Читать книгу La colpa è sua - Alek's Books - Страница 11

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Ormai erano passate due settimane da quando avevo trovato J. La speranza di rivederlo diminuiva ogni giorno che passava. Nessun sms. Nessuna chiamata. Nulla. Avrei potuto farmi trovare davanti a casa sua, ma non volevo fare la figura dello stalker di turno. Tutta la settimana avevo avuto difficoltà a concentrarmi sul lavoro. Emma era in ferie, e quindi ero da solo pure sul lavoro, in preda a paranoie e pensieri irrazionali. Mi ero abituato a non sentire più i ragazzi delle mie scappatelle e sinceramente non me ne era fregato mai niente. Certo, ogni tanto capitava quello che mi avrebbe fatto piacere rivedere, ma se non era così non l’avevo mai considerato un problema. J invece non mi passava più dalla testa. Forse era meglio così. Il ragazzo aveva già troppo a cui pensare.

Mamma poi non credo avrebbe gradito l’idea di sapermi legato ad un personaggio così bizzarro. Mi aveva sempre immaginato insieme ad un bravo ragazzo, magari un giovane medico in carriera. Uno a gestire le faccende casalinghe, l’altro a portare a casa i soldi. La classica versione eterosessuale della coppia, insomma. Il fatto di essersi separata da papà quando avevo quindici anni, l’aveva portata a sognare un futuro diverso per suo figlio. Uno nella situazione di J non sarebbe rientrato nel suo quadro felice di famiglia alternativa.

Per fortuna c'era tanto da fare nel centro, altrimenti le giornate non mi sarebbero più passate. E comunque non aiutava a diminuire le seghe mentali che mi facevo sui perché non si era ancora fatto vivo. Davanti a me c’era tutto un weekend, quindi o avrei preso in ostaggio Emma, o me ne sarei stato a casa, da solo, a sfasciarmi la testa sui motivi della mia sfortuna in amore.

Ero appena tornato a casa e mi stavo preparando per la serata con Emma e il suo futuro marito Phil. Per fortuna avevano chiamato per chiedermi se avessi avuto voglia di mangiarci una pizza insieme.

Uscito dalla doccia mi ero fermato davanti all’armadio per almeno quindici minuti per scegliere l’abbigliamento giusto. Anche se non c’era niente da scegliere. Non vi era motivo per tirarmi a lucido, tanto eravamo solo noi tre. Quindi scelsi una tuta comoda. Appena indossati i pantaloni, sentii vibrare il cellulare sul comodino. Numero sconosciuto.

EHI BELLO. STASERA SAREI LIBERO PER QUEL DRINK. J

Guardai l’sms per non so quanti minuti. Mi sembrava quasi irreale. Sentivo un galoppare strano. Era il mio cuore. Niente tuta! Era ora di sfoggiare il massimo di me, di dare la miglior impressione di sempre, ovviamente senza alcun secondo fine. Volevo solo offrirgli qualcosa da bere. Giusto per vederci e fare due chiacchiere. Forse. Beh, vedremo, pensai.

EHILÀ. STASERA VA BENE. VENGO A PRENDERTI ALLE 8:30???

Troppi punti di domanda, troppo entusiasmo palese.

Devo chiamare Emma, pensai, sicuramente avrebbe capito. Se le avessi detto che sarei andato a bermi qualcosa con uno, non avrebbe potuto fare altrimenti che essere felice per me. In particolare modo perché sarebbe stata un’uscita pre-trombata come l’aveva sempre desiderata. Aveva aspettato una chiamata così da anni. Ma prima volevo essere sicuro che l’appuntamento, cioè, il drink, fosse cosa certa. Quindi aspettai la conferma da parte di J. Tirai fuori dei jeans strappati, una T-shirt aderente, ma non troppo, scarpe da ginnastica e un giubbotto leggero in pelle. Mentre mi stavo allacciando le scarpe, il cellulare vibrò di nuovo.


OK. A DOPO

E vai!

Non avevo fatto in tempo a cercare il numero di Emma nella rubrica che mi suonò il cellulare.

“Ciao tesoro! Sei già pronto? Noi siamo appena arrivati.”

“Ciao Emma, senti... per stasera...”

“Non dirmi che ci stai tirando un bidone? Come osi! Come si chiama?” scherzò.

“Non ti posso dire ancora niente perché non siamo ancora usciti. Stasera volevamo andare a prenderci qualcosa da bere. È che mi ha appena scritto, sennò ti avrei avvertita prima.”

Il silenzio dall’altra parte era la conferma che la notizia era stata una novità gradita per Emma. Almeno lo speravo.

“E non avete ancora trombato???” Quasi non ci credette.

“No.”

“FINALMENTE!!! Giura: appena torni a casa mi devi chiamare e raccontarmi tutto!”

“Sarà fatto!”

Sapevo che sarei tornato a casa con assoluta certezza. Non avevo alcuna intenzione di fare con J le cose nel modo in cui le facevo sempre. Non stasera. Volevo provare a iniziare una conoscenza sì oralmente, ma senza membri in bocca. Solo a parole. Avrei chiamato Emma al massimo il giorno dopo. Non vedevo l'ora di raccontarle tutto.

“Ok tesoro, buona serata allora! E mi raccomando, cuciti la chiusura dei pantaloni.”

“E se devo andare in bagno?”

“Mettiti il catetere, che ne so io, ma NON aprire quella lampo! Bacio."

“Bacio.”

Agganciai sorridendo. Era andata meglio di quanto avessi previsto. Erano le sette e mezza e avevo ancora abbastanza tempo per decidere dove portare J. Pensavo che posti troppo eleganti lo avrebbero messo a disagio e quindi ‘da Toni’ sarebbe stato perfetto con la sua atmosfera rilassante. O sarebbe stato forse meglio andare a prenderlo e far decidere direttamente a lui?

Mi fermai davanti allo specchio per controllarmi. Look normale, casual. Da bad-boy. La T-shirt mi metteva in risalto le spalle e i bicipiti, mentre i jeans morbidi e strappati mi davano l'aria di uno che se ne fregava del proprio aspetto. In più mi facevano un fondoschiena da paura. Tutte quelle ore in palestra avevano dato dei risultati piacevoli. Mi feci l’occhiolino da solo per caricarmi l’autostima, quando mi resi conto dell’ansia piacevole, anche se leggermente fastidiosa, che mi stava salendo. Era come tornare ragazzino e uscire per la prima volta con qualcuno che ti piace da tanto tempo. Mi ero promesso, cuore sulla mano, di non aspettarmi nulla dalla serata. Promessa che però era destinata a perdersi velocemente e volontariamente. Avevo delle aspettative, eccome, anche se non sapevo minimamente quali. Probabilmente non volevo ammetterlo a me stesso. Era passato troppo tempo dall’ultima volta che mi ero sentito così stupido. Non riuscivo nemmeno a ricordarmela. Finito il mio monologo cerebrale diedi un’ultima occhiata al ragazzo nervoso che mi guardava dallo specchio, presi le chiavi della macchina e partii.

Eccomi di nuovo nel nido del crimine, pensai mentre parcheggiavo la macchina. Scesi e m’incamminai a passo spedito con la testa bassa verso il palazzo nel quale abitava J. Senza compagnia, quel posto era ancora più inquietante. Non guardavo nessuno, cercando di sembrare il più disinvolto possibile. J mi venne incontro proprio quando stavo per aprire il portone. Un sorriso smagliante mi rubò il respiro.

“Ehi”, dissi, sorridendo come un ebete. Appena J mi guardava con quegli occhi chiarissimi, di un azzurro ghiaccio diverso da tutti quelli mai visti prima, e quel suo sorriso perfetto, sentivo le mie ginocchia minacciare di cedere. Cosa mi stava facendo? Voodoo? Sarebbe stata una spiegazione quantomeno plausibile.

“Ehi. Pronto per qualche bicchiere? Offro io”, disse, non staccando i suoi occhi dai miei.

“Gli accordi erano che ti avrei invitato io.”

“Esatto, ma sono io a doverti ringraziare. E non sono tipo da accordi. Né da discussioni.”

"Ok."

Tanto avrei perso lo stesso. Se mi avesse chiesto di spogliarmi nudo e camminare a quattro zampe fino alla mia macchina, abbaiando come un cane, l’avrei fatto. Mi aveva stregato in quattro e quattr’otto. Gli chiesi dove gli sarebbe piaciuto andare. Propose un locale un po' fuori dalla città. Quindi partimmo.

"È da tanto che abiti con Nicolao?” cercai di iniziare una conversazione. Dalle sue indicazioni avevo supposto che avremmo impiegato un’oretta per arrivarci, perfetto per avere un po’ di tempo in due per scoprire di più su quel biondo misterioso.

"Da due anni. Nico è stato buttato fuori a sedici anni dai suoi, quando ha detto loro di essere frocio. È riuscito a venire qui dal Mexico con uno. Diciamo che sono stato il suo primo amico."

“Siete stati una coppia?"

"Perché?” mi chiese sorpreso.

"M-mi era sembrato che non gli andasse la mia presenza in casa, e quindi avevo pensato… Scusa, ogni tanto mi faccio dei film da solo."

Ghignò.

“È molto protettivo nei miei confronti. E poi è un geloso di natura. Sarà il suo carattere da latino. La sua famiglia ha interrotto qualsiasi contatto con lui, e quindi io e l'altro ragazzo che abita con noi siamo diventati una sorta di famiglia per lui.”

"L'altro ragazzo?"

Ecco, lo sapevo. J stava iniziando a raccontarsi e io reagivo esattamente come non avrei dovuto reagire. Da futuro marito geloso. Avessi potuto, sarei tornato indietro di cinque secondi, giusto per correggere il tono con il quale avevo fatto la domanda. Troppo geloso, troppo. Guardai velocemente nella direzione di J che aveva un sorriso compiaciuto sulle labbra. La cosa lo stava divertendo.

"Sì, Wotan, un ragazzo dalla Germania. Non so se si chiama veramente così, ma si è sempre fatto chiamare in quel modo. Anche lui buttato in strada dai suoi dopo l’outing. Lui era il mio primo coinquilino. Ma è sempre in giro. È come se non ci fosse. Per fortuna. Tra lui e Nico c’è sempre un po’ di tensione”, ridacchiò.

Mi raccontava di Nicolao che si era innamorato di Wotan da quando era arrivato a New York e l’aveva conosciuto. Wotan era un bel ragazzo, ma per niente il tipo di J. Era poco più alto di lui, magrissimo, pieno di pircing, capelli rasati. Sembrava uno da non frequentare, fosse stato per il suo aspetto e per l’uso continuo di cocaina, eroina, pastiglie di ogni tipo e tutto quello che riusciva a ricuperare gratuitamente. J adorava però la sua capacità di far ridere anche i morti. Oltre all’accento tipicamente tedesco, che non era riuscito a togliersi in tutti questi anni, era una battuta dopo l’altra. Tirava tutto nel ridicolo, alzando l’umore dei suoi due coinquilini nei tanti momenti bui della loro vita. Niente sembrava riuscire a scuoterlo per davvero. Veniva però toccato uno dei suoi amici diventava una bestia. “Gli amici sono santi”, diceva sempre. Per Wotan la vita era come un libro: se non gli piaceva un capitolo, voltava pagina senza nemmeno chiedersi cosa c’era scritto. Era da subito diventato come un fratello maggiore per J, che allora aveva diciassette anni, sempre presenti quando avevano bisogno l’uno dell’altro.

Per Nicolao invece era difficile conviverci, continuava J. Non era mai riuscito ad accettare il fatto che Wotan non fosse attratto da lui, completamente insensibile davanti a quel fascino da ragazzino eterno. C’aveva provato in tutti i modi: facendosi trovare nudo nel suo letto, portandogli regali di ogni tipo, procurandogli le droghe che voleva quando ne era sprovvisto. Ma niente. Wotan gli voleva bene, tanto. Per lui era un fratellino piccolo e se lo sarebbe coccolato volentieri, se i suoi abbracci non fossero stati interpretati sempre in modo sbagliato. Tutto questo scatenava perpetue tensioni tra i due. Nicolao era intrattabile quando c’era anche Wotan, scaricando le sue frustrazioni su J. E Wotan, dopo la prima, seconda, terza volta che Nicolao gli rispondeva con lo sguardo da cagnolino bastonato, si arrabbiava puntualmente.

“In quelle situazioni non potevo fare altro che ritirarmi in stanza mia e mettermi le cuffie, per coprire le continue discussioni con un po’ di musica. Adesso per fortuna si sono calmate le acque. Ti piacerebbe Wotan, fa morire dal ridere! È strano, ma in gamba.”

“Tu e lui…”, iniziai, già pronto a chiedergli se vi era qualcosa di tenero tra loro due. Non che ne avevo avuto l’impressione. Ciò che mi aveva appena raccontato dei suoi inquilini, sembrava non più di un’amicizia fraterna. Volevo però andare sul sicuro, prima di fare un’ulteriore figuraccia. Avere un minimo di certezza, insomma, che le sensazioni, provate ogni volta che J mi guardava negli occhi, potessero continuare il proprio percorso naturale, senza bastonate inutili ed evitabili.

Sentii J voltarsi per guardarmi. Quello sguardo bruciava quasi, esigente della mia attenzione. Fermi ad un semaforo, girai la testa per incontrare i suoi occhi. Un sorriso a trentadue denti apparì sul suo viso, intenerito da un’imbarazzo appena accennato.

“No. Sono liberissimo.”

Sentivo le mie guance bruciare. Era la risposta che avevo sperato di ricevere. Liberissimo. E da come l’aveva detto, l’intenzione di cambiare lo stato attuale ce l’aveva anche lui.

Semaforo verde.

“Lì a destra c’è l’entrata al parcheggio sotterraneo.”

Era decisamente meglio che lasciare la macchina per strada. La zona non era delle più tranquille e non volevo farmi rinfacciare un qualsiasi danno. Tra quel posto e il quartiere dove abitavo, non avrei saputo scegliere quale facesse più impressione. Beh, io ci ero abituato, ormai non ci facevo più caso. Ma si capiva lontano un miglio quanto fosse nervoso Daniel.

Scesi dalla macchina prendemmo l’ascensore e scendemmo un ulteriore piano. Il locale era sotto terra, perfetto per impressionare chiunque non fosse abituato ad un certo tipo di posto.

“Rilassati. Sembra più oscuro di quello che è”, cercai di tranquillizzarlo sorridendo, appoggiandogli una mano sulla spalla e stringendogliela.

“Benvenuto al S.O.P.!”

Appena si aprì la porta dell’ascensore, Daniel rimase a bocca aperta. La luce soffusa illuminava in modo accogliente e caldo un locale di un’eleganza stratosferica. Piccoli divanetti di velluto rosso scuro erano sparsi in una sala rotonda di circa cinquecento metri quadrati, completati da piccoli tavoli di cristallo. Il pavimento lucido di marmo color antracite era impeccabile. Se un giorno mi dovessi comprare un appartamento, magari un attico nel centro di New York City, voglio un pavimento così! Distribuiti tra i divani c’erano poi dei grandi dischi cromati che fungevano da cubi, sui quali ballavano ragazze in topless di ogni razza e colore. I dischi venivano sorretti da lunghi tubi metallici, ricoperti da una vernice nera opaca, così sembrava fluttuassero nel vuoto. Era proprio figo come posto, e dagli occhi di Daniel mi sembrò di capire che gli piacesse.

Appena mi videro, le ragazze sui cubi mi lanciarono baci con le mani, alcune si abbassarono per darmi un bacio in bocca e salutarono Daniel facendogli l’occhiolino. Lo presi per mano e lo tirai verso un tavolo esterno, vicino al bancone del bar. Lo feci sedere e andai da Luke, il barman, per ordinare una bottiglia di Moët & Chandon.

Luke era l’amico di tutti. E la puttana più falsa del mondo. Finché aveva la minima speranza di trarre un qualsiasi vantaggio da una conoscenza era il perfetto compagno d’avventura. Appena non gli servivi più, ti distruggeva con voci di corridoio acide e viscide. Ci aveva provato con me da quando aveva iniziato a lavorare al S.O.P., ma non ero mai stato interessato. Dopo un anno di avance lasciò finalmente perdere.

Gli dissi che ero venuto con un cliente, giusto per evitare delle chiacchiere. Big D, il proprietario di quel posto, non voleva che frequentassimo ragazzi al di fuori del Club, o che portassimo uomini che non fossero clienti. Ma siccome ero stato sempre in ottimi rapporti con lui, nel senso del rispetto reciproco intendo, non mi facevo alcun problema. Tanto non c’era quasi mai.

Tornai da Daniel, aprii la bottiglia con un botto, riempii i bicchieri e gliene porsi uno.

“Beh”, iniziai, sempre e stranamente imbarazzato, “grazie ancora per la gentilezza e l’aiuto.”

“È stato un piacere”, rispose Daniel, sorridendomi con un fascino che non avevo ancora notato in modo così forte. Probabilmente l’imbarazzo degli altri lo aiutava a confidare di più in sé stesso. “A cosa brindiamo?”

“Alla festa della donna. E a quelli che, invece di far finta di non sentire qualcuno dentro un vicoletto buio, non sanno farsi i cazzi propri”, ghignai.

“Agli impiccioni”, rise Daniel.

E quindi brindammo.

Bevevamo in silenzio, entrambi un po’ impacciati. Uno avrebbe dovuto iniziare una conversazione ed inevitabilmente sarebbe venuta fuori la sera di due settimane prima. La spiegazione frettolosa che gli avevo dato a casa mia non gli sarebbe bastata di sicuro.

Era ovvio che Daniel avesse delle domande. Non si trova un ragazzo conciato così, steso per lungo e largo in un vicolo buio di notte, senza maglietta e con i Jeans sbottonati. È che non sapevo come spiegarglielo. Tra i miei amici era normale parlare di sesso e clienti, raccontarci a vicenda cosa ci chiedevano di fare. Ogni tanto era pure eccitante. Certi racconti avrebbero fatto arrossire un buon numero di attori porno navigati. Per me era un lavoro, e alcol e cocaina aiutavano solo a lasciarmi andare di più e a superare i miei limiti. O a spegnermi.

Ora era arrivato il momento di rispondere alle domande che si riuscivano a leggere negli occhi di Daniel. In un certo senso mi vergognavo, cosa che non mi era mai successa prima.

“E quindi ti conoscono bene qui”, iniziò Daniel, cercando di lanciare un dialogo.

“Sì”, passaggio perfetto per iniziare, pensai sollevato, “lavoro qui.”

L’ansia se ne stava andando. Il secondo bicchiere di champagne aveva iniziato ad avere effetti benefici e la mia faccia tosta stava tornando alla carica.

“Cioè”, sembrava un po’ confuso, “balli sui cubi?”

Lo guardai con occhi spalancati e scoppiai in una risata.

“Dobbiamo cercare di attirare clienti, non di farli scappare inorriditi”, urlai.

Ho un grave difetto fisico sin dalla nascita. Ho le gambe di legno, quando si tratta di ritmo musicale. Uno psicologo avrebbe un bel lavoro da fare, volesse scoprire perché a letto il mio corpo funziona a meraviglia, mentre in pista da ballo sembro un perfetto idiota. I ragazzi di colore che lavoravano al S.O.P. erano scoppiati all’unisono in una risata, quando mi ero lanciato la prima volta in pista da ballo. Da allora non ci avevo più messo piede.

“No, non ballo. Diciamo che faccio una sorta di intrattenimento”, come definirlo, “diverso.”

La colpa è sua

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