Читать книгу Fino a Dogali - Alfredo Oriani - Страница 9
II.
ОглавлениеColla morte di Don Giovanni Verità un gran problema religioso si presentava alla riflessione. Garibaldi condannato dal papa era stato salvato da un prete, cui non si era osato scomunicare. Perchè? Questo prete morendo ricusava di abiurare il carattere di tutta la sua vita e il clero dopo avergli amministrato i sacramenti abbandonava il suo cadavere al popolo, che lo portava in trionfo. Tutto il suo piccolo paese, tutta la provincia, tutta l'Italia era piena del nome dell'eroico sacerdote: le persone più disparate per opinione e per nascita, per educazione e per indole convenivano commossi intorno alla sua bara, dalla donnina usa a scongiurare col rosario i terrori dell'inferno al vecchio garibaldino cresciuto nell'odio della religione che aveva per lunghi secoli assassinato la patria, dal magistrato pedantescamente devoto al governo, al giovane ribelle fremente nell'entusiasmo delle prime negazioni. E ognuno riconosceva un prete in Don Giovanni. Certo le interpretazioni di tale parola oscillavano e nelle frequenti clamorose discussioni pochi riuscivano ad intendersi; ma da tutte il suo carattere sacerdotale usciva radiante in una luce di trionfo. Grosse questioni vi tempestavano attorno: le coscienze n'erano agitate.
Perchè tutti coloro che si vantavano di non credere nei dogmi cattolici ammiravano entusiasticamente in un prete un fatto che centinaia di soldati garibaldini avevano talvolta compiuto in circostanze più difficili? Perchè gli altri non meno numerosi, che si confessavano cattolici, s'intenerivano all'eroismo di un sacerdote che salvando Garibaldi aveva disobbedito al papa ed era morto appellandosi a Dio dalla sua autorità? Su quale sentimento idee così discordi convenivano e in quale idea concordavano sentimenti così opposti?
Questa sintesi, che nessuno sapeva formulare, Don Giovanni l'aveva realizzata nella propria vita.
Non so come fosse nato e credo inutile saperlo. Della sua infanzia, della sua adolescenza, della sua prima educazione in seminario nessuno si è mai occupato: nella sua vita vera, che cominciò più tardi, questi antecedenti sono quasi senza valore. Don Giovanni non fu nè un apostata nè un convertito. Nessuno di quei terribili drammi religiosi, che Renan ormai vecchio si compiace a rivelare, scoppiò nella sua anima. Era nato di popolo e popolo rimase, visse e morì.
Era forse un ignorante, senza dubbio un ignaro.
Nè poetici entusiasmi nè mistiche elevazioni lo trassero al sacerdozio.
Nelle povere famiglie plebee come nelle minime famiglie borghesi l'allevamento di un prete rappresenta ancora la più facile e la meno dispendiosa delle speculazioni.
I seminarii accettano e educano i giovinetti per tre o quattrocento lire all'anno: le parrocchie, incredibilmente numerose in Italia, consumano un numero stragrande di preti, poi vi sono tutti gli altri uffici sacerdotali più o meno lucrosi. Il ragazzo diventato prete esce generalmente di casa portando seco metà della famiglia; la sua parrocchia è una specie d'eredità capitata nella casa.
Quanto al sentimento e al carattere sacerdotale nè una parola nè un dubbio; si diventa preti come avvocato. Certo i due mestieri diversi esigono diverse attitudini, ma nell'economia domestica e nel concetto sono pari. Se un prete ammalato d'idealismo religioso pretendesse vivere come i primi cristiani, distribuendo ai poveri le proprie rendite, la sua famiglia griderebbe al furto e tutto il paese allo scandalo.
La poesia del sacerdozio è morta da un pezzo: negli stessi conventi, ove da ultimo fu ospitata, è talmente sconosciuta che persino nei libri che vi si scrivono non ne appaiono più traccie.
Don Giovanni sarà cresciuto come gli altri suoi compagni, indisciplinato e villano, ignorante e coraggioso perchè così la natura lo aveva fatto. Non so se fosse mai parroco, parmi che sì, certo servì nelle parrocchie. Il suo era temperamento di soldato, ma nullameno potè rimanere sempre prete senza soffrire e far soffrire. Era un semplice. Della meschina filosofia del seminario non aveva appreso nulla, della sua teologia fine, oscillante, piena di agguati pel ragionamento, tutta sparsa di casi somiglianti a trappole, aperta qua e là in prospettive metafisiche di una profondità perigliosa, illuminata da raggi mistici abbaglianti ed improvvisi, egli sapeva ancora meno.
Solo la morale evangelica, dura e semplice, lo aveva colpito.
L'aveva seguita senza discuterla e senza discuterla l'applicava. La tragedia così profondamente filosofica del cristianesimo per lui non era che un caso di sacrificio, tanto anormale nella grandezza che Dio solo aveva potuto compierla: non vi trovava altri significati. Accettava tutto il rito, tutti i Santi, le pene e i premi, le rivelazioni parziali dopo la massima di Gesù Cristo, le tradizioni, le autorità, i vizi commerciali insinuatisi nel culto, le deformità idolatriche, gran parte delle pretese politiche, perchè la sua natura fatta d'istinto ripugnava alla indagine e debole per troppa ignoranza soggiaceva all'immane peso di un sistema che abbracciava tutto il mondo da circa duemila anni.
Viveva. Avrebbe potuto agire sotto l'impulso di certi sentimenti, ma sopratutto lasciava vivere. Il pensiero era troppo alto per lui, l'azione non ancora matura. Ed era un prete come gli altri. Nato non ricco, non pensò mai ad ammassare. Aveva le abitudini di un contadino coi gusti di un cacciatore, nei quali fermentavano forse le sue forti attitudini guerresche. Incapace di sentire tanto l'idealità della Madonna quanto la tragica delicatezza di S. Francesco d'Assisi, la sua pelle e la sua anima si eccitavano nelle albe frizzanti sui monti, quando il sole sembra prorompere improvvisamente da un'onda rutilante di colori e la terra palpita e tutti gli animali esultano. Amava l'abito corto di cacciatore, le ore snervanti del meriggio nelle stoppie, i ritorni lenti a sera accompagnandosi coi braccianti che discendono dai monti, le stanchezze così sane e così buone che la caccia lascia nei muscoli e nello spirito, quando appena suonata l'avemaria si ha bisogno di dormire.
Quali erano le sue divozioni, poichè un contadino come lui deve averne avuto?
Non ho potuto saperlo, e questo sarebbe il dato più interessante della sua vita. Se in psicologia fosse permesso indovinare invece di dovere sempre osservare, affermerei che il suo santo prediletto fu S. Paolo, il suo evangelio preferito quello di S. Matteo. Il vigore, la precisione romana nei ragionamenti del primo, la sua fulminea conversione, l'indomato orgoglio soldatesco esplodente nelle concioni d'apostolo, la tendenza così moralistica del suo insegnamento, la bruscheria delle sue frasi ancora frementi di passioni mal dome, la sua effigie rimasta in tutti i secoli e in tutte le chiese colla spada in mano, quasi minacciando anche dopo la vittoria, dovevano piacere al suo spirito meglio capace d'intendere la religione nelle battaglie storiche che nelle origini metafisiche. Mentre il racconto austero e quasi fanciullesco di S. Matteo dipingente un Cristo tutto cuore, come un ideale diventato poi divino a forza di essere umano, blandiva certamente la parte più tenera della sua rozzezza, quel fondo di soavità malata e appunto per questo così facile ad inacidirsi, che la mancanza della donna, suicidio parziale del sesso, lascia in tutti i preti.
Don Giovanni potè forse amare Santo Stefano che in una piazza di Gerusalemme dopo la morte di Cristo moriva primo nel suo nome, araldo eroico e gentile di un esercito di martiri che dopo duemila anni passa ancora per la storia; e la sua figura bella di gioventù immacolata, incuorante con coraggio senza acrimonia i lapidatori a finirlo, gli avrà forse da fanciullo strappato urla d'indignazione. Ma la clorotica ed evanescente gracilità di S. Luigi Gonzaga, chiusa nell'invincibile egoismo del santo che si isola dal mondo e vive, pensa, opera, si consuma e muore entro al proprio sentimento, gli avrà senza dubbio ripugnato.
Nella sua natura la poesia non arrivava fino alla musica: la sua bontà poteva forse simpatizzare colla colpa, non ammirare una virtù chiusa nel fondo del cuore e vaporante solo del pensiero i proprii effluvi vivificatori.
I tempi politici della sua giovinezza ingrossavano.
La Romagna, terra di ribellioni, era tutta agitata da idee liberali ancora torbide ed incerte. Il governo papale discendendo la propria parabola millenaria era arrivato al di sotto del ridicolo nell'impotenza, oltre la nausea nella corruzione; la sua stessa religione, così robusta storicamente per guerre durate e battaglie vinte, sembrava ed era profondamente malata. Il clero romagnolo, numeroso come le cavallette, non aveva nè coraggio nè capacità politica, nè valore intellettuale. Dominava tutte le attività della vita pubblica e una invincibile anemia lo esauriva: senza idee e senza passioni, gli erano rimaste le abitudini delle une e i vizi delle altre. Oppugnando l'immenso sviluppo della civiltà moderna, non ne sapeva nulla: vantava il proprio passato, e lo ignorava; a corto di ragioni, non sentiva più la poesia; accattone di aiuti assassini da tutti gli stranieri, non sapeva e non poteva esercitare sui popoli una autorità che non trovava in se stesso.
Questo periodo di storia religiosa e civile oggi conchiusa non fu ancora abbastanza studiato.
Don Giovanni lo visse.
Persecuzioni minute e ridicole inferocivano. Si imprigionava senza processo, ma non si osava uccidere nemmeno condannando a morte: nei pochi casi di esecuzione capitale il governo si rivolgeva all'Austria, della quale stipendiava le truppe, e l'Austria fucilava colla ipocrita ragione di una ribellione militare. L'epoca dei grandi inquisitori era passata. Quel governo moribondo, incapace di saper morire, non sapeva nemmeno ammazzare. Ma in fondo è la medesima cosa ed esige le stesse facoltà.
Don Giovanni, uomo fra un clero che di virile non gli era rimasto che il sesso, era troppo avveduto per dividerne gli ultimi morbosi capricci. La forza della sua natura mantenuta dalla rozzezza della razza e da una vita incessantemente rimescolata fra persecutori e perseguitati, fra una gente che anelava alla libertà come alla prima delle virtù, e una casta che pretendeva ancora la servitù verso sè medesima come primo dovere verso Dio, lo fecero istintivamente tenere per un dì coloro, che volevano essere uomini ed italiani contro gli altri, suoi compagni o superiori, che non essendo nè l'uno nè l'altro pretendevano imporre la propria incapacità come un divino ideale.
Ma prete campagnolo e cacciatore, optando per il popolo contro il governo, non vide sciolto alcuno dei grandi problemi, che prima di lui avevano perduto tanti illustri sacerdoti e dovevano seguitare a perderne altri ancora.
La modestia delle sue brame e delle sue idee gli aveva sempre impedito di comprendere le necessità avviluppate e profonde del potere temporale. Non avendo nè a salire nè a discendere per restar prete, il suo buon senso di villano gli suggeriva fatalmente una equazione fra sè stesso e il papa. Perchè questi non potrebbe restare papa senza regno, se egli poteva rimanere parroco senza i poderi della parrocchia? Dio era buono e l'umanità infelice; Cristo l'aveva redenta, lasciandola nel dolore come in un aroma che le impedisce di putrefarsi. Tutto il resto era rito, culto, bisogno di rappresentazione e di traduzione per la povera gente: il cristianesimo non era che il sacrificio di Dio per tutti e che ognuno doveva ripetere per sè e per gli altri.
Come il cristianesimo erasi sviluppato nel mondo vincendolo? Per lui il problema era facile: il cristianesimo era vero. Perchè dal pontificato era sorto il papato? Necessità di tempi e di disciplina. Perchè il cristianesimo lacerato sempre dalle eresie aveva finito per scindersi in cattolicismo e in protestantesimo? Egli l'ignorava. Secondo lui il cattolicismo avendo ragione ne aveva abusato, il protestantesimo poteva aver torto, ma il suo errore non provava nè malvagità di mente nè corruzione di cuore. E non ci pensava oltre.
Il vangelo bastava a tutti e a tutto.
Le condizioni presenti della religione, nella quale doveva agire come prete, gli erano sconosciute. I curati, i canonici, i vescovi che aveva conosciuto ne sapevano quanto lui. Le loro interpretazioni dei vangeli, ormai vecchie quanto i vangeli stessi, avevano perduto nella monotonia di una troppo lunga ripetizione ogni significato. Il sacerdote le sviluppava straccamente dall'altare al popolo ascoltante nella invincibile indifferenza di chi non può aspettarsi più nulla da una spiegazione. Nessuna virtù, nessun ideale luceva più. La Chiesa che aveva tanto canonizzato nel passato, aveva perduto il profumo e il senso della santità: il clero non era più che un'immensa amministrazione religiosa, nella quale i conventi rappresentavano ad un tempo i magazzeni e le caserme.
Un vasto e freddo disprezzo li avvolgeva.
Nella campagna e nelle piccole città italiane, sprovviste di cultura, rito e culto testimoniavano soli della religione. Le anime quetatesi dopo la tormenta del rinascimento in una inerzia appena sollecitata dai minuti bisogni quotidiani della vita, non aveva più nè aspirazioni nè ricordi, nè ideali politici, nè sogni religiosi. Si viveva chiusi entro la cerchia del paese grande quanto tutto il resto del mondo ignorato. L'educazione dei seminarî e dei conventi troppo prolungata aveva portato i proprii frutti uccidendo tutte le arti colla rettorica e tutte le scienze colla teologia.
Se qualche intelletto spinto da una irresistibile forza intima sorgeva, le fiacche curiosità paesane lo circondavano; ma rimaneva a loro in mezzo applaudito ed incompreso, triste e solitario.
Tutte le classi erano disgiunte, mentre il clero più unito per uniformità di tendenze e d'interessi, che compatto, bastava a dominarle.
Ogni piccolo Stato italiano isolandosi per istintiva diffinanza inceppava le comunicazioni. I suoi soldati incapaci di guerra non erano che sbirraglia, la sua politica interna una tutela di convento quando la prigionia e la pena di morte vi si praticavano ancora, la sua politica estera una laida servitù verso l'Austria ultimo impero feudale cinto di feudatari più grossi degli antichi e più abbietti dei cortigiani moderni. Fra essi il Pontefice, immemore della grande epoca papale, vantava ancora nei molteplici brevi un impero universale, tremando pel rifiuto di un reggimento di croati. Nelle Università le vecchie lampade non rifornite mandavano più fumo che luce: il commercio viveva del piccolo contrabbando alle innumerevoli frontiere interne.
L'Italia desta dai cannoni di Napoleone I, poi rialzata da uno strettone della sua mano terribile, sembrava rimorta con lui.
Il suo ultimo poeta aveva conchiuso nel 5 Maggio l'inno a Napoleone colle supreme parole dei funerali.
Nullameno l'Italia viveva ancora e intorno a lei l'Europa grandeggiava.
Nella tempesta di mille questioni poste dalla rivoluzione francese il problema religioso soverchiava. La rivoluzione avendo l'aria di sopprimerlo colle feste della Dea Ragione lo aveva invece rianimato. Il cristianesimo attaccato teoreticamente dagli enciclopedisti, lacerato dai frizzi di Voltaire, aperto dalle potenti invettive di Rousseau, soffocato dalle prime scoperte della nuova scienza, impicciolito dalla recente sicura conoscenza di tutto il mondo fisico, quasi soppresso dalla rivoluzione alla quale si era opposto come vecchio alleato della feudalità, aveva trovato come sempre la propria salvezza nella persecuzione. La rivoluzione per ricacciarlo dal campo della politica entro i suoi confini naturali l'aveva seguito oltre ai medesimi nel campo chiuso delle coscienze. Allora il cristianesimo fuggente si era rivoltato resistendo. Moltissimi de' suoi preti seppero morire; i suoi credenti trovarono con lui nel fondo della propria anima l'energia di tutti i dolori e di tutte le speranze. Parvero ritornati i primi tempi dell'apostolato.
Invece delle catacombe la religione abitò nei boschi. Le case ebbero altari; all'eroiche superbie dell'ateismo si contrapposero le miti ma inflessibili resistenze della fede.
Poi Napoleone, disciplinando la rivoluzione nell'impero per portarla in tutto il mondo, sospese la persecuzione religiosa. Al rombo dei suoi cannoni vittoriosi le campane risposero con squilli di trionfo e le chiese si aprirono al culto, mentre tutta l'Europa vinta da una apparente conquista si schiudeva alla libertà. Chateaubriand, che avendo invano cercato giovinetto il passaggio del polo era tornato esule della rivoluzione a Londra per seguir poi tutta la vita il fantasma della regalità, scioglieva nel Genio del Cristanesimo, libro futile e meraviglioso, l'inno della nuova religione pacificata colla nuova libertà.
Le coscienze respirarono. La religione si rialzò avendo perduto nella breve persecuzione gran parte dei falsi ornamenti procacciati nei lunghi secoli della sua tirannide. Roma oscillando sotto la protezione violenta di Napoleone, fra una repubblica fugace e una fuga del Pontefice, trovò alcuni accenti tragici de' suoi primi secoli: la libertà rivoluzionaria alleandosi istintivamente alla libertà religiosa nel nome della libertà di pensiero resistette al nuovo impero. Si potè essere orgogliosamente cattolici come dianzi si era stati superbamente giacobini. Dio confessato da Robespierre all'ultima ora, quasi nel presentimento della morte, sfolgorò nelle chiese fra i Tedeum della vittoria: Cristo prima odiato come tiranno ritornò a capo dei nuovi martiri, martire più antico e più bello di loro. Un vasto sentimento patetico prodotto dai massacri della rivoluzione, alimentato dalle carneficine dell'impero, poetizzato dai sacrifici di quanti erano morti e morivano ancora su rovine fumanti, sostenuto dalle energie della nuova vita creò nella politica, nell'arte, nella religione un mondo nuovo di figure e di realtà.
La religione, ritornando di moda nei costumi, imperò nei libri.
Un moto di reazione la sospinse così in alto amplificandola che un'altra reazione scoppiò, e la scienza, prima complice, poi vergognosa degli eccessi della rivoluzione, e quindi ritiratasi in faccia alla nuova ovazione cristiana, si ripresentò austera per contraddirla.
Da Chateaubriand a Victor Hugo rimasto cristiano attraverso le meravigliose metempsicosi della sua poesia, tutta una legione di scrittori e di artisti agitò il problema religioso: l'ateismo cedette al pessimismo, che fu ancora una contropprova della religione. Le imprecazioni di Lord Byron, le maledizioni di Leopardi espressero il dolore di non potere più credere pur conoscendo le bellezze della fede, mentre l'ateismo vero del secolo antecedente, vissuto nella calma della propria sicurezza, non aveva nè bestemmiato nè sofferto. Lamartine e Manzoni rinnovando la lirica della Chiesa superarono forse gl'inni più belli dei suoi primi tempi: De Maistre e De Bonald sentendo la necessità del nuovo impero religioso vollero mantenerlo colle ragioni dell'antico, e quegli reclamò il dispotismo del papa, questi l'assolutismo del re; Ballanche conservò nel nuovo ardore religioso la vecchia placidezza platonica, mentre madama Staël, fondando con Chateaubriand il romanticismo francese, preparava la più grossa falange di scrittori cristiani apparsa nella storia. Le nuove generazioni arrivavano tumultuando, raggiando.
La Germania quasi sconosciuta nel commercio letterario compiva nella calma di una fecondazione così enorme che oggi appena, dopo cinquant'anni, si è potuto calcolarne le opere e i risultati, la rinnovazione della filosofia e della scienza, dell'arte e della politica. Se la Francia aveva agito, la Germania aveva pensato: pensiero ed azione parvero combattersi un momento nella forma conquistatrice della rivoluzione francese, ma stavano già per fare la pace. Il soffio religioso seguitava a purificare l'aria dalle impurità rivoluzionarie sconvolgendo molte teste. Alessandro di Russia ne ammalò a Pietroburgo; il pontefice ammalò in Roma del vecchio morbo vaticano. Roma che avrebbe potuto conquistare il mondo col nuovo sentimento religioso largo e puro, pretese riprenderlo colle vecchie armi del governo papale. L'avarizia del potere temporale e l'affetazione della tradizione divina la fecero contraddire al recente moto, e poeti, apostoli, scrittori, credenti, tutti furono violentemente assoggettati alla interpretazione vaticana.
Ma generati dalle persecuzioni e nati nella libertà, la loro maggioranza resistette. Roma, che doveva rappresentare la verità della libertà eterna contro la tirannia della libertà rivoluzionaria, divenne l'ultima cittadella del dispotismo, piena più di preti che di soldati, immensa officina di idoli e di catene governative. Per conservare le proprie provincie avversò ogni fortuna d'Italia, costretta ad invocare soccorso da cattolici e da eretici benedisse tutte le violenze e anatemizzò tutti gli eroismi; più vile che nella decadenza dell'impero romano smarrì il senso della sua eterna universalità per non conservare nella coscienza decrepita che il dolore delle ultime ferite e il terrore delle nuove libertà.