Читать книгу La colpa è sua - Alek's Books - Страница 10

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Ero sovra pensiero quando udii un rantolo. Prima avevo pensato ai gatti randagi che si aggiravano sempre per le strade. Ma era troppo diverso dai soliti rumori animali che si sentivano di notte. Ero sicuro che si trattasse di un lamento umano. Mi fermai a guardare prudentemente nel vicolo buio davanti a me. Un brivido mi corse lungo la schiena quando sentii di nuovo quel rumore, adesso chiaramente decifrabile come umano. Davanti a situazioni sinistre come quella, un istinto sano avrebbe invitato a scappare, mentre a me spingeva sempre dritto nelle braccia del nemico chiamato guaio.

“C’è qualcuno?” sussurrai.

Cavolo, stavo per farmela addosso. In una città grande non puoi mai sapere le ultime tattiche dei criminali per attirarti in qualche angolo oscuro, derubarti e riempirti di botte. Ma qualcosa mi disse che la situazione era diversa e il mio carattere da salvatore dell’umanità prevalse. L'adrenalina mi usciva quasi dalle orecchie.

“Cazzo…”, sentii qualcuno mormorare.

La voce era maschile, giovane. Gli occhi mi si stavano abituando al buio e riuscivo a vedere dei bidoni dell’immondizia, dietro ai quali si muoveva qualcosa che mi sembrava un paio di gambe. Passo dopo passo mi avvicinai, le mani già trasformate inconsciamente in pugni pronti a difendermi.

“Ehi, tutto bene lì?”

Avevo il cuore in gola, il respiro sempre più veloce. Non direi che fosse panico ciò che provavo, ma di sicuro un parente non troppo lontano.

“Tutto a posto”, mentì la voce tossendo.

Da come suonava, era palese che non fosse a posto proprio niente. Sicuramente aveva bisogno di aiuto e non avrei chiuso occhio tutta la notte, sapendo di aver lasciato lì qualcuno che stava male. Appena mi fui avvicinato abbastanza da poter guardare dietro i bidoni, mi fermai un attimo. Respira, mi dissi con il cuore pronto a saltarmi fuori dal petto. Lo spettacolo che mi si presentava davanti era alquanto bizzarro. Un ragazzo era seduto, o meglio, sdraiato per terra. Labbro inferiore spaccato, sanguinante come il naso. Era senza maglietta, i jeans sporchi e sbottonati. E la cosa più bizzarra era quel sorriso malizioso. Anche se non sembrava del tutto presente mi puntava. Come cavolo faceva a sorridermi in quel modo, messo così?

“Ti serve una mano?”

??? Che cazzo di domande fai?, mi chiesi. Mi misi in ginocchio per guardare meglio quel pazzo che continuava a sorridermi.

“Hai bisogno di un medico.”

Bravo, osservazione azzeccata.

“A dire il vero, se mi dai una mano ad alzarmi, ti sarei grato”.

Lo tirai su reggendolo subito con un braccio perché barcollava. Secondo me quel poveretto non si rendeva conto di come era messo davvero. Forse era talmente fatto che non sentiva niente. Gli lanciai uno sguardo sulla patta aperta dei pantaloni per fargli notare che era aperta.

“Dovresti… ehm… hai i jeans aperti.”

E quelle, di solito, sono le situazioni nelle quali posso cercare di essere il più tranquillo del mondo, ma le mie gote si colorano in pochi istanti di un intenso colore rossastro, giusto per sputtanarmi e urlare al mondo: DANIEL È IMBARAZZATO! Odio quella reazione fisica! Premetto: il ragazzo non portava intimo di alcun tipo. Un bottone in più e le sue grazie avrebbero potuto penzolare liberamente all’aria fresca.

“Beh, dal colore del tuo viso mi sembra che non ti dia sto gran fastidio”, disse, il sorriso ancora più malizioso di prima.

Mentre si chiudeva i bottoni dei jeans, non mollava i miei occhi per un’instante. Quel sorriso mi toglieva il respiro. Denti perfetti contornati da labbra perfette. Se la situazione non fosse stata quella, avrei giurato che ci stesse provando. Forse aveva battuto la testa talmente forte e ora non sapeva più cosa stesse facendo.

“Dai, usciamo da questo vicolo e chiamo la polizia”, gli dissi, mentre ci dirigevamo verso la via principale. Mancavano nemmeno due chilometri a casa mia e io cosa faccio? Mi trovo un qualche casino, giusto per non annoiarmi.

“Niente polizia”, mormorò guardandomi con occhi supplichevoli.

“Ok, niente polizia”, dissi, anche se non capivo. “Ho la macchina a due passi. Se vuoi ti accompagno in ospedale.”

Almeno sarei stato sicuro che ci avrebbero pensato dei professionisti, e se avesse avuto bisogno della polizia, gliel’avrebbero chiamata loro. Doveva farsi vedere. Ad ogni tocco della mia mano il corpo del ragazzo reagiva con piccoli scatti di dolore. Aveva decisamente bisogno di cure mediche.

“No, niente ospedale, niente luoghi pubblici!”

La sua voce aveva un suono decisamente spaventato.

“Senti, stai sanguinando un po’ dappertutto. Non so se te ne sei accorto. E per il taglio sul sopracciglio ci vorranno minimo due punti di sutura.”

Allora, io non sono un medico e un anno di medicina non fanno di me uno specialista che sa come curare il male del mondo. Bastava guardarlo, però, per rendersi conto che non sarebbe bastato un cerotto. Lui non rispondeva. Tanto dagli occhi la risposta era più che palese: NO!

“Sto bene, veramente. Saresti un grande se potessi darmi un passaggio a casa. Mi chiamerei un taxi, ma penso che non si fermerebbe nessuno, conciato come sono.”

E qui non potevo dargli torto. Se io fossi stato un tassista a New York, di notte, e avessi visto un ragazzo ricoperto di sangue, a petto nudo, anche se fosse stato un figo della madonna (e il caso presente era tutt’altro che brutto), non mi sarei fermato. Non avevo la minima idea di chi fosse. Il solo pensiero di farlo salire in macchina era da pazzi. Poteva essere un tossicodipendente che per dieci dollari mi avrebbe anche potuto sparare. Nascondere una pistola sotto quella poca stoffa che lo copriva era ben impensabile, ma che ne potevo sapere io?

Cosa certa era che avevo di fronte uno completamente fuori di testa. Almeno avrebbe spiegato la sua reazione quando gli avevo offerto di portarlo all’ospedale. Era più terrorizzato dall’idea di essere portato lì, che dai danni procurati al suo corpo, ricoperto da lividi e piccoli tagli. Lo so, lo so. Sommando tutti questi fatti avrei dovuto spingerlo per terra e scappare urlando ‘AIUTO!’. Solo che quegli occhi mi sembravano sinceri, ne ero convinto.

“Va bene. Abito a poco più di un chilometro da qui.”

Sorreggendolo con un braccio, facemmo l’ultimo pezzo di strada verso casa mia. In silenzio. Ogni tanto guardavo il viso del ragazzo con la coda dell’occhio. Era poco più basso di me, il volto storpiato da un’espressione di dolore. Cercava di nasconderlo al meglio possibile. Forse un gruppo di ragazzi, in vena di danni, l’aveva derubato e preso a botte. Ma i jeans sbottonati rimanevano ancora senza spiegazione.

“Io sono J”, si presentò il ragazzo, sorridendomi.

“Daniel.”

“Piacere Daniel.”

C’era qualcosa in quel ragazzo che mi rendeva nervoso. Nervoso in modo strano. Positivamente nervoso. Credo.

Arrivati a casa, lo feci salire in macchina e mi feci spiegare la strada.

Il quartiere verso il quale eravamo diretti non era dei migliori. Papà mi aveva raccontato che era pieno di tossicodipendenti, prostitute e che l’hobby dei ragazzini lì era lo spaccio di droga. L’immagine corrispondeva con l’aspetto di J. Mentre guidavo, continuavo a guardarlo senza farmi notare. La bellezza di quel ragazzo avrebbe tolto il respiro anche all’uomo più etero di questa galassia, se si tralasciava lo sporco e il sangue che gli coprivano il volto. Grasso sembrava una sostanza sconosciuta al suo organismo. Era tutto muscoli e nervi. Ecco, adesso lo sapete. Anche gli uomini sanno essere invidiosi ed era facile esserlo del suo fisico. Nemmeno con cinque ore al giorno di palestra sarei arrivato ad un risultato del genere, praticamente vicino alla perfezione. Era giovane. Si vedeva dalla pelle, anche se il viso raccontava un passato intenso. Avrei voluto chiedere cosa era successo, ma non volevo essere invadente. Se avesse voluto raccontarmelo, l’avrebbe già fatto.

“Ora a destra… puoi parcheggiare qui.”

Guardavo il buio davanti a me. No, non era per niente raccomandabile quella zona. Lasciare la macchina lì non mi sembrava per niente una buona idea. Immaginavo già il peggio. Un gruppo di malviventi che mi circondava, prendendomi a botte, derubandomi e lasciandomi lì per strada, riverso in un mare di sangue. J doveva aver notato il mio stato d’ansia. Si girò e mi lanciò un sorriso da paura, mentre si toglieva una ciocca di capelli caduta sul viso. Mi fece cenno con la testa di seguirlo e scese dalla macchina.

“Aspetta”, urlai e gli corsi dietro. Che cagasotto che ero in certe situazioni.

Attraversammo una stradina buia. Non si riusciva a distinguere nemmeno i propri piedi. Bel posto, pensai, deridendomi da solo per il mio panico. Continuavo a girarmi, giusto per essere sicuro di non essere inseguiti da qualche bruto. Arrivati ad un vecchio portone, J si guardò attorno un attimo. Poi tirò fuori la chiave a aprì.

“Vieni. A quest’ora non è tanto sicuro rimanere qui per strada.”

Ma dai? Il suo sguardo serio non era per niente tranquillizzante. Me la stavo facendo addosso per davvero, non mi fossi trovato entro breve chiuso dietro quel portone.

“Scherzo!”, ghignò, tenendomi aperto la porta. “È solo che si vede lontano un miglio che non sei di qui. E questo sì rende la situazione poco sicura.”

Ah, bene. Allora sto tranquillo, pensai.

Entrati nel palazzo l’immagine sinistra non cambiò minimamente. I muri nel giro-scale erano riempiti di graffiti di ogni tipo, illuminati da una luce mal funzionante. Spaccature di varie misure decoravano il resto del intonaco. Si sentivano delle urla in spagnolo, probabilmente un litigio casalingo. Le pareti dovevano essere di cartone, perché mentre salivamo le scale si potevano udire: una coppia durante il coito, uno che si esercitava con un rap e una che sbraitava con i propri figli. Arrivati al secondo piano ci fermammo davanti ad una porta senza numero né nome. J aprì e mi fece entrare per primo.

“Benvenuto.”

Mi guardai intorno. Se non mi fossi calmato da lì a poco, il cuore mi si sarebbe fermato di botto. Accogliente di certo non era l’aggettivo adatto per descrivere l’appartamento nel quale mi stavo trovando. Era buio, disordinato e l’aria era irrespirabile. Fumo vecchio e freddo era l’odore prevalente, oltre a qualcosa di bruciacchiato indecifrabile.

“Nico!” urlò J. Feci un salto dallo spavento. “Sono a casa! Faccio una pausa da quattro. Diglielo quando lo vedi stasera!” Poi si girò verso di me. “Siediti. Fa’ come se fossi a casa tua.”

Con questo mi lasciò lì in piedi come un coglione. Le opzioni per sedersi erano alquanto scarse. C’era una sedia che avrebbe retto al massimo un peso di cinquanta chili, quindi la scartai. Poi c’era una poltrona, ricoperta da bruciature, e un divano macchiato di un po’ di tutto, ma che sembrava abbastanza comodo. Mi sedetti lentamente, attento a non toccare niente.

Intanto J era andato in bagno. Notai l’assenza di porte all’interno di questo appartamento. Niente privacy. Non era il posto adatto per persone timide.

J di certo non lo era. Si tolse i jeans senza problemi e si fermò davanti allo specchio per studiarsi le ferite in viso. I piccoli tagli che avevo notato sul suo torso, ricoprivano tutto il suo corpo. E che corpo! Doveva essere alto un metro e ottanta. Completamente privo di peluria, si riusciva a vedere ogni singolo muscolo muoversi sotto la pelle tirata. Sommerso da quella visione, non avevo notato che J mi stava guardando, sorridendo compiaciuto.

“Dopo la doccia avrò bisogno di qualcuno che mi disinfetti la schiena”, mi disse, facendomi l’occhiolino.

Cavolo, mi sentivo un maniaco! Il colore rosso mi era tornato in viso, costituendo la prova incastrante che mi aveva beccato in flagrante. Beh, non è che lo stavo proprio spiando. Se hai una meraviglia di corpo maschile di tale bellezza davanti a te, nudo poi, non puoi non guardare! E comunque non lo stavo guardando “in quel modo”. Ero intento a controllare le ferite, quali eventualmente necessitavano per forza di cure mediche, e…

Al diavolo! Lo stavo spiando e come! Alzarmi adesso sarebbe stato alquanto imbarazzante.

“Quattro? Mierda, se sono divertiti”, urlò una voce maschile da una stanza vicina.

Mi girai di scatto quando si accese una luce e un ragazzo piccolo, magrissimo e nudo uscì. Ma son tutti nudi qui?, mi chiesi. Andò verso il bagno, lanciandomi solo uno sguardo frettoloso. Quello doveva essere Nico. Aveva la pelle color caffè latte, era alto non più di un metro sessantacinque ed esile, la muscolatura definita. Sembrava molto giovane. I cappelli neri fino alle spalle, riccioli ribelli, gli scendevano su un viso efebico. Se non fosse stato nudo e non avesse avuto il petto completamente piatto, avrei giurato che fosse una ragazzina.

“Ahi Dios mio…”, mormorò Nico appena vide il suo coinquilino.

Corse nella camera dalla quale era uscito e tornò in bagno con un kit di pronto soccorso in mano. “Esto es de siete, J! Quando la smetti di fare l’eroe? Quei maledetti europei. Se gli dico, que usted necesita de siete…”

“Quattro”, lo interruppe J. “Ne parliamo dopo. Abbiamo ospiti ”, disse cercando di cambiare argomento, sempre con quel sorriso malizioso sulle labbra. Aveva gli occhi nuovamente incollati ai miei e mi indicò con un dito.

Nico si girò e venne verso di me. Quello sguardo da acido mi faceva salire l’ansia, anche se mi arrivava solo all’altezza del petto. Si mise a sedere all’indiana sul tavolino di fronte al divano, proprio davanti a me. La nudità a questi ragazzi non sembrava dare alcun fastidio, e in altre situazioni nemmeno a me.

Non ero abituato ad essere ospite di qualcuno che faceva penzolare i propri attributi liberamente all’aria, senza il minimo d’imbarazzo. I miei sono delle persone molto aperte per quanto riguarda la mia sessualità e la sessualità in generale. Finche rimane dietro i muri di casa. Niente di cui parlare apertamente. Una volta mia madre era entrata in camera mia, mentre mi stavo trastullando. Chiese scusa e chiuse la porta. Il giorno dopo papà mi aveva fatto un discorso su quanto fosse naturale il cambiamento che avrebbe subìto negli anni a seguire il mio corpo e che era normale per un ragazzo della mia età andare alla ricerca di questi cambiamenti. Per tutta la durata del suo monologo avevo tenuto gli occhi abbassati. Dopo non se ne era più parlato.

“Quién es el?” chiese Nico, guardandomi dalla testa ai piedi. Anche senza sorriso e un’espressione finta da incazzato, quel viso non perdeva niente del suo fascino etereo. Anzi. Quegli occhi neri enormi erano ancora più belli quando arrabbiati.

“Mi ha aiutato ad alzarmi e m’ha portato a casa. Non fare lo stronzo.”

Nico mi studiava con fare sospettoso. L’espressione di sfiducia era uguale a quella sul viso di J quando gli avevo proposto di chiamare la polizia o di portarlo all’ospedale. Che i due ragazzi non fossero abituati a fidarsi era ovvio.

“Ciao... ehm... Daniel”, cercai di presentarmi, sorridendo timidamente, mentre gli davo la mano.

Nico guardò la mia mano, sorrise con arroganza, si alzò e tornò verso il bagno.

“Lui è Nico”, urlò J dal bagno.

“Nicolao Joseph Tortades”, lo corresse l’altro ragazzo immediatamente, guardandomi fisso negli occhi. Poi si girò nuovamente verso il suo coinquilino. L’arrabbiatura aveva lasciato il suo viso, un’espressione preoccupata il suo posto.

“Quando hai deciso di portare estranei in casa? Usted está loco?”

Dal tono della voce si capiva che la mia presenza lo aveva reso irrequieto. J aprì la tenda della doccia, uscì, piazzò le sue braccia attorno al ragazzo e lo strinse a sé. La tenerezza del abbraccio era sincera. Dovevano essere amici molto intimi. Mi dava quasi fastidio vederlo abbracciare così dolcemente un altro ragazzo.

“È uno a posto. Tranquillo. Tu basta che stai zitto adesso. Preparati che se no fai tardi. Digli che mi riposo per quattro giorni e poi sono a posto. E non scordarti di portarne un po’. È quasi finita”, disse a Nico che entrò in doccia dopo avermi lanciato un ultimo sguardo assassino e chiuse la tenda.

Con solo un asciugamano avvolto attorno alla vita J venne verso di me. Si sedette sul tavolino, mani incrociate e gomiti sulle ginocchia, e mi guardò negli occhi. Era tutto così strano. Un’ora prima stavo ancora seduto ad un tavolo con la mia migliore amica, parlando dell’eventuale possibilità di innamorarmi in un futuro lontano. E adesso il mio cuore si comportava in modo del tutto irrazionale, solo guardando quegli occhi azzurri di ghiaccio. Conoscevo appena l’iniziale del suo nome. L’avevo visto nudo, ok, che inoltre era stato tutto un programma, ma non c’erano motivi concreti per sentirmi così.

“Avrei ancora bisogno di qualcuno che mi disinfetti la schiena e Nico deve prepararsi per uscire”, mi disse, porgendomi una bottiglietta di disinfettante e delle garze.

Cercai di tenere sotto controllo il tremolio delle mie mani, quando vennero in contatto con quelle di J. Presi la bottiglia e le garze. J si alzò dal tavolino, si girò e fece cadere in avanti la testa, mettendo a mia disposizione la sua schiena. Una rete rossa, che il sangue aveva tracciato assieme alle gocce d’acqua, la ricopriva.

“Mi serve un asciugamano per asciugare le ferite prima di disinfettarle”, dissi alzandomi dal divano.

J afferrò l’asciugamano attorno alla sua vita e girandosi me lo diede in mano. La situazione diventava sempre più scurrile. Con delicatezza tamponavo la schiena del ragazzo, cercando di asciugare la pelle senza procurargli troppo fastidio. Lo sentivo tremare quando il tessuto veniva in contatto con la sua pelle. Presi una garza e la impregnai con il disinfettante.

“Questo farà un po’ male”, lo avvisai, prima di iniziare con la prima ferita.

L’unico rumore che si sentiva era il respiro irregolare del ragazzo, intento inconfutabilmente a sopprimere il dolore. Io non è che ero uno delicato parlando di dolore, lo sopportavo abbastanza bene. Fossi stato io, però, quello con il corpo pieno di taglietti, sarei morto nell’istante in cui il disinfettante fosse venuto in contatto con la pelle lesa. Ero sempre più curioso ed infine non riuscii più a trattenermi.

“Cosa... Cosa ti è successo?”, chiesi mormorando.

“Notti un po’ troppo focose”, mi rispose, la voce interrotta dalle fitte che gli passavano attraverso tutto il corpo ogni volta che tamponavo una ferita nuova.

Con chi cazzo tromba, mi chiesi, mentre pulivo l’ultimo taglio sul collo del ragazzo. Avrei voluto avvicinarmi a quel collo, annusarlo, coprirlo di piccoli baci. J si girò di scatto, il viso solo pochi centimetri dal mio. I capelli biondi e bagnati gli scendevano sugli occhi. Mi fossi lasciato andare alle emozioni, mi sarei perso. Subito. Non so cosa avrei dato per baciare quelle labbra. Ma il ragazzo aveva bisogno di tutt’altro adesso, ne ero consapevole e volevo fare il gentiluomo. Quindi mi rimisi a sedere sul divano.

“Prima di pensare alle altre ferite ho bisogno di un drink. Cosa prendi, Daniel?” chiese, avviandosi verso l’angolo cucina.

“Solo un po’ di acqua”, risposi.

“Acqua?” J mi guardò sorpreso, come se gli avessi chiesto la cosa più strana di questo pianeta.

“Ehm, devo vedere se… ehm… penso che… Eccola, è rimasta una bottiglietta”, mi lanciò la bottiglia d’acqua che presi al volo. J aprì un armadietto, tirò fuori una bottiglia di Gin e bevve qualche sorso direttamente dalla bottiglia.

Questo aveva deciso di farmi impazzire, ne ero sicuro. Era impossibile non guardare quel corpo nella penombra della stanza. Sarei stato disposto a comperargli un set nuovo di lampadine, giusto per avere più luce e vederlo meglio.

Dopo aver trangugiato un buon terzo della bottiglia, prese il disinfettante e se lo versò addosso in un colpo. Feci un salto all’espressione del suo viso. Sentivo persino io il dolore per lui! Doveva bruciare come l’inferno. Lacrime gli scappavano dagli occhi, concentrato a trattenere un urlo. Svenire sarebbe stata una conseguenza più che naturale e tra me e me glielo auguravo. Ma niente. Neanche un rantolo.

Nico uscì dal bagno poco dopo coperto con un accappatoio e si fermò davanti a J, osservando con sguardo scettico il suo coinquilino.

“Non sono quattro. Non ti basteranno mai, J”, sfiorò una ferita sul petto dell’amico. “Non ha senso fare il duro e non riprenderti fino alla próxima vez. Datti almeno sette.”

“Nico…”, il tono di J era seccato, ma ancora gentile.

“Se parlo con Big D sicuramente entiende. Posso sostituirti yo per una semana.”

“Nico, per favore, basta adesso”, iniziò ad irritarsi.

“Vedo che non reggi più... No quiero che...”

Sentii lo schiaffo prima ancora di riuscire a girarmi verso i due. Nico si teneva una mano sulla guancia sinistra e J lo aveva preso per le spalle scuotendolo.

“Quattro! Chiaro?” urlò tra denti serrati. Poi prese Nico tra le braccia e gli baciò la testa. “Sai che non mi ci vuole niente per riprendermi. Adesso vai, prima che arrivi in ritardo. Big D detesta aspettare.”

Nico tornò in camera sua, uscì vestito con jeans, maglietta, felpa e scarpe da ginnastica e lasciò l’appartamento senza degnarmi di un’ultima occhiata. Vedi, ogni tanto basta poco per farsi nuovi nemici. Qualche volta basta esistere (o sbavare dietro ad un bonazzo nudo).

Sedutosi vicino a me sul divano, J tirò fuori una sigaretta da un pacchetto sul tavolino. La accese, fece qualche tiro profondo, espirò e la mise nel posacenere. Non sapevo cosa dire. Ero ancora occupato ad elaborare quanto fosse successo nelle ultime ore.

Ad un tratto J si alzò, si sedette sopra le mie gambe, il viso rivolto verso me, sorridendomi eroticamente. L’amichetto tra le mie gambe ci mise esattamente cinque secondi per svegliarsi.

“Non ti ho ancora ringraziato”, sussurrò, avvicinando le sue labbra alle mie.

Preso da tutta quella serie di eventi, non ero riuscito a fare altro che sciogliermi nel suo bacio. Avevo bisogno di spegnere la mente, fosse stato anche solo per qualche secondo. Quelle labbra. Parliamoci chiaro: non ero un verginello. Ne avevo baciate di bocche e tante erano state attaccate a soggetti di bellezza superiore alla media. Ma questo bacio era diverso. Mi sembrava che la vista mi si stesse riempiendo di piccole macchie bianche. Ancora qualche secondo in più e avrei perso coscienza, da quanto mi girava la testa.

“Aspetta…”, riuscii a dire, le sue labbra ancora incollate alle mie, e riempii i miei polmoni che si erano dimenticati come si rimetteva l’ossigeno in circolo. Mi feci violenza per staccarmi da quella statua umana seduta sopra di me. Indossare una tuta dal tessuto leggero non è il massimo in quelle situazioni. La mia eccitazione era palesemente visibile, ma almeno coperta. J invece, giusto per ricordarlo, era nudo. Vedere il suo sesso animato di fronte a me non era certo d’aiuto per calmare il mio.

“Non devi ringraziami… in questo modo…”

Coglione! Non avevo idea di cosa mi stesse succedendo. Per qualche motivo inspiegabile riuscii a dire di NO al ragazzo più bello e sexy mai incontrato. A parte il fatto che non osavo toccarlo. Troppe ferite e troppa passione per riuscire a controllarmi.

J mi guardò un po’ spiazzato. Non sembrava incazzato, né offeso. Gli si stavano inumidendo gli occhi però. Ce l’avevo fatta. Avevo incontrato il tipo più bello mai visto ed ero riuscito a farlo piangere. Scese dalle mie gambe, si sedette vicino a me, nascondendosi il viso tra le mani.

“Non ce la faccio più...”

Il sussurro era quasi impercettibile e pure era riuscito a trasmettermi la disperazione celata dietro le sue parole. Non avevo idea di cosa fosse successo a quel ragazzo, e la sua spiegazione di una serata ‘di fuoco’ non era per niente credibile. Dalla sua reazione, oltre al resto registrato durante la sera nel suo appartamento, non doveva essere stata la prima volta. Avevo davanti una persona che non sembrava più in grado di gestire la sua attuale situazione.

“Puoi parlarne, se vuoi…”

Grande! Le parole giuste nei momenti sbagliati! Sempre. Ma che gli dici ad un ragazzo in quelle condizioni, prossimo ad un crollo?

J si girò verso di me, gli occhi arrossati dalle lacrime. Un sorriso debole gli comparse sulle labbra, mentre scuoteva la testa incredulo. Il suo viso sembrava un campo di guerra devastato. Mi si strinse il cuore, dolorosamente.

“Parlarne…”

Le sopracciglia tirate in su erano la conferma che avevo fatto una gran bella figura di merda. Parlarne. Alla fine ero un perfetto sconosciuto e lui non mi doveva dire un bel niente.

“Non posso parlarti di queste cose, Daniel. Non vorrei essere io il responsabile di uccidere la tua fiducia nella razza umana. Tu sei un bravo ragazzo. Purtroppo non posso dire lo stesso di me.”

Lacrime scendevano silenziosamente sulle sue guance mentre parlava. Mi stava guardando con occhi tristi. Sicuramente non era abituato ad essere respinto, anche se l’avevo fatto per non sembrare un assatanato di sesso, pronto ad aiutare le persone solo per avere qualcosa in cambio. Giuro!

“Non sono tutti come te. Se vuoi qualcosa, devi pagare. E con il denaro oggi ti puoi comprare tutto.”

Forse il pensiero sulla prostituzione, che mi aveva sfiorato per un secondo la mente, non era poi così errato, pensai, temendo di aver aperto una finestra ad un mondo che non ero sicuro di essere pronto a scoprire. Sicuro era, invece, che quel ragazzo aveva bisogno di sfogarsi e volevo dargli questa possibilità. Fosse stato pronto lui.

“Forse è meglio che tu vada. È stata una notte lunga anche per te.”

Con questo si alzò, andò verso l’unica porta dell’appartamento, che era quella dell’uscita, e la aprì, lo sguardo basso, quasi come se si vergognasse.

“Grazie per avermi accompagnato a casa.”

Lo raggiunsi alla porta e mi fermai davanti a lui. Mi piangeva il cuore lasciarlo da solo in quel momento, nello stato emozionale in cui era. In quei momenti le persone non sempre sanno ciò che fanno. Il solo pensiero di lasciare dietro di me un ipotetico caso di suicidio mi faceva rabbrividire. Magari dopo qualche giorno avrei aperto il giornale per leggere di un ragazzo biondo trovato morto con in mano un biglietto: mi sono ammazzato perché quello stronzo, Daniel Clark, mi ha lasciato da solo!

“Se vuoi ringraziarmi, sarebbe un piacere poterti invitare a bere qualcosa un giorno. Decidi tu quando.”

Presi un foglietto di carta e una biro dalla mia borsa a tracolla, segnai il mio numero di cellulare e glielo porsi. J mi guardò negli occhi, un grande punto di domanda stampato in faccia, non sicuro se accettare la proposta. Alla fine prese il biglietto. Gli sorrisi e lasciai l’appartamento senza aggiungere altro.

Che serata. Mentre tornavo alla mia macchina non mi guardai più in giro. Il buio e l’atmosfera criminosa di quel posto non mi facevano più paura. Avevo impresso in mente solo quel viso, bagnato da lacrime di disperazione e dolore. Mi leccai le labbra. Riuscivo a sentire ancora il suo sapore in bocca. Non avessi saputo che la saliva era più o meno insapore, avrei giurato che fosse dolce. Avevo una sensazione strana nello stomaco. Molto strana. E nuova. Dormirci sopra avrebbe aiutato per digerire tutto quanto.

La colpa è sua

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