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DIAPASON
ОглавлениеCaro Bariè,
Casola Valsenio 17 dicembre 1881.
Ho finito or ora il libro, e riprendo la penna per dedicartelo. Quando, fra qualche mese o qualche anno sarà stampato, chissà quali avventure, sorprendendo le nostre vite e divertendone la direzione apparente, potrebbero impedirmi di farlo. Forse la malinconia che c'invade, allorchè l'opera ancora tiepida della nostra mano, separandosi improvvisamente da noi, ci abbandona come un emigrante mal in arnese, il quale salpi verso ignote miserie, è uno dei sentimenti più amari ed inesprimibili. La generazione ideale, poichè più alta nella vita della generazione animale, è quasi sempre più lunga, sempre più dolorosa; quindi se il bambino prosegue quasi nella esistenza del padre, e sviluppandone i disegni, che la trascendono, vi si incorpora, il libro appena nato si contrappone all'autore con una personalità già perfetta ed indipendente. E, mentre quello sembra colla prova della nostra virilità darci l'altra di una nuova ricchezza, questo ci lascia nella lassitudine dell'esaurimento un senso più vivo della nostra debolezza. Che egli muoia prima di noi o ci sopravviva, e la sua fortuna sia come quella di un avventuriero, il quale diventa imperatore o portinaio; che egli passi fra la gente come un'apparizione di bellezza e di gloria, ovvero come un accattone, il quale mendica un'occhiata e riceve un sogghigno; che le sue mille edizioni, o le sue mille copie lo diffondano attraverso tutti i climi, al disopra dei monti e al di là dei mari, ovvero avvizziscano nell'ombra muffosa di un magazzino di libreria per finire sui banchi del commercio, come certi miserabili finiscono sul banco delle assise, non ci appartiene più e non ci conosce. Sarà forse ricevuto colla più nobile accoglienza dove nulla al mondo potrebbe decidere quelle stesse persone a riceverci; discenderà fin dove, per quanto intrepidi nella curiosità ed ottusi nel senso, non consentiremmo giammai a discendere: libero come un trovatello non sentirà nè riconoscenza, nè ingratitudine: avrà una patria ed una lingua, una civiltà ed un popolo, ma come molti trovatelli, i quali ripetono la sciagura donde nacquero, se avrà figli, saranno bastardi.
Il sentimento melanconico di cotesto abbandono ha probabilmente generato fino dalla antichità la prefazione, questa parola di rimpianto e di amore, che quasi tutti gli deponiamo sulla fronte, come l'ultimo bacio per una partenza senza ritorno. E mentre egli si smarrisce nella lontananza infinita dei casi, noi torniamo a rincantucciarci nel nostro angolo, e se pensiamo ancora a lui in qualche ora di tristezza, o ci voltiamo talvolta di soprassalto udendo pronunciare il suo nome; quando passarono molti anni incontrandoci su qualche tavolo straniero, o la sua idea parandocisi innanzi al pensiero come la prima volta che l'amammo e fu nostra, stentiamo forse a riconoscerla, come molte delle donne, che ci parvero belle un giorno e che credemmo di amare.
Già Pascal lo ha scritto da due secoli, che volendo giudicare l'opera propria, appena fatta è troppo presto, dopo è troppo tardi: prima vi siamo ancora dentro, dopo non possiamo più rientrarvi; laonde val meglio seguire l'andazzo dei padri, che fatti i figli, lasciano a loro medesimi la cura di vivere, e forse danno così alla società i suoi più robusti individui. Perchè dunque vi è ancora chi scrive libri? Sono il bisogno di un'espansione individuale, o l'espressione di un bisogno collettivo? Se belli, forse l'uno e l'altro; se brutti, forse egualmente ancora; ma infermi nati di una malattia saranno le più miserabili creature fra i viventi, non avranno nemmeno la pietà, che consacra i deboli, la guerra, che inorgoglisce i tristi.
E mentre nella solitudine del mio castellaccio, in mezzo a campi coltivati da migliaia di anni, circondato dalle forme embrionali di una civiltà, alla quale molte altre contribuirono, fra gente di contado e di villa, e i giornali che recano la sera le notizie del mondo, e i mercanti che il venerdì vi conducono la retroguardia dei suoi infiniti interessi, mi isolo qualche mese e scrivo un libro; tu, spirito fine e gentile, nato per vivere fra pareti rivestite di arazzi e respirare l'aria profumata delle serre, sei lontano, nella antica Chersoneso. Il vento, che ti arriva dalle lande superiori, è carico di indefinibili sentori: le montagne, che laggiù asserragliano l'orizzonte, sono forse del Caucaso, e hanno dato il nome alla nostra razza; la terra, che mediti riabbellire coltivandola, fu già coltivata dai greci, che vi mandarono le prime colonie, per cingere tutti i seni del Mediterraneo colla passamanteria delicata della loro civiltà. Intorno a te la pianura ha l'ondulazione sconfinata di un mare: gli alberi, la vegetazione tozza o sregolata di una natura, che l'uomo non ha ancora epurato o contenuto; il primo grano, che ti sei seminato fra i piedi, agiterà le spiche all'altezza della tua testa fra sei mesi; i puledri, che già accorrono al suono della tua voce di padrone, discendono da quei cavalli arabi, che portarono trionfalmente per tutta l'Asia e fin dentro i confini dell'Europa la religione voluttuosa ed austera del grande Maometto. Il paesaggio, che circoscrive il tuo pensiero e contorna i tuoi sogni, è quello stesso di tremila anni fa, quando i Greci vi discesero esuli di una vita, che il pensiero rendeva già troppo grave, per rituffarsi nella natura, e rifiorirvi nella sua eterna giovinezza.
Al pari di te avevano una fantasia popolata di statue, l'intelletto carico come una trireme, il cuore educato da grandi sentimenti e spossato da grandi passioni. Dotati di un genio indefettibile ripeterono la Grecia su quei lidi, coprirono il mare di barche, le sponde di templi, la terra di olivi e di viti; l'arte innamorata di loro non volle abbandonarli, e decorò tutte le loro opere: la filosofia, che avevano fuggita come un etèra di malvagie influenze, ma di seduzioni irresistibili, venne a cercarli nell'esilio, e si assise nobilmente superba, severamente ciarliera in mezzo ai loro circoli. Poi i Romani, che avevano sconfitto gli ultimi Etoli, passarono per quei remoti sobborghi di Atene, come un'orda brutale che distruggendo disciplinava, e il sorriso, che l'uomo aveva dato alla natura sulle spiaggie dell'Eusino, disparve. Più tardi un poeta innamorato ed infelice vi ramingò condannato dall'ira di un imperatore e dalla civetteria di una principessa; più tardi ancora, i Romani diventati Greci un'ora prima di morire, abbandonarono la loro terribile città conquistatrice per venire sull'Ellesponto, che i primi Greci avevano sentito così bello, e spirarvi mollemente in una musica di profumi e di colori, di parole e di baci. Quindi dall'Asia, che Milziade aveva respinto, ed Alessandro invaso per il primo, ruppe un'onda incontenibile di cavalli e di bandiere; la luna parve discesa dal cielo e procedere tremenda alla loro testa: il grido delle battaglie echeggiò oltre Roma fino a Tule, oltre Babilonia fino a Pechino; il fumo degli incendi si disciolse in pioggia fino sulle steppe della Mongolia e sulle dune della Brittania. Poi un immenso baleno, bianco come quello di una scimitarra, albeggiò sulla cupola di Santa Sofia, quando la mezzaluna vi si rizzò nella sua fredda gloria di pianeta, e la croce disparve dalle costellazioni di quel cielo così azzurro.
Chersoneso era una baia, la Grecia una penisola; la prima era stata dimenticata, la seconda era appena un ricordo.
Ma oltre quelle sponde, che i Greci avevano benedette della loro presenza, e alle quali il mare diceva le novelle di tutte le altre terre, si stendevano solitudini più grandi di tutti quegli avvenimenti, più terribili allo sguardo che non tutte quelle tragedie al pensiero. La fama raccontava di montagne, che la neve vi aveva alzate e che il ghiaccio vi aveva rese eterne; qualche volta in un rombo lontano lontano sembrava di ascoltare fracasso di fiumi, lunghi come una vita e vasti come un pelago; talora un cavaliere, in costume irreconoscibile, si affacciava al confine della landa come un'apparizione misteriosa, gettava uno sguardo su quel mondo già vecchio due volte, e spariva in un turbine di vento con un galoppo fantastico. Quel cavaliere, cui l'immaginazione trepidante dava il nome di Sarmata, era l'avvenire, e adesso è il presente. Il Sarmata si chiama Russo; ha sconfitto l'altro ieri l'ultimo Cesare romano, che gli aveva mosso contro da Parigi, e si è fermato ieri per la seconda volta sotto le mure di Bisanzio: egli è l'ultimo vincitore nella storia dell'Europa, l'ultimo impero nella geografia dell'Occidente.
Sgraziato come tutti i colossi e senza verginità di adolescenza come tutti i mostri, egli è passato dalla infanzia alla virilità, dalla crudeltà della selvatichezza alla ferocia della civiltà. Privo di tradizione e quindi di ideale, la sua unità è un'agglomerazione, la sua vita un istinto, la sua forma un embrione, la sua potenza una massa, la sua difesa la natura, la sua ricchezza gli viene dalla atonia di ogni sentimento e dalla brutalità di ogni bisogno. A volta a volta nomade e contadino come l'arabo, il cielo gli negò coll'azzurro la bontà del cuore, il sole non gli accese coi raggi la generosità nel pensiero: quindi il freddo, che restringe tutti i pori, gli racchiuse per sempre l'egoismo nell'anima, e la neve, che confonde tutte le fisonomie, gli intorbidò le forme dell'intelletto. L'uniformità della natura pesò sulla sua società: i gruppi umani apparvero disseminati nel suo impero come i gruppi degli alberi per le sue steppe, poi come gli uccelli unirono gli alberi col loro volo di landa in landa, i cavalli congiunsero gli uomini colle loro corse di provincia in provincia; e lontano, al di là degli occhi, al disopra del pensiero, come una montagna dalla vetta invisibile, il trono e l'altare furono una visione bianca e fredda, terrifica ed incompresa. Dalla sua cima la legge ruinò e si distese come un vento, che inclina tutte le piante e rugge agli angoli di tutti i tetti; sulla sua cima lo czar, fantasma sublime ed ignoto, aperse la mano a benedire come un pontefice e la strinse per brandire la spada come un imperatore: e d'allora la croce di Ivano il Grande sfolgorò contro la luna falcata di Maometto secondo, e la lotta fra la costellazione e il pianeta ricominciò più violenta ed implacabile.
Prevalse la croce, giacchè se una bufera d'inverno può prostrare le forze della primavera, questa non potrà mai prevalere contro la rigidità dell'inverno. Il Nord è invincibile nella sua corazza di ghiaccio, ma sarà sempre torbido nella sua aureola di neve. Impero vasto forse più che il romano, esso è un oceano di terra, nel quale qualche grossa città pare un'isola e qualche bella provincia un arcipelago: come il romano, racchiude molti popoli, ma in questo diverso, non ha nè detrito di civiltà, avanzi di religione o macerie di storie, colle quali covare una nuova èra mondiale. Cresciuto ai confini della vera Europa potè, esercitando una specie di contrabbando sulla frontiera, impadronirsi di qualche idea, ma la sua è una cultura artificiale, e prima che il sole la schiuda naturalmente sulla sua immensa superficie, dovranno passare altri secoli, nè forse il sole vi sarà mai caldo abbastanza. Se Pascal ha avuto torto affermando che la giurisprudenza varia coi gradi del meridiano, Bukle ha avuto ragione constatando che la civiltà è soggetta alle leggi del calorico, e non può salire al disopra di un certo grado di latitudine. Nullameno un fermento, ancora mal giudicato, fa oggi gonfiare la crosta di questo impero, che la geografia misurando ha trovato quasi pari al chinese, sebbene la statistica sommando lo trovasse di tanto inferiore; si direbbe che i suoi frequenti terremoti siano una palpitazione di vulcani i quali rompendo fra poco il loro fragile coperchio, lanceranno fino al cielo una spuma di lava e di fiamma. Lo squilibrio, che la differenza di popolo nella differenza di clima deve arrecare alla regolarità delle sue funzioni, e l'antagonismo tra la forma feudale della sua gerarchia e la forma democratica della sua cultura; la sua stessa estensione, per la quale la volontà della legge si rilassa inevitabilmente come una corda troppo lunga, e l'altezza inaccessibile del trono, che diventa così il centro misterioso di tutta la sua vita, ma il mistero responsabile di tutte le contraddizioni: forse la miseria della minoranza più spirituale colata sopra la povertà della maggioranza quasi bruta, come una putrefazione di germi precoci sopra un marciume di germi serotini; e forse una sofferenza, alla quale occorreva la uniformità di un tale impero per diventare più forte di lui, essendovi egualmente uniforme, hanno prodotto questo fermento sotterraneo per tutta la Russia, i terremoti che subissano la reggia non potendo rovesciare il trono, i vulcani che avventano bombe invece di lapilli, e questa rivolta, nella quale i ribelli hanno la terribile ubiquità dei fantasmi, e il motto della quale è il più incomprensibile nella storia, e il più assurdo nella vita — NIKIL —. Forse Napoleone portando inconsciamente la rivoluzione francese in tutta la Europa per stabilirvi il proprio impero, ve ne lasciò la semenza in quella orribile ritirata, l'ultima epopea dell'Occidente, che ha trovato un pittore ed aspetta ancora un poeta: forse l'impero russo vi perirà, e dai suoi frammenti, come da quello dell'impero romano, nasceranno tante nazioni. Ma a rovescio dell'altro, che aveva i nemici alla periferia, esso li ha al centro; quelli erano barbari e questi sono civili; i primi portavano un sangue giovane ad un cervello esausto, ad un cuore caduco; i secondi infonderanno idee mature ad un cervello adolescente, ad un cuore quasi animale.
E mentre nell'aria vibrano i fremiti della tempesta e la terra ti sussulta sotto i piedi, tu alzi appena il capo, e guardando al nord, ti stringi nelle spalle. Scettico, ma forte come un greco, tu sai che la vita è ancora più piccola che breve, che le tue pianure sono fertili, i tuoi cavalli veloci, i tuoi servi laboriosi. Sia che la croce e la mezzaluna si urtino un'altra volta sui tuoi campi, o una rivoluzione te ne cacci; che la tua provincia diventi un regno e il tuo villaggio una capitale, e lo schiavo di oggi si faccia padrone di domani, tu, greco, ammetti con Aristotile che vi saranno sempre degli schiavi, sai che la vita è breve, e la necessità del mietere non deriva dall'aver seminato, ma dal dover macinare. Uscito dalla società per rientrare nella natura colla stessa facilità, onde leggendo si passa da Swinburne ad Esiodo, tu vi hai recato la calma della ragione nella pace dell'istinto, la semplicità di un raffinato nella innocenza di un ignaro: e quando tutta l'Europa guarda verso l'America, tu, nipote di Colombo, hai guardato verso la Russia. Ora la tua vita chiusa entro la rivoluzione dell'anno agricolo non ha altra varietà che le stagioni, altro scopo che una messe, altro avvenire che questo scopo medesimo. La terra coltivata esprimerà il tuo pensiero, il benessere dei tuoi contadini attesterà il tuo piccolo regno. Così ispirandoti ad un verso di Virgilio, il tuo poeta antico prediletto, attui l'ultima scena del Faust, il tuo poema moderno preferito, ed immergendoti nella vegetazione di una terra vergine, purifichi il tuo spirito da tutte le malattie ereditarie delle nostre vecchie civiltà.
Ed ora che la natura ti ha reso straniero al mondo, esule, nobile e felice, non ti dolga se il migliore dei tuoi amici venga a parlarti di battaglie ideali, ostinandosi nella guerra, alla quale ti sei sempre rifiutato. Forse a qualche ora della notte o del meriggio, quando il tuo spirito riposa, un'immagine del mondo abbandonato ti sovviene ancora e svanisce; o nelle tue lunghe escursioni qualche fiore innominato o qualche canzone selvaggia ti hanno già ricordato i nostri fiori dal nome sapiente, le nostre romanze dal ritmo squisito. Che se migliaia di miglia ci allontanano e due mondi diversi ci separano, la nostra amicizia non ne sarà per questo meno intima, o il nostro commercio meno stretto. Gettati dalla natura nel medesimo stampo, e condannati dal destino alla medesima vita, sebbene tu abbia potuto eludere la condanna, ci saremo pur sempre presenti; e mentre tu mi troverai spesso a vagabondare pe' tuoi campi, io t'incontrerò sovente fra i miei libri, nella luce di un pensiero o nel sorriso di una frase, nell'ombra di un quadro o nelle pieghe di una statua.
Quando prima di partire per il tuo nuovo mondo mi scrivevi dissuadendomi da questa inutile e crucciosa guerra letteraria, le condizioni della nostra presente letteratura entravano forse per gran parte nel tuo saggio e malinconico consiglio. Se è sempre triste il nascere, vi sono epoche, nelle quali è tristissimo nascere uomo di pensiero o di azione.
Nei periodi di un fatto o d'un'idea ve ne sono alcuni che ci sollevano, altri che ci lasciano affondare, finchè un nuovo gettito sotterraneo non gonfi l'onda e l'innalzi fino al raggio del sole. La prima metà del nostro secolo fu per l'Italia una delle più belle fioriture d'ingegni, una delle messi più ricche di caratteri. La necessità sempre più crescente della rivoluzione metteva negli eletti della vita una vera forza di rappresentanza, che le finzioni parlamentari hanno poscia cercato inutilmente d'imitare, e che non raggiungeranno giammai. Ognuno di essi sentiva di riassumere qualche bisogno, o di esprimere un'idea nazionale; quindi molti furono i grandi, moltissimi gli illustri. Come se l'Italia volesse conquistarsi l'ammirazione dell'Europa per strapparle in un applauso il permesso di risuscitare, profuse i pensatori e gli artisti, i martiri e gli eroi; laonde dopo la rivolta del '31, esplose la insurrezione del '48, scoppiò la rivoluzione del '59. L'epopea fu così meravigliosa, che parve un miracolo, e resterà una favola; ma nessuno ha ancora osato fare il computo di tutti i sacrifici, che vi contribuirono, di tutti gli ingegni, che vi cooperarono. Vi furono libri che valsero battaglie, battaglie che nessun libro saprà mai narrare: si udirono motti che erano poemi, si fecero poemi, dei quali nemmeno un motto fu scritto. Accanto ai colossi del pensiero si drizzarono i giganti dell'azione, le corone dell'alloro furono posposte alle ghirlande del martirio, il sangue fu scialacquato come il danaro, le parole ebbero efficacia di fatti, i fatti prontezza di parole. E il sogno colorato dalla luce di tante fantasie si solidificò, come per incanto, sotto lo sforzo di tutte le volontà, mentre l'Europa guardava attonita dalle Alpi, e Roma si levava trasognata sul Tevere. Ma appena compiuto il prodigio, tutti si mirarono in faccia e nessuno più si riconobbe; quasi tutti i caratteri si ritirarono, quasi tutti gl'ingegni rimasero; gli eroi diventarono militari, i martiri si cangiarono in impiegati. L'epopea finiva fatalmente alla commedia, dacchè l'idea si era tradotta nel fatto, e il sentimento si riabbassava verso il senso. Era una legge della vita e della storia. Ma allora quelli, che avevano fatto l'Italia, cominciarono a sentirsi vecchi e ad essere riconosciuti per tali dai sorvenienti, leggeri e rapaci come tutti i saccomanni dopo la battaglia: l'arte e la filosofia, la politica e la milizia trionfanti non piacquero più, e si chiese del nuovo. L'ingegno, che si era manifestato così splendidamente nei padri, i figli se lo supposero volentieri, e guardando ai rivali d'oltr'alpe, si accinsero a sorpassarli nelle opere, come li avevano raggiunti nella vita. Ma la nazione aveva esaurito creandosi forse l'ingegno di due età, e i novatori d'Italia diventarono i plagiarii dello straniero. La generazione del '49 mancò nella storia del nostro pensiero. Fortunatamente l'ombra del monumento eretto sul suo confine lo nascose, e i posteri non s'accorgeranno forse della lacuna. Ma poichè l'impotenza rende malvagi e il sacrifizio ingrati, i nuovi scrittori risero dei vecchi, Guerrazzi fu troppo asmatico, Manzoni troppo cristiano, Niccolini troppo rettorico, Leopardi troppo classico. Il dualismo fra la scuola toscana e la scuola lombarda divenne scisma, e le eresie avvamparono nelle sue polemiche. Intanto nessun nuovo campione discendeva bene in armi nell'agone a percuotere sugli scudi dei vecchi tenitori di campo. Qualche paggio faceva bensì prova di destrezza giocarellando con una mazza, o un catafratto, chiuso nell'armatura pesante della erudizione, si pavoneggiava tutto solo; o un cavaliero, montato sopra un magro cavallo, tentava un giro al galoppo e, cascando ai primi passi col cavallo sul petto, giaceva. Finchè i tenitori di campo rimasero, malgrado le vanterie dei torneadori e le grida della folla, non vi fu nemmeno un duello, ma uno ad uno quegli scudi terribili furono levati. Sul primo c'era scritto Arnaldo da Brescia, sul secondo Assedio di Firenze, sul terzo Promessi Sposi. Uno solo, toscano alla parola, vestito classicamente, con un elmo tedesco sulla testa, aveva osato farsi largo fra la ressa e percuotere sprezzantemente col proprio scudo, nel quale era scolpito un Satana, sullo scudo di Manzoni. Se non che uno scudiero, dal volto smorto e gli occhi rossi, veniva in quello stesso momento a levare lo scudo glorioso: il vecchio guerriero era morto senza sapere della sfida. L'audace aveva troppo tardato.
Quindi egli rimase solo, e fu primo.
Ma questo illustre, per il quale ogni aggettivo comincia oggi a parer piccolo, e che seguaci fanatici invocano col nome ridicolo di pontefice, si era faticosamente educato alla stessa scuola degli antichi, fra le ombre incappucciate del primo rinascimento. I suoi giovani canti erano sembrati echi di perdute ballate; poi la rivoluzione, strappandolo a quei sogni toscani, gli aveva insegnato, coll'eroico linguaggio dei fatti, nuovi ritmi e nuove parole. Nullameno ignorato od incompreso per molti anni, invece di capitanare il nuovo movimento, parve ne continuasse un altro; mentre i giovani volontarii della letteratura, che avevano forse lasciato allora le bandiere del Garibaldi, ne cercavano un altro egualmente splendido, ma altrettanto facile. Invece il nuovo duce, che varcate le Alpi scrutava in quel momento per la Germania, preludendo alle teoriche ed ai trionfi di Moltke, affermava la necessità di una profonda dottrina per ogni ordine di milizie, e di una grande tradizione per una grande arte. Naturalmente i giovani volontari non intesero, o sdegnarono, e l'austero superbo rimase senza esercito.
Intanto due capitani di ventura levavano il campo a rumore: uno era vestito da bardo, l'altro da menestrello. Il primo coi panni sciattati, un mantello reale, ricamato di perle e schizzato di fango neglicentemente gettato sulle spalle, coi capelli che gli svolazzavano da un elmo fantastico, si abbandonava alla stupenda dolcezza del proprio canto, e cantava di tutto. Aveva la voce maschia e molle, le note piene, le cadenze quasi sempre leziose: ma le canzoni salivano dalle sue labbra con un volo inesauribile di insetti in un raggio di sole, e la sua fronte, sulla quale le visioni passavano come le nuvole in cielo, aveva una ineffabile espressione di malinconia. Bardo e capitano fu troppo l'uno per poter essere l'altro, nobile e bello non cercò d'ingrossare il proprio seguito, e procedette combattendo e cantando come un eroe di Ossian. La gente lo chiamava Prati, i giovani imparavano le sue canzoni, i critici insultavano il poeta e la sua poesia. L'altro menestrello era una figura femminea. Portava le scarpette scollate, le calze di seta, il giustacuore a sbuffi con un cuore, trafitto da una freccia d'oro, ricamato sul petto, e un berrettino con due penne di airone, che gli ricadevano sui ricci profumati della capigliatura. I suoi occhi avevano il languore spasimante di un paggio, le sue dita erano cerchiate di anelli come quelle della sua dama; e toccando il mandolino con una grazia piena di civetteria si avanzava occhieggiando ai balconi. Un giorno, da una finestra inghirlandata di vasi, una mano bianca gli aveva gettato un mazzo di viole, ed egli le portò sempre sul petto. Quelle viole diventarono la sua poesia, il loro profumo fu tutto il suo pensiero, ed il suo sentimento. La gente lo chiamava Aleardi, le donne cantavano le sue romanze, i critici basivano di ammirazione in faccia alla sua poesia ed al poeta.
Ma dietro loro, nel corteo variopinto, più di una figura e di una testa avrebbero dovuto attirare l'attenzione. Due vecchi, Mamiani e Tommaseo, dalla fronte alta e serena, procedevano a braccetto dietro la medesima idea e la medesima musa: il primo aveva pur trovato qualche canto, oggi perduto, e che sarà forse rintracciato fra un secolo; il secondo aveva dato il volo a qualche inno, che pochi avevano letto, ma che molti avevano ammirato, come un anello, che tentava di congiungere filosofia e religione, la tradizione dell'arte antica col sentimento dell'arte moderna. Però l'Uberti, malgrado i grandi sforzi, non potè uscire dal manipolo tumultuoso dei Tirtei da bivacco, i quali seguitavano le loro storpie canzoni senza l'accompagnamento delle fanfare ed il rullo dei tamburi: e quindi un levita ed un alfiere, irrompendo dalle file, parvero raggiungere per un momento i due acclamati capitani. Il primo era Zanella, il secondo Praga: questi morendo nominò eredi lo Stecchetti ed il Boito, all'uno lasciando la sensualità famigliare, all'altro la stramberia immaginosa. Zanella invecchiando sentì morirsi intorno quasi tutte le proprie poesie. Eppure pensatore modesto aveva avuto qualche nuovo ed elevato pensiero, cesellatore paziente aveva dato a qualche strofa la solida eleganza di un bronzo, la finitezza squisita di una orificeria. L'altro fu più una poesia che un poeta. Il tremito convulso della mano gli guastò quasi sempre il disegno, o gli intorbidò il colore, mentre il suo pensiero, che avrebbe avuto la grazia della leggerezza, prendeva volentieri la goffaggine della gravità; e la pretensione dell'orgoglio falsificava l'ingenua violenza o la mollezza nervosa del suo sentimento. Nullameno egli fu nuovo, e più semplice sarebbe stato originale.
Intanto Rovani, discendendo la parabola luminosa dei suoi Cento Anni, arrivava fatalmente alla Giovinezza di Cesare, abbandonato da Tarchetti e da Nievo, che gli si erano serrati attorno per un momento. Ambedue erano morti presto, ambedue prima di spegnersi ebbero o parvero avere un'ora di astro. Forse il raggio della pietà accresceva la luce della loro gloria, e la morte incontrata all'avanguardia parve al resto dell'esercito un segno di vittoria. Il primo scrisse perchè sentì, ed il suo stile peccò come il suo sentimento; il secondo pensò e sentì ciò che scrisse, ed il suo stile avrebbe forse potuto mantenere ciò che aveva promesso. Tarchetti è diventato un martire nel martirologio della boemia, Nievo è dimenticato persino dai cronisti dell'arte. E mentre il romanzo si contorceva nella culla, il dramma e la commedia si contorcevano nell'agonia. Giacometti, ingegno vasto, ma corroso dalla rettorica, aveva ceduto il campo ai sorvenienti: Cicconi, sbocciato e caduto come un fiore, non aveva lasciato dietro sè che alcune foglie secche: Gherardi del Testa tentava ancora di celiare: Ferrari costruiva impalcature, per le quali i personaggi salivano come manovali, la schiena carica di tanti frammenti di una tesi: Torelli, un novizio, che alla prima prova era parso un maestro, ridiventava mano mano uno scolaro; Marenco imperversando pestava idillio e tragedia; Bersezio credendo di dipingere qualche scena non si accorgeva di pitturare appena una quinta, e il nostro teatro italiano era sempre uno scalo dell'arte francese. Però la sua illusione abbacinava il pubblico, che intronato dai critici gazzettieri, cominciava a credere nella nuova arte.
Allora due nuovi scrittori comparvero nell'arringo: un bozzettista, che si fece poi viaggiatore: un novelliere, che salì fino al romanzo, De Amicis e Verga. Al primo salto oltrepassarono tutti e nessuno li ha ancora sorpassati. Quegli s'impossessò della fibra scossa dall'Aleardi, ed ottenne un secondo trionfo di lagrime. Soldato formò dei soldatini di piombo per il pubblico, che ne impazzì, perchè piangevano senza perdere la vernice: li depose nel proprio libro come dentro a una scatola, e il libro diventò una strenna. Tutti vollero averlo, la bottega dell'editore fu messa a ruba. Ma nessuno di quei soldati era dell'esercito che aveva fatto l'Italia, nessuno aveva la fibra dei veterani del trentuno, nessuno l'impeto lirico dei ribelli del quarantotto, nessuno il sentimento epico dei volontari del cinquantanove. Invano Garibaldi aveva difeso Roma da tutta l'Europa, invano Lamarmora più tardi aveva salvata la medesima Europa alla Cernaia, e le aveva per prezzo del servizio dimandato l'Italia; invano tutti i villaggi erano clamorosi di soldati e di racconti guerreschi, gli eroi ed i martiri caldi di entusiasmo e di ferite: De Amicis invece di vedere e di ascoltare, aveva monturato i versi dell'Aleardi, e ne avea fatti tanti soldati. Nullameno i paesaggi salvarono le figure dei quadri, e la madre del figlio fu la più nobile e fortunata risorsa dello scrittore. Verga più coraggioso e più acuto sfiorò appena l'idillio e cercò il dramma. I suoi primi libri furono più un ricordo che una scoperta, ma imitando gli altri finì per trovare se stesso; e oggi, dopo un raccoglimento di qualche anno, ricompare più severo e più italiano, mentre Fogazzaro tenta di oscurarlo colla sua Malombra, Faldella vezzeggia ancora nei racconti, Barrili trova lettori per le proprie immutabili favole, orlate della stessa immutabile frangia di riflessioni; Capuana ne cerca per i suoi nuovi e piccoli esperimenti naturalisti, e il Pratesi quasi ignorato ne merita.
Che se il romanzo aspetta ancora il proprio grand'uomo, il teatro ieri ha perduto uno dei suoi migliori, che molti credevano tale, Cossa è morto improvvisamente. I suoi primi saggi passarono inosservati, poi diede il Nerone, e l'Italia che giustamente si era appena voltata all'Arduino del Morelli, ed avrebbe dovuto voltarsi al San Paolo del Gazzoletti, svenne quasi d'entusiasmo davanti a questo capolavoro di una sera. I critici da giornale unirono in coro teorie ed applausi; si parlò di arte nuova, di uomini, che sulla scena venivano dopo tanti secoli a sostituire i personaggi, di una storia e di una vita, che uscirebbero rinnovellate da quest'arte. I drammi successivi, per quanto poveri, non valsero a smagare queste promesse, alle quali il poeta nella sua contegnosa modestia non aveva forse mai pensato, e il nome e l'arte del Cossa invasero pubblico e scena. Ingegno lirico senza profondità di sentimento nè elevatezza di pensiero, invece di concepire un dramma trovò spesso una scena, ve ne mise altre intorno, e lo fece; ma sempre lirico ripetè le stesse figure o le stesse idee, sostituendo una stampiglia ad un'altra, applicando alla storia la piccola pittura di genere invece della grande pittura accademica. Se non che a forza di impicciolire i personaggi, li fece quasi passare per uomini e credere vivi, benchè campati nel vuoto e moventisi per una scena, nella quale l'impero romano, reso con un processo di decalcomania, aveva appena il valore di una ornamentazione da piatti. Come tutti i piccoli, che la piccolezza inconsapevole rende temerari, affrontò tutte le epoche, si attaccò a tutti i colossi, Mario e Nerone, Cleopatra e Messalina, Beethoven e Ariosto, Giuliano l'Apostata e il Duca Valentino, alla repubblica di Rienzi e a quella di Cirillo, mettendo sempre un'epoca intorno ad un individuo, come si mette la paglia attorno ad un bicchiere, perchè non si rompa; poeta senza verso, dopo che Foscolo e Manzoni avevano scritto i versi dell'Aiace e dell'Adelchi; drammaturgo senza potenza di evocazione; artista, che del teatro aveva imparato la decorazione ed il macchinismo. Non avendo fiato per le tragedie, credette di salvarsi chiamando drammi le proprie, ma in questi drammi, ai quali la volgarità della forma avrebbe pur sempre conteso l'esistenza, non seppe convenire le vere fisonomie tragiche, le fatalità psicologiche o storiche, da cui solamente il dramma si forma. Ma il pubblico ristufo dei gentiluomini apocrifi del Ferrari si apprese ai romani falsi del Cossa, e contrapponendo per un istante l'uno all'altro i due scrittori, li riunì come due amici nel medesimo applauso. La fortuna di questi romani usuali ne attirò altri: drammi e romanzi pullularono. Tito Vezio e Spartaco tornarono col Castellazzo e col Giovagnoli per mettersi il nostro sentimento moderno sotto la loro tunica antica. Cavallotti, condannato dal destino alla rivolta in politica ed alla imitazione in arte, per essere originale seguendo il Cossa, andò in Grecia; ed egli, il poeta più sgraziato nella forma, rappresentò il popolo più poetico della terra: non pensando che scrivere una tragedia greca dopo Eschilo era una follia, e bisognava chiamarsi Shakespeare o Goethe, perchè la follia potesse essere genio; dopo Sofocle era un'imprudenza e bisognava essere un poeta come Foscolo, perchè la profonda umanità del sentimento e la irresistibile bellezza del verso la facessero perdonare. Ed invece parmi che a Milano l'Aiace fosse fischiato la prima volta. Col Cavallotti si unì il Salmini, ingegno rozzo, ma più forte; artista forse altrettanto scomposto, ma più serio. Ed ora è morto egli pure. Poi fra tutti questi rantoli di tragedie il Giacosa mise il riso gaio di una fiaba, che per un'ora trionfò di tutto e di tutti; senonchè temperamento delicato e spirito fine, salito trionfalmente dalla leggenda medioevale alla commedia goldoniana, volle essere tragico, come i tragici, che aveva quasi fatto dimenticare, ed allora il vincitore fu vinto. Ma col Giacosa avevano già preluso il Martini ed il De Renzis tentando i proverbi; però, se il primo valeva infinitamente più del secondo, nessuno dei due ricordò nemmeno da lungi il Marivaux o il Musset: invece di cammei fecero delle stampe, non furono abbastanza poeti per avere le perle, abbastanza orefici per saperle legare. Quindi il Martini arrischiò il racconto, e piacque; il De Renzis pretese al romanzo, e decadde.
E in questa catena di opere e di scrittori, che doveva legare il teatro italiano moderno al teatro italiano antico, che l'Italia non ha mai veramente avuto malgrado il Goldoni; nella quale Cossa colava il il bronzo delle statue antiche, Ferrari la ghisa dei mascheroni moderni, l'ultimo anello fu il solo, che non si rompesse sotto lo sforzo della critica. Il teatro popolare, che colle radici piantate nel cuore del popolo, fuori di ogni abitudine classica, prosperava più forse per un rigoglio di natura, che per una coscienza artistica, trovò nel Gallina il proprio instauratore. Il quale, giovandosi col tristo esempio del Torelli, che aveva fatto accettare sulla scena il proprio dialetto italiano, v'impose il vernacolo di Goldoni; il pubblico accorse, applaudì, non osò sentenziare fra questo principiante e i decani, fra quest'arte fresca e quell'arte decrepita, ma l'incertezza del pubblico fu il maggiore dei trionfi, giacchè per la prima volta il pubblico si trovava in faccia a del nuovo. Gallina aveva vinto, il teatro era nato: ma siccome i bambini non divertono che per una mezz'ora, quelle sue commedie, penetranti come un vagito e graziose come un sorriso, non potevano, e non possono bastare alla vita di un teatro.
Nè questa guerra nell'arte fu solo di uomini, chè sull'orme di Sara e di Ouida, due inglesi della colonia italiana, molte donne, che l'esempio della principessa Trivulzio ed il più alto ancora della Lorenzi non aveva scosso, entrarono in lizza. Ma siccome le donne, che pensano, sono una rarità nel loro sesso; così le donne, che scrivono, debbono avere il valore di una grande eccezione nel nostro: una scrittrice o è molto o è nulla; le nostre non furono che troppe. In un secolo, al quale la Stäel apre la soglia, George Sand illumina il meriggio, Giorgio Eliot rinchiude le porte del sepolcro, la donna che vuol perdere il proprio sesso, facendosi scrittrice, deve barattarlo con un'immensa gloria sotto pena di fare un contratto altrettanto dannoso che ridicolo. Certamente il pensiero non ha sesso, ma la sua è una fatica talmente maschia, che le donne non possono sopportarla, o sopportandola, vi si snaturano.
Ed ecco l'arte dell'Italia fatta dirimpetto all'arte, che ha fatto l'Italia.
Che cosa è il Nerone in faccia all'Adelchi? l'Arduino di Ivrea in faccia all'Arnaldo da Brescia? Che cosa sono i Rossi ed i Neri del Barrili in faccia all'Assedio di Firenze? Una volta i filosofi italiani si chiamavano Rosmini, Gioberti, Romagnosi: l'ultimo scolaro di quest'ultimo, grande quanto il maestro, il Ferrari, è morto ieri, e nessuno se ne è avveduto. Come si chiamano oggi i filosofi d'Italia? Ho letto Vera, e l'enormità di Hegel mi ha ispirato una calda ammirazione per l'interpetre; Ausonio Franchi, che Michelet battezzò il primo logico del secolo, si è ritirato dalla lotta; Augusto Conti, sentimento greve e ragione leggera, scema l'imponenza dell'autorità e il prestigio della poesia alla vecchia causa, che difende: Ardigò applica a se stesso la teorica della evoluzione, e di canonico si trasforma in ateo; Bovio, una nebulosa nella scuola, è diventato una nebbia nel Parlamento. E gli altri? Messedaglia e Correnti hanno trovato per la loro scienza una delle prose più belle del tempo; il Villari, spirito saldo ed acuto, preludia vigorosamente nella critica e nella storia; il padre Tosti mantiene il magnifico stile italiano di una volta, l'abate Fornari incolla l'abate Cesari sull'abate Gioberti, il Minghetti risente del Costa, il Tabarrini unisce al profumo dell'eleganza antica i sentori della vita moderna, il Bonghi, mente vasta e profonda, prodiga osservazioni e consigli talmente buoni, che nemmeno egli stesso sa praticare. Chi dunque alza una bandiera, la quale raccogliendo tutti gli sparsi manipoli, rannodi un esercito? Dov'è la lingua vera? quale è lo stile vivo? Manzoni prima di morire si abboccò col Bonghi su questo: che ne decisero dunque? Chi ha ragione, la piazza o la scuola, la tradizione o la vita? Certo col linguaggio della scuola non si può esprimere tutto, ma col linguaggio della piazza è altrettanto certo che non si è intesi da tutti. E non per tanto lo stile è tutta l'arte, perchè in pari tempo parola e frase, colore e disegno, ombra e luce, forma e sostanza. Quale oggi di tutti questi giovani ribelli, che disprezzano il passato e i passati, scrive una pagina come alcune del Tommaseo, o detta solamente un periodo, che si riconosca fra centomila, e sia forse il più bello, come uno qualunque del Mazzini? Profeta, apostolo e condottiero, la missione e l'epopea della sua vita gli contesero di essere forse dei primissimi fra gli scrittori del secolo, e non per tanto d'Italia fu il più nuovo ed il migliore. Immaginoso come il Niccolini ebbe il calore del Guerrazzi, colla fluidità del Manzoni e la precisione del Tommaseo: italiano dei tempi futuri, sarebbe parso un contemporaneo agli italiani del secolo d'oro, e nullameno le sue erano idee, alle quali egli primo aveva dovuto trovare una formula italiana. Filosofo etico come Socrate, non entra e non entrerà nella storia della filosofia del nostro secolo, che si inizia con Kant, sale fino ad Hegel, ridiscende fino a Spencer; ma se in lui la elevazione del sentimento superò quasi sempre l'altezza del pensiero, la perfezione del suo linguaggio ispirerà sempre una ammirazione malinconica, come se nella fiamma dello stile, col quale doveva riscaldare tutto un popolo, egli gettasse, sacrificatore disperato, colla sua vita di uomo la sua immortalità di artista. Ed oggi il Saffi, modesto Aronne di questo Mosè, che ha potuto morire nella terra promessa, conserva tuttavia nella devota interpetrazione del recente evangelo un raggio di quella purezza, che l'anima sembra comunicare alla parola, un residuo di quella efficacia nella frase, che il maestro gli apprese scaturire dalla sincerità del pensiero e dalla rettitudine della intenzione. Mazziniano meno ligio alla nuova legge, ma che pagò col proprio esilio e col sangue dell'eroico fratello la fede all'Italia, Giovanni Ruffini, del quale i giornali recano oggi la mesta notizia della morte, dovette farsi inglese per vivere del proprio ingegno e della propria gloria. La patria ingrata non lo conobbe che tardi, e non mandò nessuna rappresentanza ai suoi funerali. Scrittore del tempo eroico, quando lo scrivere era un combattere, egli parve dopo artista altrettanto fine, ma la sua arte, sempre mazziniana d'ispirazione, rimase ottimista, difendesse l'Italia o un'idea, sognasse una patria od una virtù. E nullameno fu posposto al D'Azeglio ed al Grossi, pei quali vi furono monumenti, oggi già più vecchi dei loro libri già morti. L'Ettore Fieramosca ed il Marco Visconti contemporanei del Dottor Antonio destarono un entusiasmo, che dura tuttavia in rispetto, malgrado che il primo fosse una degenerazione dei poemi guerrazziani, e il secondo rappresentasse la putrefazione del genere Walter Scott, che Manzoni, con uno sforzo allora incompreso e adesso ancora quasi incomprensibile, aveva alzato quasi sino alla maniera del Balzac. Ed oggi, che i violenti attacchi del Carducci alla lirica manzoniana hanno quasi reso di moda il disprezzo del grande poeta e romanziere, che fu naturalista, per usare questa nuova parola, quando solo Balzac lo era senza teorizzarne, e Zola sognava forse nell'utero materno, si osano citare a modelli il D'Azeglio ed il Grossi, la nullità del pensiero ed il lattime del sentimento: dai quali derivò la teorica dei buoni libri, eretta a dogma dai manzoniani. Per essa la moralità privata deve valere l'ingegno pubblico dell'autore, e la misericordia delle intenzioni ogni altra qualità di fantasia e di sentimento, di forma e di sostanza. Così la critica minuscola, ridotta dai giornali a sacerdozio come l'arte, crea e distrugge le effimere riputazioni sui giornali sbocciati. La grande critica tace: Settembrini, temperamento storico ed ingegno sistematico, è morto: il De Sanctis, temperamento poetico ed ingegno filosofico, dopo aver messo la psicologia a base della critica, sostituì troppo spesso la intuizione all'analisi; quindi i suoi ritratti diventarono teste, e le pretese lezioni di anatomia si cangiarono troppo sovente in speculazioni metafisiche, nelle quali il tempo storico era appena un colore, e il simbolismo dell'idea toglieva quasi ogni significato alla varia composizione umana dell'individuo. Il Carducci, lirico ed erudito, volle essere critico, e lo fu splendido e forte come in tutto ciò, che ottiene sempre dalla sua volontà. Forse se non il genio, poichè dei primi fra i primi del mondo, egli ha comune nel secolo col Balzac la nobile ed incalcolabile energia della volontà, colla quale coltivando instancabilmente il proprio terreno è arrivato a farne un ricco giardino, sebbene la sua flora originaria non fosse nè troppo varia, nè molto opulenta. Ma egli vi trasse semi da tutti i climi, le palme dell'Africa e gli abeti della Germania, le rose della Grecia ed i gazuma dell'America; vi educò la vite colla stessa perfezione dei vignaiuoli francesi, amò l'edera e si compiacque ad incoronarne le vecchie statue dissepolte, colle quali andava ornando i viali. Ma nella critica preferì la necroscopia alla diagnostica, i morti ai vivi, simile in questo al D'Ancona, che spinse la passione dell'anticaglia fino alla ghiottornia dei più minuti particolari, sprecando non si sa se più ingegno o dottrina; mentre il Zendrini, morto da poco, scambiava la propria cultura per una capacità critica, e il Massarani sdottrineggia ancora pigliando l'arte per la riprova di una teoria morale, piuttosto che per una totale rappresentazione della vita: il Trezza svapora in una fraseologia nebbiosa, il Franchetti nell'Antologia oscilla fra il buon senso ed il buon gusto, il Nencioni in articoli brevi e talvolta bulinati corregge l'influsso delle letterature straniere sulla nostra, analizzando gli esempi che la più parte invocano senza conoscere. Così, mentre la critica diventata embriologia nel Bartoli studia con amore sapiente le origini della nostra letteratura, e falsa o sdegna l'opera contemporanea, il verso che tubava ieri coll'Aleardi, zirla adesso col Fontana, parla collo Stecchetti, sorride col Panzacchi, stuona col Rapisardi, abbaia col Cavallotti, novella col Giacosa, si libra col Zanella, esulta ancora col Prati, crea col Carducci. Questi risuscita miracolosamente gli antichi metri latini, e vince nella prosodia una battaglia combattuta infelicemente da altri ingegni in altri secoli, ma il pubblico applaude senza gustare: Rapisardi, invidioso della risurrezione, profana il sepolcro dell'epopea, e ne trascina sulla piazza il cadavere purulento. Quando alla vita scema lo splendore manca il rispetto alla morte: i forti sono prudenti, i deboli sfacciati. E tra il Carducci e il Rapisardi, un poeta ed un ingegno, Renato Fucini è ancora l'uno e l'altro, sebbene il Porta gli sia ancora troppo al disopra e il Belli ancora molto innanzi. Ma primo fra i nostri lirici viventi, il Carducci pretende di essere l'ultimo nella storia e nella nostra lirica, poichè essa muoia: e già la musica, questa lirica della lirica, agonizza. Verdi, il superstite dell'immortale quadriglia, ricorregge colla mano tremula le opere della giovinezza, come un vecchio capitano ama di riforbire egli stesso la spada, che non può più cingere: il Boito ha impiegato dieci anni a scrivere il Mefistofele e riposa sugli allori guadagnati contro il Gounod: il Gobatti, giovane e fortunato condottiero dei Goti, ha d'uopo ancora di nuove battaglie e di nuovi trionfi. La musica classica è quasi obliata malgrado il valore dei suoi tre ultimi campioni, lo Sgambati, il Bazzini, il Rinaldi; nella piccola musica si adora il Tosti, e si misconosce il Gordigiani, si chiedono romanze da salone, le quali girino sulle casse dei pianoforti come tanti scarabei luminosi, invece di libellule, che balzino nei raggi del sole e vi scintillino. Così il canarino vince l'usignolo, e il profumo dei fazzoletti copre l'olezzo dei fiori.
Ed ecco l'arte dell'Italia fatta alla sbarra del mondo e della storia.
Certo la grande questione pregiudiziale della lingua ha efficacemente contribuito alla attuale miseria, epperò sorvolandola, penso collo Zola, che la nuova lingua dovrà uscire dalla officina del giornale, se nella scuola la tradizione contende il passo alla vita. Naturalmente occorrerà un lungo processo, ma diggià sull'incudine dell'articolo quotidiano qualche lamina viene superbamente battuta. La necessità di trovare un nome per ogni nuovo oggetto ed una formula per ogni nuova idea, egualmente compresa da tutti con uguale prontezza, ma specialmente uno stile agile e nervoso, elegante nella semplicità della eleganza moderna, colla fluidezza di un discorso e la correzione di un testo, predomina il giornale. Fiume e cloaca, che raccoglie ogni rivo e ogni scolo, come l'orchestra sognata da Berlioz, ha tutti gli strumenti e tutte le voci; effimero ed immortale come la vita, ne ha la stessa unità multiforme; è la forza più grande del nostro secolo, e ne sarà la gloria. Il giornale è essenzialmente moderno. La lingua, che in fondo non è se non un dialetto epurato, vi è in continua fusione; le parole vi si rompono e vi si formano fra un rombo assordante, un lavoro minuscolo ed assiduo, al quale cooperano migliaia di operai senza nome, mentre pochi direttori si aggirano fra di loro, sorvegliando con orgoglio di padroni. Molti articoli, che oggi si leggono già negligentemente, avrebbero fatto strabiliare inserti nelle pagine di un libro di trent'anni fa. Nullameno pochi sono ancora coloro, ai quali si possa riconoscere il merito vero di stilisti, sebbene, come osserva giustamente il Martini, il miglioramento nello scrivere comune italiano cominci ad essere sensibile. Tra i primi il Martini stesso, il De Zerbi, il Panzacchi, diversi di opinione e di indole; il primo forse ancora troppo toscano, il secondo ancora scorretto, il terzo italiano veramente, più fino di gusto e più forte di studi. Ingegno alato si posò dappertutto per involarsi appena posatosi; nato oratore come pochi, poeta che potrebbe tradurre nel verso più di una musica gentile, mentre tutti gli storpiano in musica le sue delicate romanze; critico, pel quale nessuna musica ha molti misteri, quella dei colori e delle note, della poesia e della prosa. Egli è celebre ed avrebbe potuto essere glorioso, se la pagana serenità del suo spirito, e l'ateniese indolenza del suo temperamento fosse stata guasta da un solo vizio: la vanità. Intorno ad essi altri molti vanno sorgendo, ma parlando di stilisti non posso citare nè il Ferrigni, nè il Petruccelli della Gattina. Il primo, costretto ad una moltiplicazione miracolosa di articoli, si sorregge collo spirito, come gli operai estenuati si rinforzano coi liquori; il secondo discende ancora nel giornale, come in un campo chiuso, a commettervi qualche prodezza colla vanteria di un vecchio giostratore. Pensatore senza sistema, dialettico senza metodo, artista senza forma, egli ha reso quasi cosmopolita il proprio ingegno: conosce tutte le lingue, meno l'italiana, ha difeso tutte le idee ed abbandonate tutte le opinioni. Ma la sua fibra, che nè gli anni, nè le apoplessie poterono fiaccare, è ancora della vecchia razza, che ha fatto l'Italia. Quando Petruccelli della Gattina sarà morto, nessuno si accorgerà della sua perdita, nullameno di tutti i giovani, oggi illustri, che piglieranno il suo posto senza dirlo, nessuno vi porterà la stessa ricchezza di cognizioni ed altrettanta forza d'ingegno.
E scioccamente i giovani letterati si lagnano ora della loro fortuna nel popolo, giacchè la sorte non fu mai più lieta ai novizi. Quelli che battono il teatro si dolgono perchè la società non abbia ben contornata la propria fisonomia come in Francia, dove il salone uniforma costumi e linguaggio, quasichè la società dovesse esistere per l'arte, e non questa per quella; mentre nella stessa Francia i grandi scrittori, da Balzac a George Sand, da Zola a Flaubert, cercarono i loro modelli fuori dell'ambiente falso del salone, falsato ancora peggio dal Dumas e dal Feuillet. Tutti gli altri del romanzo e del melodramma, del canzoniere e della tragedia guaiscono sulla indifferenza crudele del pubblico, mentre questi, che teme istintivamente la miseria della nostra arte, ne ricusa la coscienza, ed è pronto ad acclamare delirando ogni più vaga apparenza di grandezza. Applaude ancora al Ferrari: per dieci anni ha messo Cossa sugli altari, ed oggi paga una sottoscrizione per erigergli un monumento; si sollevò come un sol uomo alla marcia trionfale dei Goti, ha imparato a mente tutte le canzoni dello Stecchetti, batte perfino le mani ai greci di Cavallotti. Giammai vi fu epoca nella quale la celebrità fosse più pronta, e la gloria più facile. Tutti i grandi sono morti, tutti i seggi sono vuoti. Lo Stecchetti oggi è a fianco del Carducci, come il Leopardi trenta anni or sono era a fianco del Manzoni. Che se malgrado queste eccellenti disposizioni, cui la storia dovrà un giorno trovare piuttosto ridicole, nessun nuovo nome sorge dalla folla, si è che nessuno arriva nemmeno ad essere la larva di uno scrittore; e quando non si tocca la vita è più spregevole che pietoso il lagnarsi della immortalità. Muoia domani il Carducci, e dovremo per decoro di patria augurarci che le Alpi, le quali non poterono mai trattenere gl'invasori, trattengano la nostra letteratura dal commercio europeo. Che avrebbero dunque esclamato questi pigmei, i quali implorano istantemente il pubblico di farli grandi, poichè la natura non volle, se invece di capitare oggi, che il minimo della statura nella leva è diventato il massimo della statura nell'arte, fossero nati ottanta anni or sono fra i colossi, che hanno fatto l'Italia, ed ella avesse detto loro, come disse a Rossini, a Leopardi, a Manzoni: siate la mia gloria in Europa, poichè io debbo con questa ricomprarmi la libertà; mentre la Francia aveva Balzac e Hugo, la Germania Gian Paolo Richter ed Heine, l'Inghilterra Dikens e Thakeray, la Polonia Mickiewitz, la Russia Gogol e Puskin, l'America Pöe e Longfellow?
Se domani avremo una guerra, Cavallotti potrà essere il Petöfi, come lo è stato il Berchet? Non sanno dunque costoro, che dopo la Grecia l'Italia è artisticamente la più grande nazione, che l'Europa è il continente più piccolo per la geografia, ma il più grande per la storia, che l'America passa già dall'industria all'arte attraverso la scienza, e che per rappresentare il pensiero di un popolo anche in un solo e nel più piccolo dei momenti, bisogna essere ben grande, e quando non si ha questo onore doloroso non bisogna commettere la sciocchezza di augurarselo, o peggio la viltà di mentirlo? Quando Castelar combattendo la elezione di Amedeo di Savoia a re di Spagna opponeva la storia spagnuola alla nostra, conchiudendo ad ogni periodo del discorso col pesante ritornello: siete piccoli! aveva torto; ma noi eredi di una rivoluzione, che non avremmo mai saputo compiere, possiamo e dobbiamo ripetercelo amaramente sul volto, perchè la prima speranza di un risorgimento sta nella coscienza della propria prostrazione.
E ora che la natura ti ha ripreso dalla società, e il vento della steppa t'invola ad uno ad uno i ricordi d'Italia, t'immagini tu come sia la nostra coscienza nazionale? Mentre Garibaldi è ancor vivo crederai che in noi sia spento il senso epico della nostra rivoluzione? Nullameno, sventura od infamia, è vero. Quando Vittorio Emanuele morì all'improvviso, parve che il cuore della nazione desse un balzo, e da tutte le labbra rompesse un tremendo singulto: egli era l'Agamennone della nostra Iliade, il simbolo più sintetico della nostra idea. L'individuo non montava, e fosse stato pur pazzo, nullo come suo nonno, o inferiore come suo padre, poichè con lui si era trionfato e in lui s'incontravano la tradizione romana e l'italiana, il concetto dei pensatori e la visione dei poeti: poichè aveva riassunto tutte le forze, quella di Garibaldi e di Cavour, di Mazzini e di Cattaneo: poichè aveva fuso il regno di Piemonte con quello di Napoli, la repubblica di Genova con quella di Venezia, il ducato di Milano con quello di Firenze; poichè aveva riaperto Roma, chiusa dai papi al mondo civile; poichè infine tutto quello che si era voluto, e che si era fatto, aveva dovuto passare attraverso lui, come per un perno, che intrecciando i fili, torce la corda; tutti coloro, che la miseria di partito non abbassava sotto il livello del cittadino, dovevano convenire in questo simbolo, che uscendo dalla vita per entrare nella storia, prendeva la consacrazione della irrevocabilità. Cattolici e repubblicani, conservatori e socialisti, l'unità italiana doveva imporsi a tutti ed essere accettata da tutti come un campo, dal quale si erano scacciati i barbari e che restava libero ed aperto ad ogni coltura. E parve che fosse così. Quindi una voce, alla quale tutti risposero, invocò un monumento, che fosse testimone eterno di un'ora già passata, ma che resterà una stazione nel viaggio della civiltà. Si apersero sottoscrizioni, e tutti sottoscrissero, poveri e ricchi, vecchi e fanciulli. La mente raggiava, il cuore batteva. Ma quando il monumento dovè uscire dal sentimento per concretarsi nell'idea e tradursi nella forma, nessuno più si comprese. Le opinioni irruppero, i disegni fioccarono, le commissioni moltiplicarono i pareri e i dissensi. Nullameno vi era una idea vecchia di migliaia di anni, destinata a viverne altre migliaia, che era tutto il nostro passato, in nome della quale eravamo risorti, perchè con essa eravamo vissuti, perchè per essa il mondo aveva vissuto con noi. E questa idea era il Campidoglio. Come ora fosse sconciato non caleva; il Campidoglio era pur sempre il Campidoglio, il vertice più alto della civiltà antica, il primo centro della unità mondiale, che l'idea cristiana non osò occupare, e fece bene, poichè essa era un'idea religiosa, e il Campidoglio è un'idea civile. Roma era stata saccheggiata molte volte, distrutto il suo impero, ma nessuno di quei barbari trionfatori aveva osato fermarsi sul Campidoglio e diventarvi una statua. Se Giulio Cesare, al quale l'Italia deve ancora un monumento, che le consacrerebbe il primato fra le nazioni, l'avesse occupato, nessuno avrebbe potuto porsi al suo fianco: ma l'imperatore Marco Aurelio vi è appena una decorazione, incomparabile artisticamente, e senza storico valore. Perchè dunque tutti non hanno gridato: in Campidoglio, in Campidoglio!? Perchè quest'idea non venne ancora in mente ad alcuno? Perchè non si è sentita la necessità di riannodare la nostra storia all'antica, mantenendo la grande tradizione romana, che pure è la sorgente di tutta la vita moderna? Perchè rompere la serie dei periodi nella eterna idea dello stato, abbandonando il Campidoglio, che la repubblica di America ha dovuto copiare per ingrandire con questo simbolo il proprio fatto? Perchè lo stato moderno non risale il Campidoglio per provare alla chiesa la propria indipendenza, e al mondo la eternità del loro dualismo parallelo e fatale? Rienzi, che sognò forse primo la nuova Italia, morì sui gradi della scalea capitolina; perchè Vittorio Emanuele, che ha riparato la sconfitta di quel vinto sublime, non la monta, e mettendosi sul piedestallo di Marco Aurelio, calmo altrettanto, non mostra al mondo che tutte le epoche storiche si verificano solamente in Campidoglio, e che la libertà moderna per essere immortale deve prendere il posto dell'antica?
Forse metteranno Vittorio Emanuele in una piazza recente di Roma; così il rappresentante di tutta la nostra epopea sarà trattato come i rappresentanti delle sue fasi, poichè Cavour, Mazzini e Garibaldi dovranno egualmente occupare una piazza romana, ed allora col sentimento epico della rivoluzione avremo perduto la coscienza della nostra storia. E poichè ad ogni errore di testa, ne segue fatalmente un altro di cuore, e quando la testa si annebbia, il cuore marcisce, si sono invitati perfino gli stranieri al concorso per questo monumento, che costerà nove milioni, come se si trattasse di una grand'opera decorativa e non di un simbolo, che l'unità monarchica del fatto costringe nell'unità individuale del re; mentre avvenuto colla unità repubblicana, il simbolo avrebbe avuto una unità allegorica; come se a questo monumento, che noi facciamo a noi stessi, perfino i manovali e la sabbia non dovessero essere italiani.
Ed ecco, mio nobile esule, come la letteratura è prostrata in Italia, perchè, figli di ribelli conquistatori, noi abbiamo questa ciera da domestici, accattiamo originali da copiare nei libri e nelle leggi, e antesignani nelle scienze e nella filosofia, nell'arte e nell'industria, anche quando eravamo servi dello straniero, oggi liberi ed italiani non abbiamo nè l'orgoglio del passato, nè la dignità del presente. Forse non si è osservato abbastanza come i figli dei grandi uomini siano quasi sempre al disotto della media, in contraddizione con tutte le leggi biologiche: ma forse questo fenomeno, che dipende dall'enorme consumo di forze, onde si distinguono le grandi vite, si verifica egualmente nei popoli. Dopo la rivoluzione dell'ottantanove e l'impero napoleonico, due immense combustioni di pensiero, la Francia fu esausta e cadde sotto la restaurazione, un governo anche più piccolo nelle idee, che nei fatti; ma la decadenza fu effimera, e i bambini nati a quell'epoca, composero quella splendida fioritura d'ingegni, che va oggi morendo. La vita è immortale, e le giornate del tempo sono senza numero: però ogni giornata è chiusa fra due crepuscoli, e il nostro meriggio durò dal quarantotto al cinquantanove. Forse i grandi scrittori, che dovranno mantenere la nostra gloriosa tradizione sono già nati e tempestano nelle scuole elementari: fors'anche qualcuno dell'avanguardia a quest'ora si dibatte nei primi dolori del genio e dubita di se stesso, come tutti i forti. Coraggio, incognito infelice! Al pari di te noi tutti provammo le angoscie del dubbio e le ebbrezze della fede, delirammo di orgoglio e di umiltà, nel nostro secreto ci credemmo gli ultimi ed i primi. Come tu fra poco, avventammo il nostro libro primo nato, quasi uno squillo di fanfara in un mattino di battaglia; ma noi ci battevamo sotto l'eccelso monumento eretto dai nostri padri e la sua ombra agghiacciò il nostro entusiasmo. Ci sentimmo piccoli e deboli. Come gli egiziani moderni, che guardando le piramidi millenarie non hanno più nemmeno il coraggio di alzare una casipola, e spiegano lungo le vie le stuoie per dormirvi, noi scrivemmo articoli e bozzetti, romanze e canzoni, radunammo parecchi materiali e finimmo per servirci sopra. Invano gli stranieri ci derisero, invano i superstiti di quell'epoca gloriosa ci incuorarono: colle forze ci venne meno la fede, ed allora ridemmo, perchè il sorriso della incredulità cela spesso il sogghigno della impotenza. Chiunque tu sia, che applaudiranno domani, tu sarai fatale a noi tutti, giacchè i nostri abbozzi spariranno nelle tue opere, e i nostri nomi si perderanno dentro il fracasso del tuo. Larve del diluculo noi spariremo all'alba; manovali innominati, che ammassammo la sabbia ed i mattoni, moriremo appena arrivi l'architetto del nuovo monumento. Questo è il destino di tutti i deboli, che la natura dispone a gradini nella sua scalea, sulla cima della quale non arrivano che i forti; embrioni compassionevoli, noi vivremo nella vita del genio, che realizzerà la nostra forma, come tutti i malati e gli incompleti vivono della vita che i robusti fanno alla umanità.
Non ridere, incognito superbo, del nostro sogno, che tu dovrai attuare; il nostro dolore è comico, il tuo sarà tragico, ma pur sempre dolore.
Allorchè un contadino montato sopra uno dei tuoi puledri russi, che qui vincono tutte le nostre corse, ti recherà dalla città più vicina questo mio nuovo libro, parmi d'intendere fin d'ora il tuo malinconico ed amichevole: ancora! e ancora un errore, giacchè non è nemmeno un vero quartetto! Ma non ti dolga troppo dei tuoi saggi consigli, poichè l'effetto oramai ne è maturo. Entrato, tu sai perchè, in questa guerra letteraria, promisi sempre a me stesso di non morirvi: concepii un disegno, e lo attuai. Vinto ad ogni battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai, nè scenderò alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno torto. Altri sarà più fortunato, perchè più forte: pochi più sinceri ed intrepidi. Poichè ogni pompa dell'arte mi era contesa per la miseria dell'ingegno, ebbi l'orgoglio della nudità del mio pensiero; dissi tutto, forse dissi male, però dissi. Nella società due sole persone possono essere senza riguardi, il lazzarone ed il principe, ed essendo liberi, sono forse i meno sfortunati: lazzarone del pensiero, io volli essere pari al principe nella libertà, e se le mie parole dovevano andare perdute, non compresi perchè avessero ad essere menzognere.
Questo libro è il principio della fine.
Domani comincerò il Sì, e sarà l'ultimo della serie concepita dieci anni fa. Tu ne conosci le idee, e ne indovini meco la sorte. Sarà la suprema battaglia perduta, dopo la quale, anche essendo buon patriota, mi sarà permessa la ritirata; la coscrizione non dura adesso che tre anni, io ne avrò passati dieci sotto le armi. Un proverbio dice che una bella ragazza non può dare più di quello che abbia, e gli scrittori buoni o cattivi non sono in migliori condizioni; laonde raggiungerò forse la tua vita di coltivatore, lasciando ad altri lo sfracellarsi inutilmente il cranio contro le porte bronzee della gloria, o l'aprirle validamente coll'appoggiarvi solo un dito.
I deboli tentando la prova sono eroici, ostinandovisi diventano ridicoli. Forse, anzi senza forse, la prova è già fallita, ma la costanza non è composta altrimenti della caparbietà, e non è facile nè a chi le ha, nè a chi le giudica, il distinguerle nettamente.
A rivederci dunque.
Quando il tuo cavallo russo ti sprofonderà galoppando dentro la steppa, e il tuo occhio si riposerà nell'infinito della pianura, e il verde della terra e l'azzurro del cielo si fonderanno in una sola sensazione entro il tuo cuore, in una sola idea entro il tuo cervello, ricordati, se puoi, l'amico lontano, del quale la fantasia prediletta è sempre stata di partire dal mondo sopra un cavallo nero, stellato sulla fronte. È una fantasia senza significato, ma che mi appare sempre al pensiero, nella stanchezza di una meditazione, o nella noia di una distrazione. Mi sembra di vedermi innanzi il cavallo sellato, e di avere agli occhi il deserto. Il cavallo è alto e leggiero, la criniera gli tocca i ginocchi, la coda gli batte i garretti: è senza testiera, la sella è piccola, il deserto è sconfinato. In sella adunque e al galoppo:
Allons, capitaine, appareillons pour l'infini
come urlava il marinaio di Baudelaire alla morte.
In sella ed al galoppo, ecco adesso la tua vita: a rivederci dunque, nobile esule, a rivederci forse nella steppa, nel silenzio della natura, nel deserto del mondo, nella solitudine dell'infinito.
Ottone di Banzole.