredda malignità, allo scherno velenoso che in ogni tempo accolse ogni giovanile rivoluzione letteraria. Che non fu lanciato dal livore — eh, la parola è ben giusta! — di coloro che si videro minacciati nel lor comodo adagiamento nei versi cantabili, contro le prime barbare del Carducci? Ora le barbare, invecchiate a loro volta, dovettero cedere al verso libero, il quale è assai meno libero di quello che a orecchi profani possa sembrare, e ha leggi d'armonia che sfuggono non soltanto a chi non ha orecchio poetico, ma anche più a chi non ha anima poetica. Fate pur prosa, adorna o disadorna, e mettetela a righette e chiamatela verso libero, se piace a voi. Gli esperti, i senzienti del verso libero, i poeti, ve la bolleranno per prosa egualmente.

Marinetti esordì con un poema in verso libero magnifico di slancio, potente di colore: La Conquête des Étoiles, del quale fu già parlato su queste colonne. In Francia, dove da un pezzo i verslibristes s'imponevano, fu da Gustavo Kahn chiamato questo poema: un bel effort lyrique de beaux vers français d'une forme libre, originale et rare. Prova che i versi liberi possono assai distinguersi tra loro, aristocrazia e volgo, come ogni cosa di questa terra e del cervello umano.

I futuristi del resto non si preoccupano d'imporre un genere di poesia o l'altro, e non comandano i versi liberi. Enrico Cavacchioli ha quartine mirabili di grazia e freschezza. Paolo Buzzi incatena talvolta nell'apparente metro libero i metri più ovvii, che tutti direbbero ottonarî, settenarî, senarî, quinarî, se li vedessero stampati a lineette, e pochi forse sanno trovare e far cantare nelle prolisse righe dei versi liberi de' suoi Aeroplani.

Federico de Maria è poeta assai noto e caro ai giovani d'Italia, poeta d'ardimento e di sentimento profondo.

Del Mazza, che dicono mirabile dicitore, ed esporrà versi del Lucini, del Govoni, dell'Altomare, non conosco l'opera originale.

Di Aldo Palazzeschi, dico brevemente come me lo concede lo spazio. Non è facile definirlo, o bisognerebbe conoscere tutta l'opera sua. Non so i suoi poemi precedenti a questi, nè il suo, o i suoi romanzi. In questi poemi s'atteggia a semplice. Una grazia un po' malata che si compiace di foggiarsi modi qualche volta infantili, primitivi; ma che ha pure una sentimentalità sincera, penetrante.

Chi sono?

Son forse un poeta?

No certo.

Non scrive che una parola, ben strana,

la penna dell'anima mia:

follia.

Son dunque un pittore:

Neanche.

Non à che un colore

la tavolozza dell'anima mia:

malinconia.

Un musico allora?

Nemmeno.

Non c'è che una nota

nella tastiera dell'anima mia:

nostalgia.

Son dunque... che cosa?

Io metto una lente

dinanzi al mio cuore

per farlo vedere alla gente.

Chi sono?

Il saltimbanco dell'anima mia.

Non dice una cosa nuova il Palazzeschi. Fu sempre dato dei giullari ai poeti d'ogni genere e d'ogni forma. Coloro che si danno da sè stessi del saltimbanco, figurarsi se sono presi alla lettera dagli uditori o lettori di buona volontà! Taluno mi disse che il giovane poeta fu bistrattato dalla critica benevolente. Non so.

Mi parve bene riprodurre questa sua autopresentazione oggi che egli viene fra noi. Noi sappiamo che non avviene mai che i saltimbanchi di professione si diano questo nome. Tutt'altro! I Dulcamara della piazza e dell'arte ostentano anzi titoli accademici e quando lo possono cavallereschi. E quand'anche fosse, Pierrot in arte non è sinonimo di pagliaccio ma di melanconico.

Ed è un melanconico sognatore il Palazzeschi, un dipintore di fantasime. E hanno un fascino le figure ch'egli evoca con versi piani, piani, ad arte puerili.

Tre piccole figlie stanno — apro a caso i Poemi — innanzi a Madama Matrigna. Vestono a mezzo lutto, tengono il volto abbassato, sono tutte confuse. In abito di crespo giallino, a pieghe e rigonfi, la matrigna guarda, un poco sorridente, le piccine. Esse sono venute a pregarla di parlar loro, e insistono supplichevoli che parli.

Ma non delle cose passate...

Ma non delle cose avvenire

Parlate, parlate, signora matrigna!

Ci sembra... ci sembra il vostr'occhio

che guardi... e non guardi...

Parlate, parlate!

In punta del labbro ci avete.

Signora Matrigna,

non so... non sappiamo...

ci avete un sorriso... maliardo,

un tenue sorriso ritorto

che nasce, si torce e finisce.

Un riccio eguale portate

in mezzo alla fronte.

Signora Matrigna, parlate, parlate.

Non è mirabilmente espressa in questa accorata sollecitazione l'ansia delle tre piccole in lutto che si raccomandano alla donna vestita di giallo, che per loro rappresenta la sfinge?

Di questi quadri vaghi, semplici tratti di penna, eppur profondamente espressivi, il Palazzeschi ne ha in quantità. Come ha bizzarrie che parrebbero inqualificabili e nondimeno son note d'un sentimento vivo che restano nei nostri orecchi, gamma che involontariamente la memoria ci ripete.

Non sono versi quelli della Fontana malata, per esempio. Ma quella fontana noi la vediamo e la sentiamo tossire. Così vediamo il Borgo tramontano, che non ha finestra al sole e le tien tutte chiuse, tutta la giornata, per aprirle soltanto all'ora del tramonto che gli abitanti e le campane salutano; per ritirarsi e tacere poi fino al tramonto seguente. Così vediamo Regina Carmela e Regina Carlotta e le Nutrici, e le Nazarene, donde forse il primo germe di quella stupenda Regola del Sole, che il poeta dirà, crediamo, alla serata aspettata. La Regola del Sole è un ordine di mistiche adoratrici dell'astro. Un gruppo di signore s'è comperata un'isoletta in mezzo al mare, donde non si vede terra nè vicina nè lontana, e ivi vivono beate, nella loro strettissima clausura, aspettando ogni giorno il sole, meste nei giorni di nebbia, felici in quelli di splendore. E non muoiono d'alcun male, si spengono dolcemente, e quando una trapassa le altre la cantano beata perchè salita ad unirsi al sole.

Insomma domani il pubblico triestino avrà l'impressione immediata della poesia che è l'ultima espressione moderna ed il primo passo verso un rinnovamento, speriamo, felice.

Elda Gianelli.

AUGUSTO DATTA

nell'“Azione Socialista„.

Mercoledì 12 avrà luogo al Politeama una serata di lettura poetica alla quale, per la prima volta in Trieste, prenderà parte un gruppo di poeti italiani che leggeranno i loro componimenti.

I poeti che udremo sono tra quelli che aggruppatisi intorno alla rivista «Poesia» diretta da Marinetti e che già conta cinque anni di vita, sono assurti alla fama benchè giovanissimi. Merito questo che va attribuito alla Rivista stessa la, quale ebbe sempre per scopo principale di sostenere le giovani forze nel campo della letteratura.

Per dare al pubblico un'idea di questa serata, nulla è più consigliabile di una scorsa all'ultimo fascicolo di questa rivista battagliera dove sono raccolti gli ultimi lavori inediti dei poeti Paolo Buzzi, Enrico Cavacchioli, Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi e del direttore Marinetti. Questi poeti si distinguono per una grande audacia d'ispirazione e benchè diversi nella loro estrinsecazione artistica, sono tutti animati dall'identico ideale di rinnovazione letteraria e dal medesimo odio per ogni forma di classicismo rancido e di convenzionalismo accademico.

Furono vivamente combattuti recentemente, quando con soverchia violenza forse, ma con profonda sincerità, si battezzarono Futuristi cioè avveniristi ad oltranza, inalberando come un vessillo, il famoso manifesto del Futurismo pubblicato dal Figaro di Parigi e lanciato con tanto clamore attraverso l'Italia.

Il pubblico che non potè farsi un'idea esatta di ciò che futurismo vuol dire, giudicherà il 12 gennaio le opere di questi giovani poeti futuristi, i quali null'altro desiderano, in fondo, che una maggiore libertà letteraria di fronte alle tendenze viete e retrograde di cui si fanno forti alcuni dei poeti moderni.

Paolo Buzzi ed Enrico Cavacchioli sono già noti per i loro volumi: Aereoplani e Incubo velato che suscitarono violenti polemiche e approvazioni vivissime; Aldo Palazzeschi, di cui leggiamo in «Poesia» una squisita fantasia poetica: La regola del sole, leggerà brani del suo volume di prossima pubblicazione: L'incendiario.

Vi sarà fra loro un mirabile declamatore: Armando Mazza, già molto applaudito nei teatri di Palermo, il quale dirà alcune poesie di giovani poeti del medesimo gruppo ma che per ragioni diverse non potranno partecipare a questa interessante serata.

Udremo così i versi di Gianpietro Lucini, di Libero Altomare, Giuseppe Carrieri, Enrico Cardile, Mario Betuda, Luciano Folgore, Berardo Sbraccia e di molti altri.

Augusto Datta.

L'Incendiario; col rapporto sulla vittoria futurista di Trieste

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