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LE PRIME ACCOGLIENZE
III
ОглавлениеDel romanzo si occupò anche un valentissimo giureconsulto, il prof. Giovanni Carmignani, e lo fece soggetto di un dialogo tra un critico e un giornalista48. Il giornalista loda sempre e sempre difende; il critico biasima e va cercando addirittura il pelo nell'ovo; finisce però col ricredersi, e conchiude: «Eccomi pure a me:
…il finto
mio rigore abbandono.
E sapete perchè mi piacque essere rigoroso! perchè nel romanzo mi punse la frase derisoria ch'io c'incontrai contro quel Metastasio, co' versi del quale chiudo adesso il nostro colloquio, non essendomi sembrato, che l'anima più drammatica, che abbia natura prodotta, dovesse deridersi come pittrice di eroi paragonabili a gente da piazza e da trivio. Del resto, io sono d'avviso, che il romanzo è una originale e classica produzione; che son sogni e ciance i supposti plagi dal Walter Scott nelle Prigioni di Edimburgo e ne' Puritani di Scozia; che l'A. ha finalmente dato un romanzo alla prosa italiana e ha fatto cessare l'antico e giusto rimprovero dell'Arteaga allorchè nelle sue note alla dissertazione del Borsa rinfacciava alla Italia di non avere un S. Real ed un Marmontel; che, prescindendo da certa mancanza di più verisimil cemento nella struttura dell'azione del romanzo, il merito della esecuzione vince sempre e riscatta qualunque più minuto difetto dell'opera. E poichè incominciai col mostrarmi nemico del romanticismo, ingenuamente vi dico, che se vi ha componimento nel quale quel genere possa essere, onde servire all'effetto, adottato, egli è certamente il componimento in prosa e il romanzo».
De' tanti appunti fatti dal critico a' Promessi Sposi, uno mi sembra degno di nota. Toccando della «mala voglia» con la quale Lucia «si presta a sorprendere il parroco», trova che l'espediente del matrimonio clandestino «non era certo peccaminoso», ma «di tale evidente giustizia, che, prescindendo dalla logica dell'amore, se ella ne aveva pure per Renzo, doveva a lei dimostrarla il rifiuto d'un parroco ignorante, pauroso, avaro e usuraio, come l'Autor lo dipinge». Poi, in nota, aggiunge: «Le denunzie erano già fatte e il matrimonio non poteva dirsi più clandestino, non rilevando molto la sua celebrazione in luogo non sacro. Sancez, De matrim., lib. III, disp. 15, n. 20. E qualora le denunzie non fossero state fatte, i migliori moralisti son concordi nel dire, che quando il matrimonio è ritardato dall'immaginevole rifiuto del parroco, non è peccaminoso il sorprenderlo, per contrarlo. Paul. Gabriel. Antoine, Theol. Moral. univ. tractat. de matrimonio, § 13, not. 3. Ecco dunque un romanzo, il qual poggia tutto sopra un errore di gius canonico e sopra un error di morale».
Al Carmignani è però sfuggito un altro piccolo scappuccio del Manzoni. Fa del P. Cristoforo il confessore di Lucia; ora, la giovane fidanzata, nel 1628, non poteva confessarsi da lui, perchè «i cappuccini di quei tempi, giusta l'inibizione delle loro costituzioni, tolta solo qualche tempo dopo, non confessavano assolutamente persone estranee all'Ordine49».
Un critico milanese, a cui piacque di restare anonimo50, prese a leggere i Promessi Sposi; e sebbene, durante la lettura, non venisse «giammai scemandosi» in lui la «stima grandissima» che aveva per «quel celeberrimo autore, di cui tanto è vulgata la fama, che non pur nell'itala terra, ma in tutte le più colte nazioni è molto apprezzato»; nel romanzo trovò quella «imperfettibilità», che è «indivisibile compagna de' figliuoli di Eva». Pensò dunque di «schiccherare un foglio d'alcuni cenni critici intorno a ciò che di meno pregevole e di meno consonante al rimanente» vi aveva rinvenuto; manifestando nel tempo stesso «le bellezze ancora dell'opera, benchè con minore verbosità dei difetti». Lasciando in pace le «bellezze», diamo un saggio dei «difetti» che la fantasia del critico nota: «Renzo ed Agnese volevano che Lucia parlasse di che le avvenne con don Rodrigo: Ora vi dirò tutto, rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiale. Se l'A. laddove dipinge Lucia vestita nel giorno nuziale me l'ha presentata, oltre agli spilli e al rimanente, con due calze vermiglie, con due pianelle di seta a ricami, e mi ha passato sotto silenzio il grembiale, io fui necessitato di attingere ch'ella in quel dì non lo cingesse. Adesso poi veggio che appunto in quel medesimo giorno, e non ancora tramutata di panni, si terse le lagrime col grembiale. Com'è questa faccenda?.. O Lucia aveva il grembiale, o Lucia non lo aveva; una delle due. Se lo aveva, inavvedutamente l'Autore: 1.º ha trascurato di farlo conoscere al proprio leggitore; 2.º gli ha dato verun prezzo, facendogli esercitare l'officio del moccichino, mentre, se a tutto l'abito doveva aver consonanza, saria pur valuto qualche cosa. Se all'incontro non lo aveva dapprima, o l'A. ha preso adesso un abbaglio, o fa duopo argomentare, non che inserire negli annali, che = uno spirito, nel giorno 8 di novembre dell'anno di nostra redenzione 1628, ha cinto di un grembiale Lucia Mondella, mentr'essa stava per favellare di don Rodrigo con Agnese sua madre e con Renzo Tramaglino suo innamorato =». Eccoci ad Agnese, che, in casa del sarto, si abbocca col Cardinal Federigo e svela le colpe di Don Abbondio. «Udire una femmina» (nota il critico) «inveir quasi, e dinanzi al Cardinale, e contra il proprio curato, e perchè? perchè questi, onde scansare di perir tosto, ha prorogato il giorno delle nozze: ov'è colui che non saria preso da escandescenza contro della donna crudele, e non cercherebbe di turargli la bocca e di troncargli nella strozza le parole, ove la donna non fosse una larva che lo eludesse? Ma la passione del leggitore vuole pur trovare il suo sfogo; sicch'essa, riversandosi almeno sopra le pagine istesse, che ha dinanzi, chi sa quante insieme a quelle ne andranno vittima! Il mio tirare di penna è sicuramente il minor male».
Giuseppe Veladoni riconosce «che le menti di tutti gli italiani, e si potrebbe anche dire di molta parte d'Europa, restarono sopraffatte di meraviglia, da entusiasmo e da vero diletto» a leggere i Promessi Sposi. «Una tanta opera… non poteva esser pensata e scritta che da un profondo filosofo, da un vero conoscitore del cuore umano e da una penna condotta dai sentimenti più vivi di religione e di patria… Per me, credo impossibile che siavi uomo di cuore che non abbia da rimaner commosso sino alle lagrime in più e più luoghi di questa mirabile prosa… Essa è un libro che non perirà mai e farà sempre grande onore all'Italia del secolo XIX. Ma che? Non ha dunque difetti? Sì, ne ha: ma tutti compensati da una straordinaria bellezza e sodezza, così di pensieri, come di stile, considerati anche in sè stessi. Sono, per esempio, moltissime le parti che potrebbero essere capaci di utile restringimento, e queste per non raffreddare di troppo il calore della storia principale. Tale, per esempio, la lunga conversazione, di cui è testimonio fra Cristoforo, quando trova a tavola don Rodrigo. Ma non è forse quella conversazione medesima una pittura vera e fedele delle follie che passavano per la mente dei grandi d'allora? Dissero alcuni altri, che la storia di Lucia e di Renzo, cioè del matrimonio di due villici, è cosa troppo piccola per farne il soggetto di un'opera di tre volumi, ond'è che le parti accessorie soffocare dovevano il principale. Ma non è forse vero, che per questo appunto che il matrimonio di due villici è una piccolissima cosa, tanto più ne risulta quindi l'evidenza di questa gran verità, che in quei bruttissimi tempi, mentre i grandi, avendo paura uno dell'altro, si rispettavano a vicenda, tutta la loro prepotenza andava poi a scaricarsi nell'oppressione dei piccoli? Volete sapere dove io non saprei come validamente difendere il grande autore? Egli è sull'orrenda, scandalosa e ributtante comparsa, che malgrado l'industria usata dal religiosissimo autore nell'accennare le cose, fa nullameno in quest'opera quell'indegnissima monaca. Ben vedo e conosco che lo scopo morale del grand'autore, anche in questo caso, fu quello di far vedere a quali orrendi termini riesca una vocazione forzata, e quanto grande peccato era egli quello delle famiglie di un tempo, che monacavano le figlie per viste economiche e mondane affatto. Ma il danno e lo scandalo di quella pittura è troppo potente per concepire la speranza che fra cento lettori possano li novantanove raccogliere il frutto dell'esempio, e non rimaner invece amareggiati dal fiele. E se anche il danno non fosse che per uno solo?»51.
A Torino, Federico Govean così salutava la comparsa de' Promessi Sposi: «Mancava all'Italia un buon romanzo», che potesse rivaleggiare con quelli del Lesage, del Cervantes e dello Scott. «Sorse quella benedett'anima del Manzoni, onore e lume d'Italia, e non contento di avere tentato una forse dannosa rivoluzione nella drammatica, e di aver migliorata la lirica moderna, volle far dono all'Italia di un romanzo, ma di un vero romanzo; opera degna di non altro ingegno se non di quello che dettò la Pasqua e il Cinque Maggio». L'avv. Modesto Paroletti notava: «Un cospicuo letterato piemontese, che già ebbe tentato il romanzo allegorico, aveva quindi intrapreso di battere le orme di Walter Scott, pubblicando due storiette, scintillanti di erudizione… Nelle altre contrade d'Italia parecchi autori stavano in procinto di calar anch'essi nell'arena romanzesca per farvi pompa dei loro lavori, fra cui giova distinguere il Castello di Trezzo e la Battaglia di Benevento; e quelli in cui, fra i subalpini, un dottor tortonese faceva pur mostra di bell'ingegno, la Sibilla Odaleta cioè, seguita dalla Fidanzata Ligure. Ma la fama loro doveva ecclissarsi dal romanzo de' Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: perchè, alla chiarezza d'un tanto nome, ottenendo quest'opera la maggiorità de' suffragi, allettando i più schivi, piacendo ai dotti e facendosi leggere da ogni persona, fu acclamata qual libro popolare in Italia». Ne loda lo stile, la scelta e la condotta dell'argomento. «Fra tutte le difficoltà non era la minore quella dello stile in cui si avesse a dettare. Dovendo purgarlo da ogni sentore d'imitazione straniera, perchè ai dì nostri ogni cosa si desidera nelle prette forme italiane, e dovendo nullameno renderlo grato pei modi del dire, ognuno può giudicare quanto malagevole fosse tal cosa; mentre, se importava di dare il bando ai modi francesi, per contro, era necessario lo schivare quell'andamento stucchevole che presenta all'orecchio dei più lo stile cruscante. E questa può affermarsi essere stata vittoria grande riportata dal Manzoni, perchè lo stile del suo romanzo è schietto italiano, senza macchia d'affettazione; è classico senza arcaismi; ed è purgato, non senza una qualche tinta di popolarità, che molto aggiunge alla verità de' ragguagli. Stile insomma da poter servire di modello a chiunque voglia scrivere romanzi italiani». Dopo averne con ammirazione schietta e sentita rilevato le grandi bellezze, tocca de' difetti. «È danno che questo libro, il quale da romanzesco può pigliar nome di storico, nelle parti più importanti diventi prolisso di soverchio e alquanto noioso. A lato delle inimitabili descrizioni rapide, vive e ben accennate, come quelle del lago di Lecco, della notte in cui battevano i bravi condotti dal Griso per rapire gli sposi, ed imprendevano questi a sorprendere il parroco, e poi del muoversi del P. Cristoforo da Pescarenico, e dello scappare Renzo di là dall'Adda, riprova il lettore un fastidio grande per le cotanto prolungate e sminuzzate due descrizioni della carestia e della pestilenza»52.
Il prof. Giuseppe Chiappa, dell'Università di Pavia53, dice che «i così detti romanzi istorici sono una sì fatta contraffazione dell'istoria che non possono venir lodati di giusta e sincera lode. Quel mescere il reale all'immaginario, quel confondere il vero al falso, e il naturale al fittizio, non può dare che una mostruosa opera e quasi ibrida e bastarda». Soggiunge però: «ma ove la finzione sia ben innestata sul fatto istorico, e che quella non sia che un colore, o mezzo, per isvolgere e mostrare lo stato reale delle cose, serbando in ogni luogo le leggi della convenienza e del verisimile, ne potrà risultare un utilissimo lavoro. E tale è il celebre romanzo del Manzoni». Ne tesse le lodi, ne segnala le bellezze; poi conclude: «Nessun altro romanzo venuto dopo, ha potuto appena toccare a un terzo della gloria durevole del romanzo di Alessandro Manzoni. Lo stile poi si è, quanto si richiede, convenevole al soggetto. Egli è vivo, animato, franco e pieno di forza. Solo si fa desiderare più purgata la lingua. Ma oltrechè finge l'A. averlo ridotto da una cronaca di que' tempi corrotti, egli non ha poi volto lo ingegno che alla chiarezza e all'evidenza, schifando ogni artificiosità e leziosaggine. Ed in ciò è ottimamente riescito, conciossiachè nulla siavi che in quanto a intelligenza abbia mai dato luogo a lagnanza. Ed in ciò egli ha conseguito il principale scopo di ogni scrittura, quello di rendersi intelligibile e chiarissimo a tutti»54.
Due de' nostri esuli, Giovita Scalvini e Pietro Giannone, presero a esaminare il romanzo del Manzoni. Giuseppe Pecchio scriveva da Brighton il 10 gennaio del '30 a Antonio Panizzi: «La Rivista italiana si stampa. [Pellegrino] Rossi ha scritto l'Introduzione, Scalvini un bellissimo articolo sui Promessi Sposi, [Giovanni] Arrivabene uno su gli Istituti de' poveri de' Paesi Bassi. Si spera di avere dei collaboratori tedeschi di primo grido. Si avranno traduzioni dallo svedese. Quindi mi si scrive che passò stagione di osservazioni, e giunta è quella di dar spalla all'impresa. È vero, e bisognerebbe sostenerla con decoro almeno per un anno»55. La Rivista ebbe vita, ma per due mesi soltanto, e vi fece la sua comparsa l'articolo dello Scalvini56; addirittura «bellissimo», anzi quanto di meglio venne allora pensato e scritto intorno a' Promessi Sposi. E fu giustizia il toglierlo dalla dimenticanza colpevole in cui giaceva, il ristamparlo e il divulgarlo57 a onore della critica e del nome italiano.
Il Giannone nel giornale L'Esule, che incominciò a stamparsi a Parigi nel settembre del '32 con a lato la traduzione in francese; e lo dirigevano Giuseppe Cannonieri, Angelo Frignani e Federigo Pescantini; non si limitò a parlare del romanzo, trattò anche del Carmagnola e dell'Adelchi, de' Carmi e degl'Inni sacri58. Del romanzo ne dette un largo sunto, poi pigliò a farne l'esame. «Un lettore difficile» (son sue parole) «esigerebbe forse un piano più magnifico, e condizione e caratteri meno comuni ne' due, che dan pure il titolo all'opera. Le avventure de' promessi sposi son esse le principali, a cui s'aggiungono come episodi il cappuccino Cristoforo, la monaca, il moto de' Milanesi, l'innominato, il cardinale, la fame, il passaggio d'un esercito, la peste e in generale la condizion di que' tempi, o viceversa? Renzo che è? Un filatore di seta, onestissimo giovine per altro, e, come dice egli stesso, un buon figliuolo, ma nè distinto per altezza di sensi, nè per vigor di carattere, nè per altro che dia lustro e importanza. Interessa, non per sè, ma per la persecuzione di Don Rodrigo. Ne' moti di Milano soltanto acquista qualche valor che gli è proprio, e nella costanza del suo amor per Lucia. Questa poi è anche minore di lui, e se non si trovasse nel castello dell'innominato, ov'è bella veramente e per dolore ineffabile e per isventura, la sua rassegnazione abituale ci parrebbe mancanza d'ogni umana affezione. Il medio evo offriva avvenimenti più splendidi e caratteri d'un'energia che spaventa, per così dire. Che importa che nell'avvilimento in cui sono gl'Italiani, sappiano che altre volte sono stati così, per trovare un esempio e una scusa forse alla loro ignavia presente? Nel vedersi presentare un quadro d'oppressione attiva da una parte e di passiva stupidezza dall'altra, si consoleranno forse perchè que' tristi tempi passarono, e soffriranno quindi pazientemente i mali che rimangono loro, perchè in cumulo minore? Ma che han mai guadagnato? I pessimi de' mali che gravan sempre sovr'essi, terribili, insistenti, mortali: la divisione e 'l dominio straniero. Ecco ciò che un lettore severo, un lettore che riferisca ogn'opera alla gloria e all'utilità della patria, le uniche non usurarie e generose davvero, potrebbe osservare riguardo alla scelta del soggetto; ma questa scelta non era nell'arbitrio dell'A. per la difficoltà de' tempi e de' luoghi, e gli è costato, ne portiam ferma opinione, mille volte più sforzo d'ingegno, il cercarlo e il combinarlo così, che se avesse fatto altrimenti. Discutiamo dunque sul piano com'è, senza cercare più oltre. Il sig. Manzoni volendo, e noi ne siamo convinti non solo, ma certi, anzi tratto ci proverebbe, non che così dovess'essere, ma che poteva essere solamente così.
«Questo fatto, sì breve, semplice e chiaro, ha però tali episodi e schiarimenti così allungati, che distraggon l'attenzione da esso. Quanto a questi ultimi, l'insistere che si fa, e nel bel principio dell'opera, su la inutilità de' decreti contro i bravi, basterà, crediamo, a provare, che le digressioni non son sempre nè felici, nè brevi. Quanto a' primi, quello della monaca di Monza fa accorgere che dovria finire molto più presto. Gli altri, la fame cioè, e il guasto prodotto dal passaggio degl'imperiali, e la descrizione della peste, nel tempo stesso che mostran la forza d'ingegno e di pennello di chi ha saputo dipingerli con sì terribile evidenza, potrebbero spingere su le labbra a più d'uno la breve, ma calzante sentenza: non erat hic locus. Le pagine che riguardano il cardinal Federigo sono protratte in modo da farci credere che l'autore temesse che quel prelato non fosse conosciuto abbastanza, e ne faccia perciò il panegirico; e quelle poi ove si parla del carattere e degli studi di don Ferrante, sembrano, e quasi per confessione dello stesso scrittore, veramente perdute. Ma vi sono due altri episodi, due, l'uno per la brevità, l'altro pel legame immediato alla narrazion principale, entrambi per verità di colori e per interesse fortissimo, la cui bellezza è rara veramente e mirabile; gli eventi del P. Cristoforo quand'era al secolo, e l'apparizione sulla scena dell'innominato. Peccato che il primo, a cui ci eravamo tanto affezionati, scompaia quasi al cominciare, e non ritorni che al finir dell'azione; e l'altro, il di cui carattere è gigantesco senz'essere esagerato, non produca qualche cosa di veramente straordinario e solenne come l'indole sua! Nella storia ciò accade sovente; ma nel romanzo, e sia pure storico quanto vuolsi, lo scrittore non ha il privilegio d'intendere con ogni sforzo all'effetto dell'arte?
«Da questo rapido cenno delle cose che ci sembrano mende nell'esecuzione del piano tale qual'è, può indursi che lo stile sia generalmente diffuso; e difatti a noi pare così. In quanto a lingua, l'A. ha, più spesso che non si vorrebbe, fatt'uso di parole, d'idiotismi e di maniere proprie del luogo ove l'avvenimento si compie. Omero formava la sua lingua maravigliosa da' differenti dialetti di Grecia, Dante da quelli d'Italia, ma questi due esseri straordinari erano i primi. Gli altri grandi venuti dopo di loro, non l'hanno più fatto, e la ragione n'è chiara; non ne avevan bisogno, nè credevano o bello o necessario tentare ciò che i tempi non concedevano più. Potrebbe aggiungersi anche, e senza tema d'errare, che la continua tendenza ad essere facile, e stretto il più che si può alla natura delle cose, abbia fatto trapassare d'un salto l'A. su certi modi, che appartengono alla lingua parlata sì, ma non sempre alla grammaticale.
«Rispetto allo scopo morale di questo lavoro, a noi sembra che sia e la purità del costume e la sommissione ai decreti della Provvidenza suprema; due grandi insegnamenti ambedue, il primo d'una utilità generale e che balza agli occhi d'ognuno, perchè limpido come la luce del sole; il secondo d'un immenso conforto nelle sventure, allorchè sono consumate e irreparabili, ma che può avere un'influenza rovinosa e veramente fatale nell'atto in che le sventure ti sovrastano o percuotono, essendo allora, com'è difatti, soggetto a tante interpretazioni ed applicazioni quanti sono i caratteri degli uomini, i loro interessi, le passioni, le circostanze di famiglia, di patria, di religione, etc. etc. Perchè, quale sulla terra può dirti sicuramente: – Questa sventura ti viene dal cielo, e convien rassegnarviti; questa no, e puoi e devi lottare contro di essa? – È forse che la lunga tolleranza de' popoli, riguardo agli atti crudelissimi e nefandi della prepotenza feudale e dell'inquisizione, deriva tanto da questo elemento astutamente impiegato, quanto dal timore che si ha d'una potenza stabilita, sia pure qualunque, e dalla naturale tendenza degl'individui alla calma, ove il moto offra un evidente pericolo. Gli ambiziosi vestano poi il manto dell'umiltà o quel degli onori, l'hanno, e spesso pur troppo! usato a lor fini privati: in altre parole, l'altare ed il trono, o meglio ancora, il potere spirituale ed il temporale, i quali per quanto altro possa parere a' poco veggenti, si collegano in essenza fra loro, e sono per ogni società costituita quello che l'anima e il corpo sono per l'uomo, hanno fatto di esso ciò che un avaro fa d'una mina d'oro o d'argento. In fine è tal arma che, secondo la man che la tratta, può essere spada e scudo a vicenda, può salvare un popolo dall'infamia del servaggio, e farvelo piegare vilmente. Ma ne' Promessi Sposi quest'elemento è esso presentato nella sua parte buona o cattiva? Noi oseremmo dare un tal giudizio, quando, non per induzione soltanto, ma per esperienza potessimo veramente sapere qual'è l'impressione che lascia nel comun de' lettori. Certo è intanto che nelle circostanze e ne' tempi che corrono, la virtù della rassegnazione non è quella che occorre alla nostra povera patria: la sua sventura può essere combattuta e vinta da una volontà forte e tenace, temprata dalla prudenza. Che se mai, oltre lo scopo che abbiam creduto dovere accennare, si dicesse che v'è quello anche di far conoscere i tempi e promovere il debito abborrimento contro i privilegiati, un giudice severo risponderebbe nel primo caso, che un tale ufficio tocca alla storia; e nel secondo, che è prodezza intempestiva l'aprire ferite in un corpo già da tanto tempo cadavere. La feudalità, questo mostro immanissimo, non somiglia all'idra della favola: le sue teste cadute nè si riprodusser finora, nè si riprodurranno mai più.
«Presentato ed accennato così il linguaggio della censura, ci si permetta ora passare alla seconda parte della critica, non meno utile e più piacevole a un tempo; nè faccia maraviglia il vedere lodato ciò che ci è parso finora dar luogo a qualche rigida osservazione; non v'ha cosa, che non possa offrire due aspetti. E primamente nella scelta di due protagonisti volgari, il sig. Manzoni ha mostrato avere un concetto, più sensato non solo, ma più generoso ed umano della generalità de' romanzieri presenti. Perchè mostrare di credere che qualche classe della società solamente meriti la menzione e gli onori dell'eloquenza, ed il resto, che pure è base di tutto e fa vivere queste classi medesime, debba essere condannato all'oblio? Strana contradizione questa con lo spirito del secolo e col vantare che fanno i più celebrati scrittori la dignità dell'umana natura, la quale col fatto paiono restringere poi a sola qualche frazione di uomini! Ne' Promessi Sposi le debolezze, gli errori, i vizi e i delitti de' potenti si presentano tai quai sono, e non con quell'aria d'amabile storditaggine, d'interesse e di grandezza quasi, di cui li adornano e li accarezzan sì spesso gli altri scrittori di simil genere; i quali, magnificando i tempi feudali, non sembrano neppur dubitare che posson mettere così in forse il loro titolo di promotori, sostenitori o fautori almeno de' dritti imperscrutibili che la natura ci accorda. Ma tranne il romanziere Britannico, che l'ha fatto con cognizione di causa, e con animo, per quanto esser mai possa, deliberato, gli altri, illusi non sappiamo da quale malia, hanno seguito la corrente, senza pensare ad altro scopo che alla novità; ma speriamo che siano per avvedersene in tempo. Il nostr'A. non è caduto in tal fallo; e per certo, leggendo quest'opera, nessuno risentirà mai la più picciola brama d'essere distinto da' suoi fratelli per qualche privilegio mostruoso, ereditato od usurpato sovr'essi.
«Intanto la ricchezza, la varietà, l'evidenza delle descrizioni, sono pregi che distinguono quest'opera dal principio alla fine. Gli episodi, quelli stessi che sono meno giustificabili, offrono tale abbondanza di cose, di pensieri, d'interesse, e tanta conoscenza del cuore umano, che appunto per questo distraggono dall'azion principale. Commove e desta un'ansia crescente il vedere con quali malizie fittissime la religiosa di Monza sia tratta a compiere l'intiero sacrifizio di sè, e non si può a meno, nel condannar le sue colpe, di sentirne un'affannosa pietà. L'ammutinamento de' Milanesi è descritto sì vivamente, le particolarità ne sono sì vere, che vedi agitartisi tutta quella calca su gli occhi, ne distingui i volti, ne ascolti la voce. L'ebbrietà perfino del povero Renzo non ti percuote meno dell'astuzia per la quale il bargello riesce a carpirgli il nome di bocca. Ma ciò che supera ogni lode è Lucia nel castello dell'Innominato. L'immagine d'un essere debole ed innocuo di fronte ad un altro sì formidabile e spietato, e la vittoria del primo, racchiudono in sè un profondissimo senso di morale, che fa palpitare d'un impeto di speranza e d'ardire, ed eleva ogni anima ben nata. I pensieri di quell'uomo feroce, que' pensieri che lo traggono a disperare, e l'altro che gli arresta la mano; tutta quella notte infine offrono un tal che di sì terribilmente vero, misterioso e solenne, che a noi sembra poco il dire che negli altri lavori di simil genere non v'ha brano che possa paragonarsi a questo. Nè si creda che dopo un tal quadro la fantasia e il cuor del poeta mostrino esaurimento o stanchezza. La descrizione della fame, e più ancora quella della peste, fanno veracemente rabbrividire. In quest'ultima il sogno di don Rodrigo nella notte stessa che n'è colpito, basterebbe esso solo a far conoscere quanto l'A. senta avanti nell'arte somma che segue sì dappresso la natura senza scoprirsi; e la madre che reca la sua bambinella morta a' monatti, è tal misto di desolazioni, di pietà, di amore, di dolor rassegnato, che, breve e toccato di volo, com'è, ti si scolpisce indelebilmente in pensiero. Questi due brani stanno, a parer nostro, con vantaggio in faccia a tutto lo splendore, l'abbondanza e la verità di quella vivace e straordinaria pittura. I caratteri sono disegnati a tratti sì giusti ed arditi e sostenuti con sì gran maestria, che non si smentono mai; e quello di don Abbondio in particolare è nel suo genere d'una verità che dispera. Quel colore locale che non t'induce mai in errore, quell'esattezza di fatti che non si trova mai
Dans les romans où l'on apprend l'histoire,
come ha cantato scherzando un savio francese59, sono qualità che, unite ad uno stile pieno di vita, e vario sempre secondo gli accidenti, e ad una lingua facile, ricca, armoniosa, assicurerebbero la fama di questo libro, quand'anche non vantasse altri meriti, e, come speriamo aver dimostrato, di gran lunga maggiori.
«Quantunque questo genere, per quanto ci pare, non debba porre gran radici in Italia, perchè nell'ampissimo campo delle lettere, offre gli stessi caratteri degl'Ibridi fra le piante, pure trattato da chi, oltre la forza d'ingegno, si figga un alto, un utile proposito in mente, può produrre nobilissimi effetti».
48
Nuovo Giornale de' letterati, di Pisa, tom. XV. Letteratura, scienze morali e arti liberali [1827], pp. 215-232 e tom. XVI. Letteratura, ecc. [1828], pp. 64-93.
49
P. Felice da Mezzana cappuccino, Cenni sul P. Cristoforo del Manzoni, Crema, tip. S. Pantaleone di L. Meleri, 1899; p. 6.
50
Sui Promessi Sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, ragionamento critico di Don Anonimo, autore di varj opuscoli pubblicati colle iniziali P.º G.º S-P.º, Milano, coi torchi di Omobono Manini, dicembre 1827; in-16º. di pp. 64.
51
Giornale dell'italiana letteratura, compilato da una società di letterati italiani sotto la direzione ed a spese di Nicolò da Rio, tom. LXV della serie intiera, serie IV, tom, I [Padova, tip. del Seminario, 1828], pp. 265-268.
52
Rivista, letteraria dei libri che si stamparono in Torino negli anni 1827 e 1828, Torino, per gli eredi Botta, 1829; pp. 119-120 e 138-146.
53
Chiappa G., Sui Romanzi in generale ed in particolare sul Gerolimì ossia Nano di una Principessa dell'autore della Sibilla Odaleta; in La Minerva Ticinese, giornale di scienze, lettere, arti, teatri e notizie patrie, fascicolo 37, 16 settembre 1829; pp. 635-637.
54
Anche Trussardo Caleppio volle scoccare i suoi fulmini contro il nuovo romanzo, censurandolo acerbamente nell'Almanacco critico pel 1830 di un militare in ritiro, Milano, Manini, 1829; in-16º. Cfr. Robecchi, L. Questione classico romantica, saggio d'una bibliografia; in Poesie di Carlo Porta rivedute sugli originali e annotate da un milanese, Milano, tip. Ditta Wilmant di G. Bonulli e C., 1887; p. 707.
55
Lettere ad Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici italiani (1823-1870) pubblicate da L. Fagan, Firenze, Barbèra, 1880; p. 80.
56
Dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Articolo primo, Lugano, coi tipi di Gius. Ruggia e comp., 1831; in-8º. di pp. 56. E firmato: A. H. J.
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Fu ristampato a Brescia nel 1883 dallo Stabilimento stereo-tipografico di G. Bersi e C.; in-8º. di pp. 46. Nella breve avvertenza è detto: «Il manoscritto sopra del quale fu condotta la presente edizione è una copia precisa, identica all'autografo lasciato dell'esimio autore; non già copia od estratto da quei pochissimi esemplari che vennero alla pubblica luce l'anno 1833» [correggi: 1831] «in un periodico mensile, compilato da molti esuli italiani a Parigi; periodico ch'ebbe vita di più poco che due mesi e dal quale furono ritratte poche copie per regalo ad amici e parenti». Sebbene «compilato da molti esuli italiani a Parigi», però si stampava a Lugano coi torchi di Giuseppe Ruggia. Negli Scritti di Giovita Scalvini ordinati per cura di N. Tommaseo, con suo proemio e altre illustrazioni, Firenze, Felice Le Monnier, 1860; in-16.º di pp. xvi-400, non fu riprodotto l'articolo «bellissimo» sul Romanzo del Manzoni, benchè promesso dall'editore stesso nella prefazione: «De' lavori suoi critici recherò quasi per intero le considerazioni sull'Ortis del Foscolo, e quelle sui Promessi Sposi, degne dell'opera». Questo articolo, col titolo: Considerazioni critiche scritte nel 1829 da Giovita Scalvini, venne premesso all'edizione de' Promessi Sposi fatta a Firenze nel 1884 da' Successori Le Monnier, ecc.
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Giannone P., Delle opere di Alessandro Manzoni; in L'Esule, giornale di letteratura italiana antica e moderna—Tomo primo. – Parigi, dai torchi di Pihan Delaforest (Morinval), rue des Bons-enfants, 34, M. DCCC.XXXIII; pp. 262-302. La traduzione in francese, che l'accompagna, è del sig. Lemonier, autore dei Souvenirs d'Italie.
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M. de Gourbillon.