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I.

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Sono caduto il giorno tre di questo mese nel pomeriggio. La giornata era fosca. Grosse nuvole oscillavano nel cielo sotto la pressione di un vento troppo alto per essere sentito. L'aria, ancora più calda che umida, bagnava tutte le piante come di un sudore malato.

Nella caduta non ero solo, ma fortunatamente fui solo ad azzoppirmi.

Ed ecco come avvenne.

Non so bene se raccontando questo ubbidisca alla ridicola ed inesorabile vanità, che ci spinge a farci centro del mondo e a trovare nella compassione o magari nel disprezzo della gente un sollievo ai nostri dolori. Soffrire non è nulla, e sarebbe forse invidiato, se tutti dovessero accorgersi delle nostre sofferenze e stimarci più di prima, e sopratutto più di sè stessi. La nostra personalità afflitta nel corpo cerca compensi nell'anima e, poichè questa vale più di quello, tira a credere e a far credere che gli spasimi fisici abbiano, per chi patisce e per chi vede patire, valore morale.

Invece non hanno significato che per la patologia.

Avvenne così.

La sera al caffè piccolo e fumoso, pieno di braccianti, dove vengo a passare la prima parte della notte quando villeggio a Casola, alcuni gruppi di giovinotti, vantando mandati di Società Operaie, erano venuti a scongiurarmi di rappresentare Casola ai funerali di Don Giovanni Verità. Il Municipio, dominato da tutte le bigotterie e le imbecillità proprie dei contadi, non osava andare a Modigliana. L'arciprete, il priore, i grossi elettori montanari sempre padroni, avrebbero urlato d'indignazione se Casola fosse stata ufficialmente rappresentata alle esequie di un prete, che aveva avuto il torto di salvare la vita a Garibaldi. Giù nella folla, invece, alcuni vecchi garibaldini e molti giovani socialisti strepitavano incolleriti da una inerzia che avrebbe reso Casola ridicola presso tutti i comuni della provincia. Infatti i paesi di val di Senio, val di Lamone e val di Santerno avevano aderito o si preparavano a mandare rappresentanti e bande musicali ai funerali dell'ultimo prete rivoluzionario. Nel caffè il puzzo del carbone, il fumo delle pipe, il sito degli abiti, il fiato del vino bevuto, la veemenza delle parole e dei gesti mozzavano il respiro. La marea dello sdegno saliva.

Tutti i piccoli e fanatici odii municipali soffiavano in questa questione, della quale nessuno capiva la vera importanza. In fondo a tutti gli elogi prodigati al vecchio prete si sentiva ancora una diffidenza, quasi un disprezzo che non osava analizzare sè stesso, ma che vibrava ad ogni ironia lanciata alla sua memoria da qualche scettico o avvinazzato. Don Giovanni era morto affermandosi prete, ma ricusando di smentire la propria vita politica per ricevere i sacramenti. I giornali della sera erano tutti pieni di commenti alla sua dichiarazione.

Io stavo leggendola. Non era gran cosa e non palesava nè un gran carattere nè una grande mente. Analizzandola attentamente molti sospetti ne venivano alla riflessione. Al capezzale di quel povero e semplice prete una fiera battaglia doveva essere scoppiata fra coloro, che mandati dal vescovado avrebbero voluto dal cappellano garibaldino una abiura di tutta la sua vita, e gli altri, rappresentanti officiali o officiosi del partito radicale, che dopo essersi serviti di Don Giovanni come di una catapulta per battere i molti bastioni del clericalismo paesano, avrebbero forse preteso da lui una dichiarazione d'incredulità.

Avevo finito di leggere i giornali e ascoltavo distrattamente i discorsi. In essi nè commozione nè sentimento vero. Molti vantavano il coraggio e l'abnegazione di Don Giovanni, nessuno lo stimava buon prete.

—Se ti fossi trovato in punto di morte, chiesi al custode del camposanto, tremulo per le sbornie di gioventù smesse un po' troppo tardi e ora vecchio bonario agitato tratto tratto da impeti liberaleschi: avresti chiamato Don Giovanni?

Egli si fermò di soprassalto. La gente non ci aveva udito, ma la mia domanda lo aveva percosso nel petto come una piattonata di sciabola.

Agitò la testina calva e rossa, troppo rossa ai pomelli, gittando intorno un'occhiata diffidente.

—Filomena! gridai alla caffettiera: porta un bicchiere di acquavite a

Venanzio.

Questa cortesia lo decise. Abbassò il volto, si strinse nelle spalle e coll'aria di chi confessa un secreto, che tutti sanno ed approvano ma niuno osa rivelare:

—Uhm! Io ho già deciso da un pezzo di chiamare il canonico.

E alludeva all'arciprete diventato canonico in Imola, già annunziato per vescovo, prete signorile e fanatico precisamente all'opposto di Don Giovanni.

Io sorrisi rivolgendomi per rispondere a un gruppo di giovani, che mi avevano già circondato.

Volevano andare a Modigliana collo stendardo della società operaia, poichè il Municipio rifiutava la propria bandiera, ma sempre per l'onore del paese avrebbero preteso un oratore. Io, convinto di molti libri stampati e di parecchie orazioni politiche, solo letterato del villaggio, dovevo prestarmi al loro bisogno. Ricusai. Non avevo e non dissi buone ragioni a ciò: ringraziavo dei complimenti. Essi insistevano esagerandoli; a Modigliana sarebbero convenuti d'ogni parte d'Italia rappresentanti, e quella era bene una circostanza propizia per me e per Casola. Un certo orgoglio paesano vibrava nelle loro frasi; la bontà delle loro intenzioni rendeva simpatica una insistenza già cortese di per sè stessa, e nulla meno una secreta inesplicabile ripugnanza m'impediva di acconsentire. Un non so quale terrore, un presentimento di sventura m'involgeva la coscienza.

Lo compresi più tardi.

Dovetti accondiscendere. Allora avrebbero voluto che prendessi meco in biroccino lo stendardo della società operaia per non portarlo essi sulle spalle faticando pei monti. Feci loro riflettere che la bandiera lunga come una partigiana, dal fodero vivace, sul mio biroccino rosso e piccolo tirato da una rozza veemente e semistorpia, avrebbe reso ridicolo in me il rappresentante, al quale tenevano tanto; mentre a una svolta di strada la punta della lancia avrebbe potuto cavare un occhio a qualche cittadino. Sorrisero e ne convennero.

Io sarei partito l'indomani, essi nella notte in drappello a traverso i monti.

E i discorsi proseguirono. Un vecchio garibaldino d'umore faceto e poetico, che aveva conosciuto Don Giovanni in una campagna con Garibaldi, si pose a raccontare degli aneddoti. In uno di essi, il più piccante, generale e cappellano avevano amato in comune una monaca della carità, gran signora francese, che avrebbe così trovato modo di sfogare con loro il proprio entusiasmo eroico e il proprio sentimento religioso. Il garibaldino leggermente avvinazzato narrava, inventando, i particolari più scabrosi dell'avventura; il pubblico credeva e commentava, dimenticando il riserbo di poco prima e giudicando finalmente Don Giovanni per uomo di coraggio, fortunato nell'essersi fatto un nome col salvare Garibaldi, ma di nessun ingegno e pessimo prete.

Non uno solo nel caffè che lo ammirasse e lo amasse.

Un altro lo paragonò a un prete del paese morto non era guari di apoplessia e vissuto sempre ubbriaco. Il paragone parve esatto. Nullameno qualcuno dei giovani socialisti protestò più per dovere che per sentimento; secondo lui Don Giovanni non era stato un vero prete, ne conveniva, ma tutti gli altri preti non erano veri uomini.

E la discussione deviò.

Sulle dieci tornai a casa. Un amico insisteva ancora per accompagnarmi a Modigliana; avevo acconsentito.

Quando fui solo seguitai a pensare a Don Giovanni. Avevo inteso il suo nome fin da ragazzo nei racconti di famiglia, lo avevo poi letto sovente nei giornali, udito sulle bocche del popolo ad ogni circostanza della epopea garibaldina, ma non avevo visto Don Giovanni che una sola volta.

Ed era stato a Faenza in un Comizio per la morte del Generale.

Il Comizio si teneva nel teatro Comunale. La sua sala piccola ma elegante malgrado alcuni capitali difetti di architettura, male illuminata da poche finestre aperte nei fianchi del palcoscenico, aveva in quel pomeriggio un'aria malinconica e quasi solenne. Una folla bruna e fremente, a volta a volta chiassosa, lo riempiva, lo stipava oscillando, vibrando, sollevandosi, abbassandosi in movimenti ritmici che la facevano assomigliare ad un'inondazione. Tutti i palchi ceduti buono o malgrado dai proprietari erano zeppi di uomini e di ragazzi, che si ammucchiavano sui parapetti, s'ammonticchiavano dietro sui sedili, avvolti nell'ombra cupa della tappezzeria mostrando talvolta la faccia biancastra per un raggio che cadeva di sbieco. Una ondulazione li faceva ogni tanto curvare la testa verso la platea per rialzarla poco dopo verso il loggione con atto curioso ed insieme pauroso. Gli abiti a festa erano generalmente scuri, i cappelli a cencio. Le fisonomie in tale luce non si coglievano, ma si sentiva come una fisonomia generale, un fondo di lineamenti, che rimaneva fermo in quella mezza tenebria e faceva che tutti si rassomigliassero: e, doloroso a confessarsi, l'aspetto del popolo non era bello. Tutte quelle faccie chine, strette, che sembravano toccarsi nella luce scialba filtrante dagli invisibili finestroni laterali del palcoscenico, avevano perduto il rilievo della propria individualità per non parere più che un allineamento di chiazze, nelle quali un giallore di carta pecora sembrava mettere un'ultima verità di malattia. I visi così spiattellati non conservavano che gli occhi, i capelli e le barbe: qualche sorriso o qualche urlo in un angolo aprendo una bocca lasciava brillare fugacemente una bianchezza di denti entro una oscurità più piccola e più densa; molte cravatte rosse mettevano sulle vesti certe righe di sangue che il balenìo bianco delle fibbie di acciaio sui cappelli, simile a un balenìo d'armi, avrebbe potuto a una fantasia troppo eccitabile spiegare sinistramente. La folla strepitava scherzando con tale veemenza che sembrava di minaccia. E non vi erano o non si vedevano signori. L'impressione era di una immensa plebe, sciaguratamente vestita a festa e quindi anche più brutta, che aveva tutto inondato con un senso feroce di conquista. La gente cacciatasi nei palchi non vi si poteva calmare, inebbriata di quella specie di sfregio fatto intenzionalmente ai padroni assenti, troppo timidi per difendere i propri palchi, mentre il Municipio, vile al solito in faccia alla folla, aveva persino ceduto i palchi non suoi.

Le vanterie dell'assalto rimbalzavano da palco a palco ora che tutti erano rivoluzionalmente occupati. Molte mani gesticolavano per aria in segno di trionfo o agitavano cappelli: parole oscene scoppiavano, affermazioni superbe di monelli che gremiti nel palco della Prefettura e della Giunta municipale vi assumevano con grazia scimmiesca atteggiamenti gravi di magistrati, ma per lanciare subito altre urla di gazzarra, ricomponendosi a un rimbrotto inaspettato, accendendo tutti i razzi di un riso inconscio e strepitoso, pel quale l'aspettazione di quanto deve succedere vale più di quanto succederà. Poi le figure accigliate e le pose impettite dei ribelli importanti sempre in agguato per cogliere una circostanza nella quale mostrarsi e che disseminati nei palchi col piccolo cappello floscio sull'occhio sogguardavano con occhiate brevi di padroni, assorti in un raccoglimento di oratori che si dispongano ad improvvisare, o vigili in una curiosità d'impresarii che temano per il proprio spettacolo. Fra di essi brillavano a forza di medaglie le vanità legittime, ma appunto per questo meno simpatiche, dei veterani garibaldini col cappello sormontato da penne, affettanti nell'orgasmo di tutti una boria che la grandezza dei fatti compiuti poteva certamente giustificare, ma che la semplicità eroica del loro modo non consentiva; e questi fra la nuova folla dei giovani rivoluzionari, ai quali Garibaldi non piace più, sembravano dispersi, talvolta incoraggiati da sorrisi, tal'altra rattenuti dal sarcasmo di una occhiata o di una parola.

A mano a mano che il teatro si stipava, cresceva il rumore. Il primo ordine dei palchi, quantunque gli usci ne fossero aperti, era stato invaso dai parapetti; la gente arrampicatasi sul basamento vi si era lanciata strepitando, cadendo a grappoli sui sedili, brancicando le tendine, strappando e ridendo. Pareva una festa. Agli altri ordini, i primi arrivati s'erano chiusi nei palchi e ricusavano d'aprire agli ultimi. Pochi o nessuno fra i proprietari invece aveva però osato far questo o, facendolo, aveva ceduto il posto d'onore a qualcuno della plebe come a un parafulmine che dovesse difenderlo in caso d'uragano nella platea o nel loggione. Quindi rintronavano pugni negli usci, urla di minaccia e di scherno. I conquistatori già calmi nel diritto fondamentale della proprietà, l'occupazione, sentendo percuotere sulle porte si voltavano dai parapetti con sorrisi di sprezzo o guardavano per le griglie e, se per caso era un proprietario diventato coraggioso per curiosità, si consultavano sul caso e finivano quasi sempre per aprire. Ma il proprietario doveva restare nel fondo del palchetto. Tra il frastuono della gente che strepitava per strepitare, così ingannando il tempo dell'attesa, si coglieva l'insistenza di certe voci, ed erano di compagni che dispersi nell'impeto dell'ingresso in teatro tentavano invano di riunirsi, giacchè abbandonando il proprio posto si era bensì sicuro di perderlo, ma non già di riguadagnarne un altro.

Molti invece si drizzavano gettando un grido, tentando un gesto nello spasimo di attirare l'attenzione della folla, e vinti dalla penombra che spesso non li lasciava più nemmeno riconoscere, dalla agitazione di tutti che non badava ancora ad alcuno, ripiombavano sopra sè stessi con certi atti di scoraggiamento, nei quali osservando da vicino si sarebbe forse notato del rancore.

Al quarto ordine ammirabile per disegno, uno dei più belli dell'architettura italiana, coi vani dei palchi quasi in quadro, i parapetti bassi bassi, i tramezzi nascosti da statue di eccellente stile decorativo, la folla si era stipata a piramidi, gli uni sulla schiena degli altri, di maniera che i primi appoggiati col petto sul davanzale sembravano dover soffocare, ed invece ciarlavano. Altri sporgevano temerariamente col busto e avevano gesti da nuotatori guardando in basso, o aggrappati agli stipiti accennavano di passare da palco a palco sullo spessore dei cornicioni, o afferrati ad una statua vi facevano un'oscena macchia nera. Un'immensa allegria saliva dalla fitta platea, s'insinuava nei palchi, scorreva per le corsie, gorgogliava, ricadeva straripando dal loggione. La moltitudine disoccupata e sovrana di sè, non avendo nulla a fare e niuno cui obbedire, sentiva istintivamente la comicità della propria situazione; cominciavano già le ironie al comizio eccitate dai significati che la varietà dei palchi attribuiva agli invasori. In quello del Prefetto, un gruppo di ragazzi, più numeroso e compatto del Consiglio Comunale, rappresentava, momentaneamente il Governo: nell'altro della Giunta un'orda di beceri sghignazzava intorno ad un piccolo borghese ingenuamente repubblicano, capitato al comizio come in duomo e che spaventato dal baccano aveva presa la più mortificata delle fisonomie. La platea se ne era accorta, e rideva. Nel palco della deputazione teatrale due lavandaie, le sole donne che si vedessero al comizio, ne rappresentavano apparentemente anche la sola pulizia.

—Sei brutto! tuonò improvvisamente un vocione, e si vide un gesto indicare un ometto calvo, dalla faccia ignobile e cadaverica, che occupava in un palchetto del secondo ordine il posto della più bella signora del paese.

Tutti capirono a volo l'allusione del confronto, ed applaudirono.

Egli comprese, arrossì, avrebbe voluto fuggire, ma i compagni lo rattennero fischiando.

—Viva Garibaldi!

—Viva Mazzini!

—No, viva la comune!

—Viva Garibaldi e la rivoluzione sociale!

—Viva Garibaldi!

E questo nome dominava, riuniva tutti gli evviva. Una frase, nella quale si distinse solo la parola carabina, suonò e si perdette nel frastuono del loggione. Poi si intesero fuori lontano degli squilli di fanfara e un fremito corse in tutte le persone, che si voltarono istintivamente alla porta. Il corteo, che avrebbe dovuto formare il vero comizio, si avvicinava e il teatro era già pieno.

E dalla porta tutti gli sguardi si riportarono sul palcoscenico. Una scena calata in fondo lo lasciava in tutta l'ampiezza del suo vano. A sinistra una luce filtrante da un vicolo per gli aperti finestroni lo illuminava melanconicamente. La tela, che lo chiudeva in fondo, rappresentava una parete di camera aristocratica colla porta tutta ornata di goffi rabeschi: due ritratti degli antenati comuni a tutte le commedie, un cavaliere del secolo passato in cappellaccio piumato e bavarina bianca, e una dama scollacciata, in abito rosso orlato di merletti bianchi, lo fiancheggiavano; e al di sopra della porta un piccolo quadro chiuso in una povera cornice dorata rappresentava Garibaldi. Il Generale era dipinto colla berretta in capo, avvoltolato nell'immenso mantello cilestro. La sua testa rimasta bella attraverso le falsificazioni di tutti i ritratti si distingueva male, e nullameno tutti la riconoscevano e a tutti quella nobile e semplice fisonomia faceva la stessa impressione. Non uno degli schiamazzatori che, voltandosi al palcoscenico ed incontrando quello sguardo immaginario, non smettesse di vociare colto da un senso affettuoso e pauroso di rispetto. Sotto al ritratto del Generale, più innanzi verso la ribalta, una lunga tavola coperta di un vecchio tappeto mezzo lacero, prestato dalla generosità del Municipio, aspettava il Comitato del comizio: una poltrona interrompeva a mezzo la fila delle sedie imbottite promettendo nel Comitato un personaggio, che nessuno ancora conosceva. La poltrona era di un rosso sbiadito e bisunto.

Chi mai l'avrebbe occupata?

Questa domanda, che mi rivolgevo mentalmente, la sentii ripetere più volte intorno a me.

Sulla tavola quattro candelabri d'argento a tre branche cariche di candele steariche, che sgocciolavano sotto il vento delle finestre imitando la fiamma delle torcie, non accrescevano per nulla la luce al palcoscenico. Pochi individui vi passavano ancora, forse incaricati della polizia del comizio, faccendieri vestiti anch'essi a festa e tutti superbi di occupare momentaneamente la scena destinata agli oratori e ai principi del Comitato.

Gli squilli della fanfara si avvicinavano sempre; la moltitudine si era calmata improvvisamente.

Dal mio palchetto di secondo ordine, già abituato alla poca luce della sala, non perdevo una fisonomia della moltitudine. Il grosso e bel lampadario solito ad illuminare il teatro era scomparso dietro il zodiaco della vôlta lasciando libera in giro la vista dei palchi. L'aria era calda, la gente già in sudore si asciugava le fronti.

—Viva Garibaldi!

—Viva l'Eroe! s'intese dal loggione.

In quel momento le fanfare entravano nell'atrio del teatro, e una colonna compatta, irresistibile sfondando la folla accalcata sulla porta della platea, si dilatava dentro la sala in torrente. Il corteo era arrivato. Quasi contemporaneamente dalle quinte a destra del palcoscenico irruppe un'onda di bandiere. La musica era cessata forse per la impossibilità di mantenere le bande allineate nelle corsie, ma le ultime note dell'inno garibaldino vibravano ancora nell'aria. Un immenso fremito corse nel teatro. Tutti quegli stendardi dalle lancie dorate, dai colori vivaci ondeggianti, che sfilavano e s'accalcavano sotto il ritratto del Generale, benchè appartenenti a pacifiche società operaie, parvero parlare a tutti di battaglie; e i sibili della seta, i riverberi delle frangie, l'addossarsi dei gruppi che per la esiguità dello spazio si scomponevano entrando l'uno nell'altro mentre i vessilli oscillavano, le trombe finalmente arrivate lanciavano gli ultimi trilli e la luce intercettata da tutto quel tumulto si velava, sembrarono comunicarlo alla folla. Le bandiere erano così alte e folte che il loro panneggiamento copriva tutto lo sfondo intorno al Generale. Le fantasie s'infiammarono, i cuori batterono. A tutti sembrò che quel ritratto si animasse. Le memorie delle cento battaglie vinte, degli eroismi prodigati, ripalpitarono in fondo a tutte le coscienze, mentre una bontà di commozione dolorosa e superba, riavvicinandole, traeva un urrah irresistibile da tutti i petti.

La figura di Garibaldi saliva fra le bandiere in una luce tragica di crepuscolo.

Tutte le miserie e le ridicolaggini inseparabili da un comizio popolare erano scomparse: egli solo restava, e la dolcezza del suo occhio azzurro che nessuno vedeva e tutti sentivano, la semplicità epica del suo abbigliamento così simile alla sua vita e alla sua morte, sollevarono da tutti i cuori come un immenso peso.

Ma improvvisamente si fece un gran silenzio.

Garibaldi era morto, quelli erano i suoi funerali!

Forse fu illusione, ma mi parve che tutti fossero impalliditi; certo tutti istintivamente si erano levato il cappello.

Nessuna voce, nessun evviva osava rompere la solennità di quel rispetto.

Intanto mutamente, compostamente, il Comitato del comizio si disponeva intorno alla tavola.

Quindi al rilassarsi di quella tensione troppo forte s'intese nel teatro il sommesso rumorio della gente che si accomodava quanto meglio poteva per assistere a una lunga ed interessante rappresentazione. Tutta la platea, poichè ne erano state levate le panche, stava in piedi così densa che nemmeno un grano di miglio cadendovi, secondo il vecchio proverbio, avrebbe toccato l'assito; nei palchi la ressa s'era acquetata subitamente: appena qualche moto provocato dalla positura insostenibile di uno spettatore vi si coglieva e cessava. Volsi un'occhiata in giro. Tutto il teatro rigurgitava. La folla, impossibile a credersi e a descriversi, era raddoppiata: al quarto ordine molti individui si reggevano alle statue. Ercole aveva un cappello nero sulla testa, Nettuno ne teneva un altro sul tridente.

Si aspettava.

A fianco della gran tavola un'altra più piccola era occupata dalla stampa: intorno al Comitato seduti, stretti, incredibilmente stretti, tutti gl'invitati e i rappresentanti delle società romagnole democratiche stipavano il palcoscenico. Molte teste espressive spiccavano, molte medaglie lucevano sui petti. Cercai cogli occhi Giuseppe Cesare Abba, eroica e gentile figura di troviero diventato poi lo storico della spedizione di Marsala, la sua prima campagna di giovinetto: ma non lo vidi. L'anno dopo egli solo parlò del Generale, alla commemorazione della sua morte, in un discorso che fu un canto di allodola interrotto da strida di aquila.

I rettori del comizio sembravano agitati. Alcuni erano calvi, altri canuti, nessuno aveva sembianza di soldato, tranne l'ultimo a sinistra, un fornaio, bella figura di littore romano, tozzo ed energico, che non potendo restar seduto era venuto a postarsi presso l'ultima bandiera e gladiatoriamente atteggiato pareva quasi pronto a brandirla al primo impeto di rivolta. Vicino alla poltrona centrale occupata da un signore ventruto, il sindaco giallo, sottile come una distinzione scolastica, floscio si accasciava sul tavolo cercando fra alcune carte che erano forse telegrammi. Alla sua sinistra la testina viva, oramai bianca ai capelli e tutta rossa al viso di un medico toscano, vecchio democratico dalla frase violenta e dall'accento gentile, si torceva vivacemente parlando con chi le stava dietro.

Degli altri le fisonomie svanivano nella penombra.

E il comizio cominciò colle solite agghiaccianti formalità.

Ma quando uno degli oratori si trasse leggermente in disparte e col braccio spinse innanzi una figura nera, recalcitrante, e con enfasi di voce gridò:

—Ecco Don Giovanni Verità, il salvatore di Garibaldi!

La scossa nel pubblico fu così violenta che produsse come un tuono.

Primo il Comitato si era levato, e dietro lui tutti gli invitati avevano fatto altrettanto. Le bandiere salite più alto del ritratto del Generale squassavano guerrescamente e tutti dalla platea, dai palchi, dal loggione, protesi coi cappelli in mano gesticolando, urlavano con un impeto, uno scroscio irrefrenabile ed onnipotente. La violenza dell'urrah era tale che quasi vi si sarebbe sospettata della collera. Cresceva sempre, saliva di tonalità arrivando allo spasimo dell'impotenza, mentre le voci meno robuste strozzate dallo sforzo rantolavano o guaivano e nei gesti cominciava come un tremito di disperazione. Ma l'urrah aumentava ancora, come un vento che sollevava tutti i cappelli, investiva le bandiere, agitava le fiamme dei candelabri, ruggiva nella penombra dei palchi, s'ingolfava nelle corsie, urtava nella vôlta e, riabbassandosi, strisciava su tutti i palchi, e tutti vi sorgevano per lanciarsi nella sala, di cui la folla sollevata da un conato incomprensibile si premeva contro il parapetto del palcoscenico e stava per soverchiarlo.

In quell'urlo nessuna parola era possibile, nessun gesto intelligibile.

Poi tutte le bandiere, alte dinanzi al ritratto del Generale, quasi sventolanti al vento di quell'ululo oceanico, si abbassarono contemporaneamente come per istinto colle lancie verso la testa del prete, scoprendo il ritratto del morto Generale.

Erano gli stendardi di cento vittorie, che si chinavano a toccare la veste del prete che aveva salvato il vincitore. Non si videro più che la testa del Generale olimpicamente sorridente e la testa del prete curva come le bandiere, quasi nel dolore di averlo invano salvato, poichè alla fine il Generale era morto.

Perchè dunque applaudire? Garibaldi era morto!

Le bandiere sempre più chinate parevano cadere, il volto del prete piegato sul petto si era coperto di un pallore cadaverico.

Era la festa della morte.

Garibaldi era morto, Don Giovanni non tarderebbe molto a morire.

Lo osservai.

Benchè tutti fossero ritti intorno alla tavola, la sua figura spiccava singolarmente. Non era nè molto alto nè molto grosso, ma si sentiva ancora in lui una vigoria senile, che rendeva facilmente credibili tutte le avventure eroiche della sua gioventù. Il suo soprabito nero da prete non differiva quasi più dagli abiti degli altri signori del Comitato, ora che la testa china tristamente sul busto gli nascondeva il collare.

Capelli grigi e duri la coprivano così che la chierica vi si distingueva appena. Una profonda commozione lo sopraffaceva. La bufera dell'applauso passando sopra la sua testa, pareva piegarla senza scuoterla, mentre le bandiere curve al pari di lui sotto lo sguardo del Generale in una tragica stanchezza ubbidivano forse al medesimo irresistibile senso di morte, che l'entusiasmo soldatesco di quella ovazione non vinceva più.

Io lo osservavo.

Le sue mani ossute, brune dal sole di tutta una vita di caccia, e più scure in quella penombra, tremavano sul cappello da prete posato ingenuamente sul tavolo: lo sforzo come di un singhiozzo represso gli sollevava a volta a volta le spalle. Improvvisamente con atto affaticato, disperato di naufrago, sollevò la testa.

Era un bel volto nero di contadino dai lineamenti angolosi, livido in quel momento e nullameno impresso d'una grande aria di bontà. La fronte naturalmente bassa erasi alquanto alzata in un principio di calvizie, che pel colore più bianco della pelle la cingeva come di una benda; l'arco dei sopraccigli vigoroso e sporgente ombrava senza nasconderlo il suo sguardo scintillante di cacciatore. Tutto il volto raso e rugoso tremava di una commozione, che metteva come un sorriso in tutti i suoi lineamenti modellati robustamente sulle ossa. Gli zigomi erano sporgenti, il mento quasi quadro come negli uomini capaci di forti azioni, gli occhi rotondi, il loro colore non si distingueva, acuti e vibranti come quelli di un falco. Ma la sua bocca colle labbra di un rosso cupo di mattone lasciava vedere i denti ancora bianchi a traverso un sorriso timido, che i fremiti di quel trionfo scomponevano ad ogni istante.

Stava piegato, ma era naturalmente un poco curvo.

Le sue spalle larghe e quadre si erano leggermente incurvate col peso degli anni; nullameno ognuno di quel popolo osannante avrebbe potuto ancora salirvi senza piegarle maggiormente. Garibaldi vi era montato per guadare un fiume rigonfio e lo avevano portato asciutto ed incolume all'altra riva. Era stato in una fosca notte di temporale scelta abilmente dall'eroico prete.

Se ne ricordava egli in quel momento, mentre tutta Faenza applaudiva e tutta l'Italia fremente e l'Europa stupita ripetevano il suo nome raccontando l'epico aneddoto di quella notte? Quando nel buio di quella tempesta notturna, al mattino della quale era così facile essere sorpresi e fucilati, giunti in riva al torrente aveva imposto a Garibaldi, l'intrepido marinaio invano recalcitrante, di salirgli sulle spalle colle semplici e superbe parole:

—Generale, voi conoscete il mare, ma io conosco il mio fiume! e si era lanciato nell'ombra entro l'acqua furiante: aveva egli pensato che verrebbe un giorno, nel quale tutto il mondo lo ringrazierebbe, e che la storia scriverebbe il suo nome sulla pagina breve e luminosa degli eroi di questo secolo?

Lo guardavo attentamente: ebbene, giurerei che anche allora egli era semplice ed ingenuo come in quell'istante nel quale rischiando la propria vita si era appena accorto del pericolo. Nessun orgoglio, nessuna spavalderia gli venivano da quel trionfo, nel quale tutti ingrossavano forse la voce per la speranza di farsi notare. La teatralità di quella scena antipatica malgrado la sincerità della commozione generale gli sfuggiva interamente; il suo volto restava tranquillo, le sue mani non facevano un gesto, mentre il suo orecchio sembrava non udire alcuno dei mille complimenti che i più vicini gli susurravano.

Tutti gli invitati del palcoscenico si erano stretti intorno a lui: nessuno osava toccarlo con una mano, ma le spalle e i volti si premevano sul suo. L'umiltà della sua posa umiliava quella gente tanto a lui inferiore e così superba del proprio strepito. Se tutti non volevano essere ringraziati, tutti avrebbero almeno preteso che egli sentisse per un minuto la sincera grandezza di quel trionfo meritato da tutta la sua vita.

Una profonda emozione s'era impadronita del mio animo.

Era dunque vero che tutti gli eroi fossero semplici e tutte le feste volgari? Nessun popolo per quanto buono o ingenuamente commosso, stringendosi colle lagrime della riconoscenza o col singhiozzo dell'entusiasmo intorno ad un eroe, non giungerebbe dunque mai a toccare la sua anima, poichè nella meraviglia universale per la propria azione questi sentirebbe la bassezza della umanità e l'insufficienza di ogni grandezza individuale?

L'umanità è dunque ben piccola se gli eroi sono così grandi!

Ma Don Giovanni alzò finalmente il capo. Il semicerchio delle bandiere si era stretto in quel tumulto intorno ai capi della tavola, cosicchè una arrivava quasi a toccarlo colla lancia dorata. Egli la vide, corse collo sguardo su tutte le altre, che gli si appuntavano quasi al petto, cercando ansiosamente il Generale.

Garibaldi era là, vestito come nelle battaglie, sorridendo come da vivo in faccia alla morte, come un immortale per cui le follie della gratitudine o della sconoscenza non hanno più valore, buono ma altero, ora che il genio della sua vita, compiuta l'opera, era salito nella storia.

—Viva Garibaldi! tuonò la moltitudine, che comprese per istinto quello sguardo di Don Giovanni.

Don Giovanni si volse, aperse la bocca, fece un gesto vivace, urlando forse un viva Garibaldi che non s'intese e ricadde seduto, quasi intendendo così di scomparire nella gloria del generale che aveva salvato, dell'amico che aveva perduto.

Il comizio proseguì.

Molti oratori parlarono commentando la vita di Garibaldi, ma il popolo restava freddo, malgrado la voglia che tutti avevano di commuoversi e di applaudire. I discorsi male concepiti, peggio pronunciati, fors'anco poco intesi passavano nel silenzio del pubblico come un mormorio insignificante. Le bandiere ritte intorno al ritratto del Generale non squassavano più, l'inno dell'epopea garibaldina era cessato da un pezzo. I suonatori borghesemente vestiti non si discernevano nella folla.

Al banco della stampa i giornalisti scrivevano con atteggiamenti e velocità di copisti.

E appena un oratore finiva ne sorgeva un altro: parevano una nidiata di pulcini uscenti dal pollaio per pigolare intorno al cadavere di un'aquila.

Che ne sapevano essi di quest'aquila, che aveva visitato tutte le terre, valicato tutti gli oceani, gridato vittoria sull'albero di cento navi, sulle torri di cento fortezze, sulla cima di cento bastioni, sulle Alpi e sulle Cordigliere, sul Campidoglio e sull'Etna, aspettata e conosciuta da tutti i popoli? Che ne sapevano essi di quest'aquila così tremenda e così mite, così indomabile e così mansueta, che figlia delle aquile romane e napoleoniche aveva lacerato l'aquila bicipite d'Asburgo fra gl'inni di tutti i poeti e gli anatemi di tutti i papi, mentre al suo strido i falchi della plebe rispondevano esultando dai tetti e i gallinacci della borghesia fuggivano chiocciando per i cortili a riparare nelle stalle?

Che ne sapevano essi?

Quale dei molti garibaldini accalcati nel teatro aveva una coscienza chiara ed intera della epopea cui aveva preso parte? Chi aveva capito il significato delle sue battaglie così piccole militarmente e delle sue vittorie moralmente così grandi?

In questo secolo che comincia con Napoleone e si chiude con de Moltke, perchè Garibaldi un soldato quasi di ventura che comandò sempre pochi battaglioni, un ignaro che dalle scuole non apprese nulla e alle scuole non lascia nulla, che veniva non si sa donde e andava dove pochi, oggi egli morto, sanno ancora: che predicava la pace in mezzo alle battaglie, creava una nazione con una piccola orda di armati, fondava una monarchia affermando una repubblica, regalava libertà ai popoli e reami ai re, conquistava una patria agl'italiani e perdeva la propria, rovinava il papato in faccia al mondo e assicurava la repubblica francese contro l'Impero germanico, moriva a Caprera nudo e povero come lo scoglio al quale nudo e povero aveva approdato: perchè Garibaldi che i centurioni degli eserciti stanziali deridevano, che i ministri spregiavano, che i popoli stessi sembravano abbandonare, perchè morendo diventava così incredibilmente grande e soverchiava Napoleone e Moltke, e tutti dall'America adolescente all'Asia decrepita, dall'Europa ancora centro della civiltà all'Africa ancora teatro della preistoria, dall'Australia che essendo una terra non è ancora potuto diventare un paese; perchè tutti dalle steppe della Russia dove un vero dispotismo schiaccia alle officine d'Inghilterra dove una falsa libertà assassina, dalle foreste germaniche ancora dominate da castelli feudali ai monti spagnuoli ancora ammalati di conventi cattolici, dalle isole che il mare fece libere e altere alle immense valli continentali tuttavia ombrate da millenarie monarchie; perchè da tutti i poveri, da tutti gl'infelici, da tutti i poeti, da tutti i prodi, da tutti i lavoratori, da tutti i pensatori, da tutti i giovani che anelano alla vita non conoscendola, da tutti i vecchi pronti ad abbandonarla avendola troppo conosciuta, scoppiava il medesimo sentimento, erompeva il medesimo urlo: Garibaldi non può essere morto, non deve essere morto, non è morto: evviva Garibaldi!

Forse appunto perchè era morto allora allora, nessuno poteva anco riconoscerlo bene.

Pochi sono gli occhi capaci di abbracciare tutto un paesaggio trascorrendolo, meno ancora gl'ingegni così larghi da comprendere tutto un fatto nel quale abbiano vissuto ed agito.

Come ogni vero grand'uomo, Garibaldi è un immenso viluppo di contraddizioni, che la sua anima unificava, ma nel quale gli altri si perdono analizzando.

Gli oratori del comizio non vi si smarrivano nemmeno perchè non vi arrivavano.

Nessuno di loro si chiedeva il significato della nostra risurrezione, il perchè l'Italia e la Grecia dopo diecine di secoli riapparissero nel mondo col nome di nazione, mentre nella storia come nella vita non vi sono e non vi possono essere risorti. Quali idee riapportavano dunque la nuova Italia e la nuova Grecia? Come dalle sue generazioni decrepite, per replicate infusioni di sangue barbaro e di idee civili, era sorta un'altra gente? Quale secreto veniva essa a rivelare? Dov'erano i segni della sua nuova vita, i testimoni della sua legittimità? Nell'attuale civiltà, che mischiando tutti i popoli ha fusi tutti i caratteri, certo è ben più difficile il distinguere le nazionalità spirituali che non nella storia antica ancora senza unità apparente e tutta occupata dall'antagonismo delle razze onde era composta: ma poichè la storia è una tragedia, nella quale ogni popolo è un personaggio che deve avere qualche cosa a dire o a fare, bisogna pure riconoscerli tutti sotto pena di non comprenderne alcuno.

L'Italia moderna deve avere quindi alcuni uomini grandi diversi da quelli che formarono l'Italia antica, perchè nella storia non vi sono duplicati e ogni grande vi è fatalmente originale. Quali erano dunque le figure veramente nuove dell'ultima Italia? Da quali caratteri derivava la loro originalità? La nostra rivoluzione figlia del 89 perchè aveva tardato mezzo secolo a prodursi e che cosa aggiungeva ai principii che l'avevano creata, al disegno storico nel quale entrava? Conchiusa entro la monarchia costituzionale dei Savoia, la più vecchia, la più abile se non sempre la più illustre e generosa delle case dinastiche d'Italia, non aveva certamente avuto origine monarchica, mentre tutti gli eroismi di pensiero e di azione, coi quali aveva trionfato, sembravano aspirare a una forma più alta e più pura di governo: e nullameno una piccola monarchia montanara, della quale le ultime tradizioni erano meno che gloriose, l'aveva costretta nel proprio àmbito, coordinando il suo impeto e profittando delle sue vittorie, logorando il suo entusiasmo e organizzando i suoi bisogni, uccidendo il suo ideale e rianimando i suoi interessi.

Se la forma monarchica aveva vinto sulla repubblicana, la vittoria era legittima, poichè nella storia i deboli e quindi i falsi non vincono mai; non pertanto questa vittoria poteva bene non aver creato la forma definitiva della rivoluzione, se alla morte di Garibaldi, il vinto volontario, i vincitori non osavano fiatare e tutto il popolo si levava altero in faccia alla monarchia, che aveva seppellito nella volgarità di un immenso trionfo artificiale il proprio re.

Vittorio Emmanuele dormiva sotto la vôlta del Panteon, deformato a tempio cristiano, in un silenzio di abbandono che i passi della guardia d'onore rompevano soli; ma Garibaldi vigilava ancora sullo scoglio di Caprera e Mazzini intendeva dai colli di Staglieno, mentre Cavour che li aveva entrambi avversati e battuti, riposava quasi dimenticato nel santuario di Superga.

Questi, forse il più destro e profondo politico di questo secolo, afferrando subitamente l'antitesi di una temporanea necessità monarchica nel moto repubblicano, vi aveva soverchiato le due massime figure, senza riuscire vincendo a mettere nel proprio governo un'anima schiettamente rivoluzionaria e moderna. Tutti, aderenti e ripugnanti, avevano sentito nella fatalità di questo processo che la repubblica era immatura, ma che la monarchia non poteva essere longeva. Quindi gl'interessi sopraffecero i sentimenti, Garibaldi riparò a Caprera e Mazzini rimase nell'esilio. Ma in essi solo era la vitalità e la legittimità della nuova Italia.

Italiani come l'Italia non ne aveva più avuto dopo Dante e Michelangelo essi furono mondiali: nel piccolo moto nazionale riassunsero tutti i principii dell'evo moderno, vincendo in Italia le loro vittorie appartennero a tutto il mondo. La rivoluzione del 89, che dopo l'Impero napoleonico la Francia non aveva potuto continuare fuori di sè stessa, ridivenne per opera loro universale. Se l'Italia non avesse prodotto Mazzini e Garibaldi non sarebbe risorta: essi furono i rappresentanti della sua terza giovinezza che ricominciava un'era nuova pel mondo. Quindi tutti i popoli se li appropriarono. Ogni moto liberale della prima metà di questo secolo si fece nel loro nome, per tutte le sconfitte ci fu del loro sangue, in tutte le vittorie ci fu del loro genio. La razza latina che aveva fatto la rivoluzione in Francia con Danton e distrutta l'Europa feudale con Napoleone, creava l'Europa liberale con Garibaldi e con Mazzini; mentre il suo antico genio dell'impero insegnava a tutti con Cavour la disciplina necessaria alla rivoluzione per riuscire feconda nelle inevitabili transazioni storiche. Ma Cavour ebbe molti rivali in questo secolo, benchè nessuno di loro potesse poi forse vantare risultati simili ai suoi, e Gladstone in Inghilterra, Bismark in Prussia, Frère Orban nel Belgio, Gambetta in Francia mostrarono nelle combinazioni parlamentari e diplomatiche un ingegno e una scienza certo non inferiore alla sua.

La rivoluzione italiana però rimase e rimarrà eternamente incarnata in Garibaldi e in Mazzini: Ercole e Prometeo, tanto maggiori oggi di quanto il mondo antico greco è inferiore al mondo moderno.

E il comizio finì freddamente.

Me ne ricordo: il pubblico era accigliato, quasi triste.

Aveva veduto il volto di Garibaldi in un ritratto, non aveva sentito l'anima di Garibaldi in nessuno di quei discorsi che avevano durato quasi due ore.

Don Giovanni era dileguato fra la folla.

Non lo vidi più.

Quella notte dopo la sua morte, ritornando dal caffè, pensai lungamente a Don Giovanni. La sua villica e schietta figura mi si presentava al pensiero in tutti i racconti della sua vita. Lo vedevo cinto di contrabbandieri trafugare ai confini della Toscana i rivoluzionari romagnoli, vestito di una piccola giacca col fucile sulle spalle: lo vedevo prete al letto dei malati, al banco degli sposi, agli altari delle chiese: lo ritrovavo cacciatore sui monti col gabbione sulle spalle, a sera innanzi la piccola casa curando gli uccelli nelle gabbie assistito dagli stessi monelli che lo aiutavano nel paretaio; lo seguivo nelle caccie alla lepre. Era un semplice e un forte. Alla mattina dissi che sarei partito per Modigliana.

L'amico che doveva accompagnarmi era un giovane signorile, fanaticamente liberale, che mi aveva spesso aiutato a ricopiare i libri che do alle stampe.

La giornata brumosa e fosca accennava a piovere. Nullameno, attaccammo il ronzino e partimmo. I monti in quella melanconia dell'autunno parevano più belli: i campi erano già seminati e i boschi cominciavano a perdere le foglie. Discendemmo a Riolo, dove molti che si disponevano a partire per Modigliana ci salutarono; erano tutti giovani eccitati che parlavano entusiasticamente di Don Giovanni. A poche miglia da Riolo calando verso Castel Bolognese ci trovammo davanti una lunga fila di biroccie cariche di legna: i birocciai, che al solito camminavano loro innanzi un cinquanta passi, si rivolsero al tintinnío delle nostre sonagliere, ma invece di ritornare ai loro cavalli per darci il passo seguitarono ciarlando. La strada non molto larga era quasi chiusa dalle biroccie. A sinistra le loro ruote rasentavano i mucchi della ghiaia preparata per l'inverno, a destra lasciavano un piccolo vano; misi il cavallo al passo, e riconoscendo inutile ogni appello ai carrettieri tentai di passare. Lo stretto era minimo ma sufficiente: però quando il mio cavallo arrivò colla testa alla groppa del cavallo da bilanciere della prima biroccia, questo si torse come per sferrargli un calcio. Il mio indietreggiò, una ruota scivolò dal ciglio della strada. Il cavallo, sentendosi tirare al petto dal peso del biroccino, si ritrasse di un altro passo; feci per saltare, era troppo tardi e rotolammo giù nel burrone. Non era molto profondo ed era il solo lungo la strada da Riolo a Castel Bolognese. Nel fondo alcune acacie vi ombreggiano una fontana che serve ai contadini dei dintorni, ma tagliate il giorno innanzi presentavano come tante cuspidi sui cespi. Cadendo dall'altezza di cinque o sei metri andai a battere col ginocchio destro, rattrappito, sopra una di quelle punte. La percossa fu così forte che quasi non la sentii, ma quando volli alzarmi, prevedendo che il cavallo rimasto a mezza costa nel primo sforzo per drizzarsi mi sarebbe rotolato addosso col biroccino, m'accorsi che la gamba non veniva.

—Mi son rotta una gamba, urlai al compagno che già stava in piedi incolume e sorridente.

—Che!

Il cavallo non si mosse. I birocciai avevano proseguito senza nemmeno voltarsi.

Quindi accorsero contadini dai prossimi campi.

Abbreviamo questo racconto che non può interessare alcuno. Per non svenire dallo spasimo mentre mi portavano di peso su per il pendio della strada, misi il labbro inferiore fra i denti e lo perforai senza accorgermene: fui trasportato nella casa più vicina. Il medico di Riolo, un amico, accorse prontamente e non constatò che una forte contusione al ginocchio, che parve impressionarlo: il mio compagno, prevedendo che il racconto della caduta sarebbe giunto a Casola spaventando sinistramente i nostri genitori, mi consigliò di ritornare alla villa invece di discendere a Faenza. Acconsentii. Il medico del villaggio giudicando la cosa leggiera non volle mettere nè ghiaccio nè sanguisughe sul ginocchio: al mattino una sinovite enorme era già determinata.

I dolori infierivano.

Feci telegrafare a Modigliana l'accaduto e attesi fra gli spasimi che ritornasse qualcuno a raccontarmi dei funerali.

Allora io stesso non credevo la cosa molto grave.

La notte seguente non dormii. L'indomani verso sera venne a trovarmi un gruppo dei giovani che dovevo rappresentare.

I funerali erano stati imponenti per concorso di popolo, ma scarsi di oratori e quel che è peggio infelici. Il sindaco di Ravenna, del quale è inutile ricordare qui il nome, goffa figura di zoccolante diventato poi deputato, aveva quasi asfissiato il pubblico con un discorso dei più lunghi e dei più grevi. La gente, mi raccontavano quei giovani, aveva ascoltato strabiliando le sue frasi mezzo pretine pronunciate a voce chioccia.

Nullameno i funerali erano stati belli, gli oratori non avevano potuto guastarli.

Quei giovani se ne andarono e rimasi solo.

Fino a Dogali

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