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VIOLINO

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Annottava.

Egli andò lentamente verso la scranna, sulla quale aveva posato il violino; lo prese, ne saggiò l'accordatura, ed avvicinandosi un altro passo alla finestra, senza rivolgere il capo, incominciò a suonare così:

Poichè siamo soli in questo gabinetto, mettetevi là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. Fra poco sarà notte: adesso il cielo è opaco come un mare e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto su quest'ora del vespro, quando tutto sta per sparire, e nulla è ancora scomparso? Vi è mai sembrato di perdere in quest'ora la coscienza del mondo, e di sentirvici come un pellegrino, il quale cammina alla ventura, distratto dalla curiosità del viaggio, ma rattristato dal mistero del proprio pellegrinaggio? Guardatevi attorno. Tutto questo bel gabinetto, di cui ogni mobile è come un capitolo di romanzo o un canto di poema, nel quale avete accumulato tutti i comodi della vostra eleganza ed i capricci della vostra fantasia, non lo si vede quasi più; i colori della tappezzeria sono periti, le forme dei mobili si sono dileguate. I quadretti, che rivestivano addirittura le pareti, hanno perduto i personaggi delle loro scene, e le statuette di Sassonia se ne sono andate lasciando sulle scarabattole un mucchio biancastro di ghiaia. Un'ombra di sotterraneo è sorta a poco a poco dagli angoli, come dai canti più inesplorati del vostro cuore si sono forse sollevati dei ricordi, e ha occupato tutto l'ambiente: la grande specchiera si è spenta, l'orologio non batte più. Perchè non l'avete caricato, signora? È da un pezzo? A qual minuto della vostra vita si è arrestato? Ve lo ricordate nemmeno? È stato al minuto, che Mefistofele aveva promesso a Faust, e al quale Faust non credeva? e voi, signora, più fortunata di Faust, e più bella di Margherita, ci avete creduto? Quando il cuore, che è l'orologio della nostra vita, si ferma, perchè l'orologio del tempo seguiterebbe? Io non lo so se il tempo sia una forma vacua o una realtà, nella quale si muova la nostra vita; non so se, come fu detto anticamente, sia la misura del moto; ma se lo fosse, perchè non si arresterebbe, quando la nostra vita si arresta sul vertice di un minuto, dal quale abbraccia tutto il proprio paesaggio? Amore e ragione hanno di questi minuti, sui quali arriviamo qualche volta, e dai quali discendiamo come dalla cima di uno scoglio nell'oceano, mentre i mostri marini ci seguono colla gola spalancata e le rondini tessono sul nostro capo cogli ultimi raggi del sole il velo ondeggiante del loro volo. Cantare coll'usignolo o volare colla rondine, ecco un destino. Quando il sole è partito per un altro mondo e la luna galleggiando per il cielo, come un avanzo di naufragio sulle onde, dà una fisonomia di ammalato al paesaggio, allora l'usignolo canta invisibile nel fogliame. Egli è solo. Nel giorno tutti ciarlano e si muovono. Egli ha aspettato il silenzio di tutti per il proprio monologo, al quale non chiede e non spera risposte. Il suo canto vario ed inesauribile ha l'accento di tutte le passioni e l'eco di tutti gli accenti. Fra gli accordi più pigri di una fantasticheria, a volta a volta getta una invocazione così ardente ed acuta, che traversa il silenzio della notte, come in fondo all'orizzonte un lampo di calura solca la tenebra dell'infinito. Egli si ascolta e si risponde: può darsi che ami, ma siate sicura, non ama che l'amore. Non è vero che richiami la propria compagna e la inviti alle nozze notturne sotto i raggi della luna e le esalazioni dei fiori. La sua è una poesia più vasta e più alta, il suo canto un romancero, dove gl'inni svolazzano fra le elegie, e lo strambotto interrompe spesso la modulazione cadenzata di una saffica. Come un poeta seduto sulle macerie di una morta città egli canta nel silenzio e nel deserto: attinge in se stesso l'ispirazione, trova nel proprio cuore le ragioni di essere mesto od allegro, e mentre la vita gli passa innanzi coi suoi mille problemi e le sue mille contraddizioni, egli le coglie a volo, e le libera nuovamente in un trillo o in una corona. Solo come tutti i grandi spiriti, non gli basta la solitudine e cerca il secreto; si nasconde nell'albero più foglioso, nella macchia più bruna, canta tutta la notte, e all'alba, quando tutti si ridestano, cerca un fitto anche più cupo e si nasconde. L'arte è così. Che cosa farebbero nel mondo dei lavoratori la poesia e la musica? Avete mai osservata la luna a giorno alto? Invece di un astro pare un cencio, un avanzo di quegli aquiloni di carta, che i fanciulli lasciano di marzo salire nel cielo. Ma anche il giorno ha il suo poeta, piccolo e a bruno come tutti i poeti del nostro secolo. Perchè mai nel nostro secolo la poesia è così triste mentre la vita è così florida? Forse l'usignolo ha ragione, o signora; la poesia ha bisogno della notte, come la musica del silenzio. Guardate il poeta del giorno come sta in alto. Ve l'ho detto; è vestito a bruno e non canta; appena appena incontrandosi con qualcuno scambia un saluto sommesso, come gli avvisi dei barcaiuoli pei canali di Venezia. Ma invece di cantare vola sempre. Le sue ali sono come due remi, la sua coda come la barba di Mefistofele. Non scende a terra, perchè se vi scendesse, non potrebbe più alzarsene: ha le ali troppo lunghe. Vi sono molti, signora, che non possono stare per terra, vi cresca la polvere od il fango, e una volta precipitativi, debbono morirvi di fame guardando in alto. La rondine vola. Essa è libera; il falco non è abbastanza agile per raggiungerla, il cacciatore quasi sempre troppo superbo per tirarle contro. E la rondine vola dalla mattina alla sera, quando l'aria è ancora umida dalla rugiada della notte, quando bolle nel meriggio, quando ondula al vento del vespro: vola sempre, s'innalza a picco, si abbandona strisciando, si libra e volteggia, si arresta e si disserra, destreggia e precipita, si piega sopra un'ala come una gondola, sopra un fianco, parte per lungo viaggio e ritorna, leggiera ed instancabile, muta e bruna, a stormo e sempre sola. Ed è sempre allegra. Come l'usignolo è inesauribile nel canto, essa è infaticabile nel volo: l'usignolo canta perchè è il poeta della notte e del pensiero, essa vola perchè è il poeta del giorno e dell'azione. Solo il vespero è senza poeta. L'allodola, che trilla così lieta al mattino, si è già riparata nel nido, la cicala ha mandato il suo ultimo saluto al sole, e i grilli attendono forse le lucciole nascoste nel grano. È l'ora dell'agonia, sentite la campana che l'annuncia. La sua voce lenta e solenne si perde nell'ombra come la vita, ma i suoi rintocchi sono contati come gli ultimi minuti del morente. Fra poco cesserà, l'aria sarà più fosca, e i morenti saranno morti. Avete mai pensato che questa stessa campana annunzierà forse la nostra morte? Voi siete bella, siete bionda, siete fresca: i vostri occhi scintillano come un lago, il vostro cuore olezza come un giardino: non vi ricordate di quando eravate bambina, non vi rammentate più che un giorno non sarete più donna? Eppure, signora, non vi è meriggio senza ombra, per quanto intenso ed abbagliante: sul mare si disegna l'ombra delle navi che viaggiano; sul deserto si stampa l'ombra degli uccelli che migrano. Ma voi siete troppo felice nella vostra bellezza, e la felicità è gemella dell'obblio. Quanti uomini di quelli, che passandovi innanzi, si sono inginocchiati ai vostri piedi come ad una immagine miracolosa, vi ricordate, signora? Molti forse vi hanno amato, e coloro, che parlavano meno, vi amavano di più. Viandanti stracchi o scoraggiati si accompagnarono con voi per qualche miglia; non so se tutti erano belli, ma tutti avrebbero voluto esserlo per accompagnarvi sempre. La loro anima era forse carica di speranze morte, il loro cuore un nido di desiderii neonati: viaggiatori giovani o vecchi, col raggio dell'alba o coll'ombra del vespero sulla fronte, guardavano verso di voi come al sole, che è la guida di tutti i pellegrini, l'astro di tutti i viventi, il focolare di tutti gli assiderati. Lungo la via senza meta e che bisogna pure percorrere, il solo piacere è di fermarsi sopra una pietra miliare all'ombra di un albero e barattare con un compagno i discorsi lenti e malinconici del viaggio. Poi si prosegue per la strada polverosa, nella quale il vento cancella le orme, e i passeggeri non cessano mai. Dove vada tutta questa gente, nessuno lo sa, ma tutti fanno la medesima strada per cadere ad un'ora misteriosa in uno dei suoi fossi, e restarvi. Forse molti di coloro, che vi offersero il braccio, vi sono già caduti, e voi non ricordate nemmeno il loro nome: molti proseguiranno in gruppo per dimenticare nel chiasso di una conversazione la faticosa necessità del cammino, o avranno a braccio un'altra donna e le ripeteranno le stesse parole, che vi dissero un giorno. Il vento della sera si è alzato e susurra fra gli alberi del giardino. Sentite come i grilli canticchiano e i gelsomini odorano. Il gelsomino è il fiore della notte; nel giorno o è chiuso o avvizzito, o morto o non nato: aspetta l'ombra per schiudersi, il fresco per olezzare. Allora tutti i suoi bottoni sbocciano e come l'usignolo apre il concerto dei propri odori. Gl'insetti randagi del giorno dormono nell'erba, gli uomini sono ricoverati nelle case. È per la delicatezza del suo odore, o per la singolarità di non odorare se non la notte, che ne avete fatto il vostro fiore prediletto?

Certo la donna non è mai più bella che nella notte, perchè l'amore cerca le tenebre ed il riposo, l'olezzo e la voluttà. Una volta ho veduto un gelsomino sul vostro tavolo da notte e non me lo sono più dimenticato. Una folla di rapporti fantastici fra il suo colore ed il vostro, fra il vostro alito ed il suo, mi occupò istantaneamente lo spirito; poi vi chinaste a respirare il suo profumo, e mi parve che gli diceste qualche cosa. Era una confidenza? Non lo so, e nullameno la compresi. Il linguaggio non ha centomila espressioni, delle quali la migliore non è certo la parola? Tutto non parla nel mondo? L'universo non è come un discorso, nel quale ogni individuo rappresenta una sillaba? La solidarietà misteriosa, che unisce tutti i viventi, non lega forse le loro voci, e non sarebbe strano, che mentre tutti si scaldano al medesimo sole e respirano la medesima aria, non parlassero un medesimo linguaggio, e non componessero un coro? Se invece di restare in questo gabinetto discendessimo in giardino, come voi udite senza avvertirla la voce del grillo, egli udrebbe senza badarvi la mia, ascoltando la voce di qualche sua compagna. Fra la moltitudine degli effluvii e dei discorsi ciascuno sceglie quello che gli si indirizza, e vi risponde; ma la sinfonia, che risulterà inevitabilmente dall'accordo di tutte le voci e dalla innumerevole partitura di tutti gli strumenti noi non possiamo sentirla più del moscerino, che ronza, o del bue, che mugge. Se vi fosse una montagna, dalla cima della quale abbracciare tutto il paesaggio della terra ed intenderne il concerto infinito, v'inviterei meco a salirla, e fosse pure alta o scoscesa, vi terrei sempre per mano ripetendovi: salite! Quando l'aria diventasse troppo rada, per impedirvi di accorgervene, vi direi: guardate come la luce è pura! Se l'altezza vi desse le vertigini, vi mostrerei la cima, ripetendovi: salite! Se il freddo vi gelasse la fronte, allora forse, solamente allora oserei dirvi: non sentite, signora, come la mia mano brucia nella vostra! E saliremmo: l'aquila vi vedrebbe senza paura passare rasente il proprio nido, perchè voi, signora, avete la più dolce fisonomia di questo mondo: dalla vetta di un pinacolo il camoscio ci indicherebbe con un fischio il sentiero più sicuro e più breve; la rosa delle alpi, questo mistico fiore, che vive di neve e di sole, di bianco e di azzurro, tremerebbe di confusione vedendovi, perchè voi siete più bianca della sua neve, perchè i vostri occhi sono più azzurri del suo cielo, perchè i vostri capelli sono più biondi del suo sole. E saliremmo sempre: gli abeti bruni come la folla degli uomini ed egualmente clamorosi stormirebbero al basso; i ghiacciai arderebbero in alto con un incendio di colori e di scintille, di raggi e di baleni. Non vi pare che sarebbe una bella ascensione? Talora guadagnando un monte si guadagna un cuore. Invano la montagna sarebbe levigata come uno specchio o irta come una lima: le nostre mani avrebbero una presa più fina di quella di una mosca, e più forte di quella di un artiglio: io vi farei arco delle spalle e vi ripeterei sempre: avanti, excelsior! Se ci siamo alzati più in su dell'aquila, saliamo ancora, perchè i raggi della luna si posano dove non arrivano i piedi dell'aquila, e i raggi discendono invece di salire: il sole passa al disopra della luna, le stelle migrano al disopra del sole, il pensiero vola al disopra delle stelle, Dio sta al disopra del pensiero. Ormai tocchiamo la vetta; salite meco e fidatevi, perchè ho giurato di riaccompagnarvi nel mondo quale ne siete uscita, e la mia parola è sicura come voi siete bella.

Poi arrivati sulla vetta mi sederei ai vostri piedi e guardandovi negli occhi vi direi: eccoci giunti, o signora; chinate pure lo sguardo ed ascoltate la musica, che si innalza fino a noi coi vapori attratti dal sole. I vapori ricadranno in pioggia, ma la musica svanirà lentamente nel silenzio dell'azzurro. Benchè soli come Satana e Cristo, non temiate che vi tenti. Il mondo non parve bello al Nazareno, poichè il mondo non è bello se non da vicino come tutte le piccolezze: da questa cima i suoi imperi fanno appena una macchia di paesaggio e le sue più enormi città un mucchio di ghiaia. Siamo soli, signora, ma talmente in alto che non ci resta più che l'orgoglio dei nostri cuori, e la serenità dei nostri pensieri. Non vi sentite più grande così? Ma se credendo alla mia parola e accettando la mia mano acconsentiste a seguirmi su questa cima così perigliosa ed eterea: se almeno questa volta desideraste ciò che desiderai, voleste ciò che volli, faceste ciò che feci, qui nell'azzurro, che le nubi non hanno mai contaminato, dove l'aria non svia più i raggi del sole, e nessuno ci ascolta, perchè gli uomini sono troppo in basso e le stelle troppo in alto; questo secreto che porto da lunghi anni come una luce nella mente, come un tesoro nel cuore, come una catena alle mani, sul quale avete tante volte soffiato e non si è spento, nel quale cacciaste tante volte le dita gettandone all'aria le perle e non è scemato, sotto la quale i miei polsi hanno tante volte sanguinato strappando, e non l'hanno rotta... ve lo dirò, qui, solo, senza lagrime, senza parole, con uno strido acuto, supremo:

Ah!

Il cantino si è rotto, signora, ma un violino come una barca non si arresta per la rottura di una corda. Poichè siamo soli in questo gabinetto mettetevi là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. Oramai è notte: il cielo è opaco come un mare e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto a questi due infiniti, che rinchiudono l'orizzonte creandolo? Eppure l'orizzonte è la cornice di ogni quadro. Nella indefinibile unità del suo colore trema una confusione di tinte indefinibili. Da lui il zaffiro ha preso il turchino, lo smeraldo il verde, l'ametista il violetto, il topazio il biondo, il rubino il lampo sanguigno, la perla il pallore, l'opale le iridi; voi, signora, lo splendore e la mobilità, la leggerezza e le nuvole. — Fatti un abito di taffetà, poichè la tua anima è cangievole come i suoi colori — disse una volta Shakespeare ad una donna, ed ella forse gli rispose con un sorriso più ricco di espressioni, che non di tinte il taffetà. Riso e sorriso, ecco la vita, signora. Se il sole fosse così bello, perchè gli uomini avrebbero inventato gli ombrelli, e Dio ne avrebbe loro suggerita l'idea colle nuvole? Se il cielo ci fosse destinato, perchè gli avrebbero negato l'aria, rendendolo sordo? Se il genio non fosse una colpa, perchè sarebbe costantemente infelice, e se l'amore non fosse una brutalità, come tutti gli animali vi si accorderebbero? La poesia è una noiosa menzogna, e la prova ne sta in questo, che le signore vi si annoiano. Invano si è voluto spiegarlo col paragone del flauto, il quale della musica, che gli fanno suonare, non sente se non la incomoda ripienezza del soffio, giacchè nella poesia dell'amore, chi dei due sia l'istrumento, se l'uomo o la donna, si debba ancora sapere. E poi gli strumenti non si giudicano sempre con facilità. L'asino non è mai passato per un eroe, e nullameno colla sua pelle si coprono i tamburi, e coi tamburi si indicono le battaglie. Le pecore, che belano così poco, benchè il belato sia uno dei linguaggi più facili, prestano le loro viscere ai violini, che se ne fanno le corde. E quando un grande suonatore vi suonerà un pezzo di Beethoven, o io stesso col singhiozzo nell'anima vi parlerò col mio violino per dirvi così tutto quello, che non oso; e voi forse cesserete per un istante di sorridere — le mie lagrime saranno forse sincere, ma i miei lamenti saranno di un altro povero morto: voi non potrete ancora comprendermi, ed io sarò un pazzo, perchè bisogna essere pazzo per sperare che una budella esprima ciò cui non basta una lingua, e una corda possa altrimenti giovare che ad impiccarsi. Se i Romani avessero conosciuto il violino, forse vi avrebbero fatto le corde con budella di schiava; e chissà se non fossero stati migliori dei nostri, e la storia dell'arte non vantasse uno Stradivarius di più. Come le lettere avevano gli schiavi per i dizionari, la musica avrebbe avuto gli schiavi per gl'istrumenti; la scienza, compiacente come sempre a tutte la tirannie, avrebbe forse trovato nelle fanciulle circasse la fibra migliore per i cantini; e voi, signora, ascoltandoli avreste sorriso come adesso col vostro bel sorriso di corallo, perchè il corallo è colore di sangue. Riso e sorriso, ecco la vita. Il sole fa sorridere le labbra delle nuvole, che avventano la folgore, come le goccie di rugiada, che incoronano le rose: le stelle sorridono di tutti i miopi, che le puntano coi telescopii, e ridono di tutti i ciechi, che piangono non vedendole: i vecchi sorridono dei giovani, che hanno la saggezza di essere folli, e i giovani ridono dei vecchi, che hanno la follia di essere saggi: il credente sorride dell'ateo, che ha la sventura di essere solo in questo mondo, e l'ateo ride del credente, che avrà la disgrazia di essere male accompagnato nell'altro. Riso e sorriso, che mostrano sempre i denti, perchè dopo il bacio vi è quasi sempre il morso. E voi, signora, preferite mordere o baciare? Forse l'uno e l'altro, forse baciare quando vi mordono, e mordere quando vi baciano, per contraddire sempre, perchè la contraddizione è il primo sintomo della forza e il primo beneficio della libertà. Se così non fosse, perchè i piccoli negherebbero sempre i grandi, e le donne avrebbero sempre ingannato gli uomini? Poichè la contraddizione è l'essenza della vita individuale, l'amore, che la perpetua, è costretta a servirsi egualmente del bacio e del morso. Solo negli animali morde il maschio, e negli uomini la femmina: variante misteriosa, che indica forse negli uni il pudore di quella, e negli altri la debolezza di questo. E poichè la debolezza conduce spesso alla tirannia, gli uomini dopo i ginecei inventarono gli harem, come dopo il vino i liquori; invenzione sciagurata, che toglieva la conquista all'amore, ed impediva il bacio per evitare il morso. L'amore ha d'uopo di libertà, come la luce di ombra per produrre il colore; giacchè non è vero che l'ombra sia nemica della luce, come afferma Mefistofele, e dovesse appiattarsi nella profondità dei corpi, quando raggiò la rivale. Non è vero che quando il sole discende dal suo carro di gloria, per mescersi famigliarmente colle stelle, essa ricompaia e ricopra astiosamente l'universo; e non è vero che nel principio fossero le tenebre, e che alla fine saranno le tenebre. L'ombra invece è innamorata della luce e la segue dappertutto. Mentre i colori si posano ovunque scintillando, osservate come l'ombra si sdraia voluttuosamente sotto a tutti i corpi, e col proprio contrasto raddoppia la loro vivezza: quando il meriggio discende, l'ombra si allunga, sale per lo stelo dei fiori, per il tronco degli alberi con una leggerezza amorosa, e li avvolge nel proprio vapore; come voi, signora, avrete molte volte riposto negli astucci i brillanti, che ad un ballo vi avevano fatto prendere per una bella notte stellata. Non è vero che l'ombra detesti la luce, e la menzogna sia nemica della verità, giacchè non si bacerebbero così spesso sulla medesima bocca e con tanto trasporto. Avete mai veduto due gemelle vestite con altrettale eguaglianza? Se la verità è il sole della vita, la menzogna ne è l'ombra; e per la strada del pellegrinaggio, quando la fatica ci ha affranti e la polvere riarsi, l'ombra di un albero è pure la sola speranza ed il solo ristoro. Che sarebbe di noi tutti, se costretti alla verità, dovessimo sollevare sempre il velo sulla cuna delle nostre intenzioni, o alzare il coperchio sulla tomba dei nostri ricordi? Se io dovessi confessarvi tutte le ragioni, perchè m'incanto a guardarvi, e voi tutte le altre, perchè vi lasciate guardare? Poichè i costumi sono la gentilezza delle nazioni, i complimenti sono la bontà degli individui: ma, come il bello ideale nella pittura non è che la correzione del brutto nel vero, il buono ideale nella vita non ci viene che dall'oblio volontario del cattivo. Mentite dunque, signora, poichè la misura della bontà consiste nel bene che si prodiga, e la natura diede per noi alle donne la menzogna e la bellezza. Profondete gli sguardi ed i sorrisi, i giorni e le notti; gettate a piene mani speranze e soddisfazioni, ricordi ed oblii; sminuzzate l'amore per moltiplicare gli amanti; invece di essere un sole immobile nella vanità della propria mole, siate la cometa, che vaga per l'empireo, ed ha un saluto per tutte le stelle. Bella come la primavera, siate così piena di grida e di fiori, abbiate la foga dei suoi balli, dei suoi canti, la sua gioventù eterna, che dà poco e si contenta di meno, ma che colora e profuma, accorda e solleva, scorazza e non fugge. Poichè tutto è menzogna nella vita, mentite voi pure, signora; mentite come mentono il pianto del bambino, che finge di arrivare fra noi dal cielo degli angeli, e il pianto del moribondo, che è sicuro di ritornarvi: come la povertà, che ha il medesimo sole della ricchezza, la ricchezza, che ha le medesime malattie della povertà; la scienza, che non sa nulla come la religione; l'arte, che ha tutti i difetti della vita, la vita, che ha tutte le impotenze dell'arte. Mentite pure se tutto mente; la gioia, che esagera se stessa per affliggere l'invidia; il dolore, che si macera per desolare la pietà; la pietà, che offrendosi ad ognuno, non si dà mai per riserbarsi a tutti; l'imbecillità, che si arroga i diritti del genio; il genio, che nell'amarezza della propria vanità si dichiara imbecille. Bisogna pur mentire, signora, per essere amabili, e lasciarsi ingannare per essere felici. Che importa la fine? Vi è forse una fine? Riso e sorriso! ma sorridendo, aprite tanto le labbra, che vi si possa gettar dentro un bacio, e spalancando le braccia, badate di chiudere gli occhi come la carità, che è la prima di tutte le virtù. L'elemosina consola più il ricco che il povero, perchè quegli non dà che il superfluo, mentre questi non riceve nemmeno il necessario; la fede giova più all'incredulo che al credente, poichè il primo vede sempre il secondo nella pania delle sue stesse sciagure; la speranza frutta meglio a chi la dà che a chi la raccoglie, giacchè l'uno ne è il padrone e l'altro ne è il servo. Vedete bene, signora, che nella nostra divisione la giustizia ha dato a voi tutto, e a me solamente il resto, a voi un palchetto di prima fila, e a me un posto nell'orchestra. E quando voi apparivate e tutte vi guardavano, io ero laggiù talmente lontano, che nemmeno il vostro pensiero poteva raggiungermi. Allora non so cosa mi accadesse nell'anima, ma, come se una bufera mi si scatenasse nel cervello, mi sentivo dei lampi dentro gli occhi e dei sibili alle orecchie. Quindi riafferravo disperatamente il violino, e mentre tutta l'orchestra reboava, e la luce dei mille fanali sembrava incendiare le decorazioni della scena, solo, senza più vedere nè intendere ricominciavo delirando a suonare. Nella effimera onnipotenza di quell'impeto, mi pareva che il mio violino coprisse tutti gli altri, e le sue note mi turbinassero sulla testa come tante faville e sopra un vulcano. Ogni crina del mio arco aveva la potenza di una corda, ogni corda dell'istrumento la sensibilità di un viscere vivo. Io stesso vibravo per ogni fibra, ma innalzandomi al disopra di tutta l'orchestra, vedevo la vostra dolce figura salire sempre più in alto, come camminando la notte per un bosco si vede la luna scavalcare ad una ad una tutte le cime degli alberi. Poi la visione mi si cangiava: ero nella tenebra, un vento gelato mi soffiava sulla fronte, le corde mi si irrigidivano sotto le dita come le gomene di una nave. L'ultima raffica strappava la vela, l'ultima onda di canto sommergeva il ponte, l'ultima stella spariva dietro le nuvole, l'ultima speranza cadeva sul cassero come un gabbiano sbattuto dalla tempesta nella alberatura: l'ultimo atto era finito, e la gente se ne andava. Io solo era rimasto nell'orchestra, voi sola eravate seduta nel palchetto. La lumiera salendo squarciava il zodiaco dorato. Allora un'orribile tentazione di suonare, perchè vi voltaste, mi artigliava il cuore: senonchè le dita, raggrinzite convulsivamente sulla tastiera, non sapevano più scorrere; e voi mi rivolgevate indolentemente le spalle. Finalmente ero rimasto ultimo nel teatro, io, che era l'ultimo anche fuori. Essere solo non è forse essere l'ultimo, come essere primo non significa essere solo? E questa giustizia mi faceva ridere di un riso muto, di pazzo, che invece di muovere la bocca agita le mani, e brancola, stritola, coi polmoni gonfi, il cervello in fiamme, il cuore che gli urla, tutte le fibre tese, vibranti come tante corde, che si romperanno ad ogni scoppio, perchè anche le corde si schiantano:

Ah!

La seconda corda si è rotta, ma una suonata come una impiccagione non si sospende per la rottura di una corda. Poichè siamo soli in questo gabinetto, restate là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. È notte. Il cielo si è fatto buio come un mare, e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto, voi, che sarete stata per tanti il loro più grande pericolo, ai pericoli del deserto e del mare, dei miraggi e delle sirene? Eppure nessun miraggio ha il fascino dei vostri occhi, e nessuna sirena la soavità della vostra voce. Quando tutti vi hanno detto che siete bella, lo avete saputo solamente allora, e quindi troppo tardi per ricordarvi dei primi, troppo tardi ancora per ringraziare gli ultimi? Perchè, se il genio si ignora spesso, la bellezza si conoscerebbe sempre! Volete che vi descriva col mio arco, come il pittore lo oserebbe col pennello? Non ho più che due corde, ma noi pure siamo in due, e se fallo, voi ne avrete sempre una per sferzarmi, io quell'altra per punirmi. Lasciatemi provare, e se vi conosco più della gloria, che non ho ancora raggiunto, non vi dispiaccia di ascoltarmi. I vostri capelli d'oro, biondi come l'oro della sua aureola, sono più lunghi del mantello incantato, sul quale essa vola sempre dinanzi agli avvenimenti. Quantunque neri più che l'ombra di un sepolcro, i vostri occhi risplendono come una fiamma; nessun fiore è più colorito del vostro sorriso, nessun frutto forse più sapido della vostra bocca. Leggiera come una rondine e forte come un falco, il vostro volo ha la grazia di uno scherzo e l'impeto di una minaccia; ma come l'orizzonte, del quale avete preso la leggerezza e le nuvole, siete inafferrabile e mutevole. I profumi vi attirano, i colori vi innamorano: vi ho veduto sulle vesti tutte le tinte dell'iride, vi ho odorato sulla testa tutte le fragranze della terra, dai sentori acuti del tropico agli olezzi morbidi delle serre, dalle essenze sapienti del lambicco agli olezzi morbidi del deserto. Ho veduto la vostra testa sorgere da un abito di raso bianco, coi capelli bagnati di stille, che erano perle, come una rosa delle alpi spunta sulla neve: vi ho veduta più pallida nel rosso che eccita i tori, più candida nel bruno che adombra la morte, più florida nel giallo che è il colore della ricchezza. Ho veduto il vostro collo rifulgere come quello di una colomba fra i bagliori dei brillanti, e sanguinare come per un colpo di ghigliottina fra le gocce dei coralli. Talora i vostri abiti avevano la fluidezza di un velo, tal'altra i panneggiamenti duri del marmo; il velluto vi cadeva attorno colla pesantezza di un cortinaggio; la seta vi rideva addosso con una gaiezza scoppiettante ad ogni più piccolo moto: i merletti vi gettavano un'ombra diafana, come i loro ricami, sul seno e sui polsi. Quando camminavate, tutta la vostra persona si animava; i vestiti le si drappeggiavano sopra con un discernimento da artista; seduta, avevate delle pose da regina e da tigre, da statua e da sogno. Il vostro piede piccolo, ma fatto per calpestare tutto ciò che gli altri ammirano, le pellicce e i mosaici, i fiori e gli affetti, si posava dovunque egualmente imperioso; la vostra mano, sempre molle e profumata, esprimeva il torpore terribile di un agguato, come la stanchezza soave di una carezza: facevate dei dialoghi, che parevano soliloqui: avevate dei silenzi, che somigliavano ai dialoghi, distrazioni che occupavano tutti, attenzioni che distraevano ognuno. Ricordo per gli uni e speranza per gli altri, lodata in pubblico e calunniata in secreto, amata colla veemenza del corpo che esige e coll'impeto dell'anima che invoca; secreto che tenta, contraddizione che punge, mistero che arrovella, eravate allora, come adesso, una eccezione senza regola; una signora bianca e bionda, nobile e fine, delicata ed infrangibile, che essendo forse cattiva piaceva a tutti, o essendo forse buona non soddisfaceva ad alcuno. Le onde della ammirazione rompendosi incessantemente ai vostri piedi, non arrivavano mai ad appannarvi la fronte colle proprie spume; l'alcione, che annunzia con profetica pietà la tempesta, a farvela rivolgere verso i nuovi pericoli. Quando la bufera di una dichiarazione vi soffiava sul volto, colla stessa furia del vento lacerando una vela, i vostri capelli si alzavano appena colla leggerezza di una nebbia dorata dal sole, e gli ignari credevano che fosse l'alito del vostro ventaglio. Se la notte aggiungeva la poesia delle proprie tenebre a quella della tempesta, e i naufraghi guardavano verso di voi coll'ultimo raggio della speranza, nell'ultima luce del pensiero, il vostro occhio diventava immobile come una stella, e gli ingenui credevano che foste distratta. E all'alba, quando tutti questi naufraghi della notte, che avrebbero dovuto galleggiare cadaveri sulle onde, se ne andavano tranquillamente nelle lancie, salutandovi da lungi sul ponte, un sorriso bianco come un lampo vi passava sulle labbra. La festa era finita, amiche e innamorati dileguavano, e voi ritornavate sola nel vostro appartamento. Simile agli esuli del genio chiusi nel loro pensiero, voi passate per la società, velata nella vostra bellezza, lasciandovi dietro una traccia di profumi e di desiderii. Tutto vi appartiene. Come per gli idoli dei santuari più celebri, gli omaggi e i tributi si ammassano sul vostro altare; i fiori della primavera e i frutti dell'autunno, le primizie del cuore ed i capolavori dell'ingegno. Ma forse nella vostra alterigia vi pare soverchia compiacenza lo scegliere, ed accogliete collo stesso disprezzo l'offerta del povero e del ricco, dell'inetto e del grande. Inettitudine e grandezza d'altronde sono spesso sinonimi. Solo la bellezza sempre sentita è sempre ben giudicata. Nell'immenso lavorio del mondo essa è lo scopo unanime, la speranza di tutti, il premio di pochi. Per voi, signora, l'uomo, questo lavoratore immortale, che soccombe sempre e non smette mai, allunga i giorni e si accorcia all'opera la vita: per voi ha traversato i deserti, o ha tolto i diamanti alle sabbie, le penne allo struzzo; o è salito fino al polo e ha raggiunto una volpe turchina per farvene un manicotto. Per voi nelle fabbriche si storpiano i fanciulli e si estenuano gli adulti: per voi si tesse il vetro e si solidifica la canepa, si domano i cavalli e il vapore, si inventano le navi e i palloni, si forbiscono le parole e le spade, si cesellano le coppe e i pensieri, si verniciano le carrozze e i sentimenti, si ricamano i metalli e le liriche. Per voi l'oro diventa un talismano e le gemme tante goccie di vischio; le nuvole si cambiano in un tulle, i fiori scompaiono nelle essenze e ricompaiono nella cera; per voi si tempra l'acciaio e si stemprano i caratteri, l'elefante si lascia sdentare perchè il suo avorio intarsi l'ebano del vostro letto, le immagini schizzano dai marmi e si colorano sulle tele, le visioni passano nei poemi e parlano nelle musiche, la scienza numera, l'arte inventa, l'industria uccide, la pace snerva, la guerra diserta. Per voi la storia è una serie di drammi, dove si mutano le parole e durano le scene, si alternano le decorazioni e si ripetono le catastrofi; per voi i desiderii piangono come i ricordi, e le loro lagrime grandi come gli occhi sono più amare di un veleno; per voi le speranze sono azzurre come il cielo ed agitate come il mare; per voi le gioie sono più vaste di un desiderio e più labili di una rimembranza, iridate come una lagrima, pronte come un veleno, piene di canti come il cielo e di naufragi come il mare. Nella tenda del deserto e nella casetta di ghiaccio, nel wighwam del selvaggio e nel palazzo dell'incivilito, nelle foreste dove l'uomo è ancora un animale, e nelle città dove non è più che una cifra; nella piroga del cannibale e sul vascello dello scienziato; sulle vette dell'Imalaya, dove non pascolano che i vapori, e nei cimiteri della storia, dove non vegliano che le rovine; sotto le fronti contuse dal diadema, circoncise dalle cesoie, scalpate dal coltello; dentro i cuori che ignorano, i cuori che apprendono, i cuori che rammentano; sulle stuoie d'oriente e sui guanciali di occidente, dove l'uomo pensa e sente, crea e distrugge, voi siete la prima idea e il bisogno supremo, la voluttà nella vita e l'aspirazione oltre la tomba; perchè siete la bellezza, e la donna, che è la bellezza della bellezza, come Dio, è il pensiero del pensiero. E voi siete dappertutto, vi troviamo dovunque: chine sulla nostra culla o sul nostro feretro per gettarvi un sorriso; sul nostro cuore ad origliare, sul nostro pensiero ad aizzarlo; eravate dietro a noi come una sorgente dietro a un ruscello, ci siete dintorno come la luce, dinanzi come un mare. Se vi scacciamo per un momento dal cervello, vi troviamo subito nel cuore; se vi esiliamo dal futuro, vi incontriamo nel passato; se ci cadete dai sensi come un peso troppo greve, ci salite nella mente colla leggerezza di un sogno. Il nomade del deserto scorge i vostri occhi nel miraggio delle sabbie, il marinaio travede la vostra figura nella bruma dell'oceano, il modesto vi cerca nella quiete del proprio riposo, l'ambizioso nell'orgia dei propri trionfi; siete sopra tutti i golgota, a piedi di tutte le croci, per ricevere il saluto estremo dei santi; in tutti i circhi ad insultare dai gradini le ultime convulsioni dei martiri. Voi riempite le Tebaidi di anacoreti e le biblioteche di libri, la notte di ombre, e i giorni di sogni; vi sdraiate su tutti i troni e per tutti i fanghi, coprite egualmente di baci tutte le mani ruvide che eseguiscono e le delicate che ordinano, le forti che abbattono e le più forti che elevano; abbandonate egualmente coloro che partono e coloro che restano; generose e crudeli pei vincitori e pei vinti; lievi come il nevischio e gravi come la valanga, farfalle nell'aria, lombrichi sulla terra, istinto nel sangue, amore nel cuore, ideale nella mente. La vostra parvenza azzurreggia nelle fiamme sulla fucina del fabbro e sul fornello dell'alchimista; passa come una larva sulla carta, dove il geografo ritrae i lineamenti del mondo, e dove il generale segna le tappe delle sue vittorie: per quanto il poeta s'innalzi nel proprio volo oltre i calcoli sublimi dell'astronomo, è sicuro di rinvenirvi ritta sull'orlo di una stella coricata indolentemente sullo strascico di una cometa. Perfino il filosofo, che oltrepassa il poeta di più ancora che non egli lo scienziato; quest'incompreso che sta nell'incomprensibile, ed è un'idea che vive nell'idea; che di lassù vede gli avvenimenti della nostra storia, come di quaggiù l'astronomo vede le stelle; quest'uomo, che ha obliato tutto il mondo per impararne le leggi, e non ha voluto sentir nulla per poter pensar tutto, egli pure vi trova lassù nel sesso di una parola, nella desinenza di un nome, e riprecipita sulla terra per prosternare ai vostri piedi, che lasciano l'orma sulla polvere, una fronte, sulla quale le stelle sarebbero superbe dì comporsi in corona. Voi conoscete il vecchio emblema del drago che uccide il leone, dell'astuzia che vince la forza, poichè ve l'ho veduto spesso al dito sopra un anello: e voi avete sempre vinto, poco importa se la vostra vittoria di donna fu nell'impedire ad un uomo una nuova conquista del pensiero. Gli imperi ideali non crollano come gli imperi storici? La tirannide di una teorica dura forse più che quella di una dinastia, i sistemi della filosofia più che i trattati della politica, i monumenti della poesia più che i templi della religione? Se ogni popolo ha il proprio dio, quante divinità mancano allora nel pantheon delle mitologie? Se ogni generazione ha un grande poeta, quanti poeti mancano nella storia della letteratura? Tutto passa, anche il passato, tutto muore anche i cadaveri: il tempo spiana le ruine, il vento dissipa la polvere dei sepolcri meglio chiusi, e non resta che il presente, questo minuto, che cade incessantemente dall'orologio della eternità, e si colora cadendo come una bolla di sapone nel sole. Invano chini sull'orlo del mondo tentiamo talora di sorprendere il suo tuffo nell'oceano delle età, o rientrando precipitosamente in noi stessi cerchiamo la sua traccia nella nostra vita; giacchè le ombre non lasciano vestigia, ma l'ombra continua imputridisce e corrode. Ad ogni attimo, che ci scivola addosso, gli atomi della nostra esistenza si disgregano, e si separano come tanti pellegrini ad un crocicchio, alcuni portando seco, attraverso infinite migrazioni, una scintilla, colla quale comporranno nuove vite. Avete mai riflettuto come ci salgono nella mente le passioni, o come ci discendono nel cuore le memorie? Non so, ma parmi che le passioni sorgano in noi dagli abissi della animalità, mentre le idee ci colano nel sangue dagli abissi dello spirito. Il cielo non è un abisso come il mare? E talvolta mi sembrava che il dio misterioso della creazione mi avesse dalla eternità seppellito nel profondo della vostra anima, e che a certe ore mi levassi, e per un filo più sottile del più sottile fra tutti i fili cominciassi la più strana salita. Nell'ombra cieca di quelle latebre sentivo muoversi una infinità di ombre, fantasmi forse di vite passate, larve forse di vite future; ma sulla bocca del pozzo, più lungo che nella più profonda miniera, la vostra bella testa rutilava in un nimbo di luce. Salivo. Le mie mani stringevano con una energia inesprimibile quel filo, che non avrebbero nemmeno dovuto sentire; il respiro mi si faceva affannoso, gli occhi mi si dilatavano come quelli di un felino. Le ombre sfiorandomi come per guardare il fortunato, che montava alle regioni della vita, mi gettavano nell'anima un raccapriccio senza nome: la vostra luce attirava colla stessa forza del sole, che raggira i pianeti. Avete mai provato in fondo al cuore una ondulazione insensibile, un moto lento di spirale, che s'innalzava sempre colla continuità e colla leggerezza di un'ombra? Ero io. Alle volte giungevo talmente in alto, che le ombre mi restavano laggiù sotto i piedi, e passavo fra gli ospiti del vostro cuore. Erano molti, alcuni li ho poi riconosciuti nella vostra società. In cima la luce cresceva, e cresceva la bellezza del vostro viso; l'aria cominciava a discendere satura di profumi, trepida di suoni. Ma a quella luce la mia corda diventava bionda come un filo di sole: una volta, che salii fino quasi al cratere, la riconobbi per uno dei vostri capelli. Però senza che le forze mi mancassero, quando già ricevevo il bacio dell'aria sulla fronte, e sentivo gli ospiti del vostro cuore bisbigliare sotto di me come una platea di spettatori, e colla testa sotto alla vostra stavo per chiedervi in un altro bacio il battesimo della vita, improvvisamente il vostro capello si rompeva:

Ah!

La terza corda si è rotta, signora, ma il suicidio è ancora possibile quando ne resta una. È notte: il cielo è bruno come un mare e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto che il silenzio è nero e l'ombra è silenziosa, e quando si riuniscono sul mondo fanno la notte, quando si congiungono sopra un uomo fanno la morte? Il vento della sera non soffia più, le stelle hanno naufragato nelle tenebre, le voci sono sprofondate nel silenzio. Poichè il mondo si è dileguato, e siamo soli in questo gabinetto, rimanete ancora per pochi istanti su quella poltrona, ed ascoltatemi. L'infinito e la eternità ci circondano; il primo è buio, la seconda immobile. La luce è un moto nella tenebra, il tempo un moto nella eternità; furono e quindi non saranno, l'infinito e l'eternità sono. Noi passiamo, voi proseguirete, io mi fermo. Ascoltatemi. Non ho più che una corda per esprimermi, ma non ho più che una parola da dire, l'estrema e l'unica, e quando l'avrò detta, il silenzio non sarà per questo più profondo, nè l'oscurità più fitta. Non è forse la sola consolazione per chi parte di non abbandonare alcuno, e per chi muore di non lasciare infelici? Se così non fosse, il mondo non sarebbe sempre un ululato di funerale, poichè la morte vi è incessante? Vedete bene che potete ascoltarmi, signora, se la vostra memoria non sarà nemmeno costretta alla gentile pietà dell'eco. Sono solo, la mia cuna fu deserta, come sarà dimenticato il mio sepolcro: non ho che il violino per parlare e il violino per vivere. Ignoro le sillabe, non so comporre una parola; le mie sillabe sono le note, le mie parole le battute; i miei periodi scritti in cifra, come tutti quelli che contengono un secreto, sono una varietà del linguaggio. L'aristocrazia non è una varietà in un popolo? Però di tutte le arti la mia è la più infelice, perchè la più mortale; e mentre di un terremoto restano almeno le ruine, non un'eco rimane di una grande suonata. Soli di tutti gli uomini, la nostra vita è un sopravvivere a noi stessi e alla nostra gloria, che muore posandoci sulla fronte una corona, della quale i fiori avvizziscono al contatto dei nostri capelli. Quindi nessun artista desta il nostro entusiasmo, e soccombe più disperatamente sotto la lapidazione dell'applauso. Io sono solo, non come voi, signora, che siete sola, perchè siete al disopra, ma perchè ho il nulla sulla testa e il vuoto sotto i piedi; perchè cammino e non proseguo, sono partito e non arrivo, creo e non formo. Il sole della mia vita illumina, ma non riscalda; l'orezzo dei miei meriggi è senza riposo, come l'ombra delle mie notti senza sonno. Fra coloro che possono, coloro che vogliono e coloro che sanno, io solo vorrei quello che non posso, e non so quello che voglio: quando desidero non mi è lecito sperare, quando spero non desidero più. Il mio passato non si dilegua, il mio futuro non giunge. Il sorriso scivola sulle mie labbra, come sulla superficie di un vetro; i dolori passano dentro il mio cuore invisibili, come i mostri nella profondità del mare. Le prime illusioni della giovinezza svanirono come i vapori iridati dell'alba, le ultime illusioni della mia virilità come le nuvole nella notte. Ma se nella serie drammatica l'egloga è il vagito, l'idillio il sorriso, la commedia il riso, la tragedia il rantolo; quattro forme che comprendono tutta la vita, come le quattro corde del mio violino esprimono tutta la musica: osservate come il vagito ed il rantolo, il cantino ed il basso, la corda dello strido e la corda del gemito siano gli estremi della gamma. L'egloga è il vagito che cerca, l'idillio il sorriso che trova, la commedia il riso che prende, la tragedia il rantolo che lascia. Nella commedia la coscienza si eleva sugli altri, e li ferisce: nella tragedia supera se stessa e si suicida. Così voi, signora, siete al disopra del mondo, e ne ridete; ma siete al disotto di voi stessa, e v'ignorate. Ah! non vi lusinghi l'altezza dello scoglio, e contentatevi della vostra magnifica terrazza piena di aranci e di magnolie. Sulla cima dell'Etna Empedocle è più alto di Aristofane sul palco del proprio teatro, ma per discenderne non gli resta più che gettarsi dentro al vulcano. E vi è una vetta ancora più alta dell'Etna, alla quale pochi potranno salire, e dalla quale nessuno può discendere. Di là si scorge la carovana della umanità passare per il panorama dell'infinito, come una carovana di camelli nel deserto, atteggiando una labile coreografia di fatti e di sogni. Quella è la cima del Nirvana, un monte di dolori più alto del Davalaghiri gettato sul Everest, del Chimborazo gettato sul Davalaghiri, sul quale la indifferenza sta eternamente. Un uomo solo vi è arrivato e si chiamava Bouddha; ma noi spiriamo tutti sui gioghi più bassi della tragedia, mentre egli ci guarda sublime di insensibilità dibatterci nelle spirali della vita, bambini col riso convulso di un solletico, uomini col riso straziante di una convulsione. Egli vede la rivolta di tutti e la rissa di ognuno contro il medesimo problema; la folla che stramazza nel piano, i pochi che rotolano dai dirupi, l'arte che soccombe di angoscia, la scienza che muore d'inanizione, la filosofia che s'inerpica e si arresta morente ad ogni minuto, la religione che precipita agonizzante di scheggia in scheggia: mira la rivelazione del nulla, suprema verità, nelle anime; quelle che si contraggono nello strazio, che si gelano nell'orrore, che si frantumano nella disperazione, che si dissolvono nella coscienza del dolore universale: guata la santa indignazione dei martiri e la collera virile degli eroi, l'avvilimento contenuto dei buoni e il motteggio funebre dei tristi, la desolazione incredula di quelli che pregano e lo spavento credulo di quelli che bestemmiano, quelli che uccidono e quelli che generano, quelli che nascono e quelli che muoiono; ma di lassù, dalla cima del Nirvana, nella indifferenza dell'infinito, dell'assoluto, della insensibilità. Discendiamo, signora, o se ci è fatalmente conteso, restiamo, voi sul carro di Tespi, io sul Caucaso di Eschilo: là almeno si ride, qua almeno si piange; ma più in alto, fra il Caucaso ed il Nirvana, vi è ancora meno aria che fra la luna ed il sole; un etere sottile, che impedisce la vita e non produce la morte. Poichè la nostra esistenza è una scala, alla quale rompiamo giornalmente i gradini, montandoli; e quindi la commedia non può più discendere fino all'idillio, nè l'idillio sino all'egloga: poichè non mi è dato invitarvi sulla mia tragica balza, lasciate almeno che vi miri laggiù in tutta la vostra bellezza di donna, e la vostra festività di commedia. Sgranate le perle del vostro riso, lanciate i trilli del vostro canto, vibrate i raggi dei vostri occhi; moltiplicate il numero delle vostre feste ed aumentatene la pompa; mettetevi la corona d'oro sulla testa e il manto di porpora sulle spalle; togliete all'alba i colori e al mare i riverberi, e fatevene una bellezza, la quale stordisca il desiderio e confuti il paragone, accechi la memoria ed aromatizzi il pensiero. Solo sul mio dirupo vi guarderò non visto e non cercato. Nel silenzio della notte, quando i venti dormivano negli antri e le stelle vegliavano nel cielo, le oceanidi venivano a frotte sotto lo scoglio, i capelli verdi fluenti sulle spalle bianche del candore della perla, ed offrivano a Prometeo il ristoro del loro compianto, la distrazione del loro chiacchierio. Ma nessuno degli spensierati, che solcano, cantando, il mare, ha mai diretto la prora verso il mio Acrocerauno. Da molti anni vi sono solo e ignorato, come le ceneri di Biorn lo scandinavo, il primo che scoperse l'America, e che i compagni seppellirono sopra un promontorio di Vinland. Egli il primo era partito per un nuovo mondo senza sapere quale si fosse l'antico, nè dove giungessero i suoi confini; la sua barca bruna come il mistero, che affrontava, aveva tre vele come sono tre le virtù: era leggiera come la poesia, e piccola come la fortuna di tutti coloro che inventano. Nessuno sapeva forse del viaggio, nessuno sospettava l'impresa: forse il capitano non volle nemmeno confessarla, e, issando la vela, credette di salpare per l'infinito. Ora egli dorme sulla cima di un promontorio sconosciuto, e l'amante del poeta scandinavo porta il nome di un mercante fiorentino. E che importa la gloria? Quando le brezze del mare porteranno su quella cima il fumo delle vaporiere e le canzoni dei naviganti, il vecchio marinaio non alzerà nemmeno la testa per rispondere con un sorriso: perchè egli sa da molti secoli che tutte le navi arrivano al medesimo porto, la morte, e che tutte le gioie di una traversata non valgono la quiete di un sepolcro. Rimanti dunque sul tuo scoglio, sublime marinaio! La tua conquista fu più vasta di quella di Cesare, e ben maggiore il tuo coraggio. Invano gli uragani, che ti strapparono la vela, volevano farti piegare la fronte; o i mostri, che addentavano meravigliati la carena della tua nave, tentavano rattenerla nel suo viaggio fatale. Ma quando la terra del mistero, lacerando i veli di un mattino, sfolgorò ai tuoi occhi di profeta, il tuo cuore, che aveva resistito a tutti i colpi della fortuna, fu percosso mortalmente, e, guardando la cima più alta di una scogliera, l'additasti ai tuoi compagni di eroismo: là. E là ignoto così alla patria, che avevi abbandonato, come all'altra che hai scoperto, senza poesia e senza storia, tu sei il più grande fra i grandi, se la grandezza di un imperatore si misura a quella del suo impero, e la statura di un cadavere a quella della sua fossa. Non hai tu l'America per regno, e l'America per sepolcro? Io non ho nulla, un violino ed una corda; la ricchezza di ogni impiccato, un legno ed un laccio. Il vento della notte si è quetato: sentite come il silenzio pesa nell'ombra, e come l'aria si è fatta densa. Avete mai pianto, signora? Avete mai fatto piangere? La ferita che sanguina e il dolore che lagrima, non essendo mortali, sono quasi sempre curati; ma la scienza non ha rimedi per le ferite incruente, nè la pietà consolazioni per i dolori muti. Non vi sono ospedali per i malati dell'anima, non vi sono ricoveri per gli invalidi del pensiero. Voi siete bella e ricca, nobile e giovane. Nata nell'accampamento dei conquistatori, sotto una tenda di seta, siete sempre passata per il mondo nei carri della vittoria. Le livree dei vostri servitori sono più splendide del mio abito di rapsodo; i cavalli della vostra calesse avrebbero potuto servire per la biga di Cesare. Quando, sola o a braccio di qualche principe, vi chinate a cogliere un fiore del vostro giardino, non avete mai pensato che centomila povere donne errano pei campi cercando un filo di gramigna, o frugano coll'unghia la terra per scovarvi una patata. Buona come tutti quelli, che ignorano, siete naturalmente insensibile come tutti quelli, che non hanno sofferto. Il vostro appartamento è ammobigliato come la più doviziosa fantasia di poeta: il vostro cuore è gremito di una folla sfarzosa come un teatro. Qualche volta vi sono entrato, ma come uno straniero, al quale la volgarità dell'abito non attirava nemmeno l'attenzione; e ne sono uscito poco dopo come uno straniero che non aveva amici fra quella folla. Sempre che v'incontro, mi pare che voi passeggiate per il mondo, ed io vi viaggio col violino sul dorso, facendomene il giorno un istrumento per vivere, la notte un guanciale per dormire. Nato fra gli schiavi, mi toccò l'ufficio anche più miserabile di divertire i padroni con la musica, come le schiave mie sorelle con la loro bellezza. Esse mi ammirano e mi disprezzano, io non li disprezzo e non li ammiro. Fra lo scoppio degli applausi non sento mai una voce che mi parli, nelle sospensioni più anelanti del silenzio non veggo nessun volto, che mi comprenda; i fantasmi delle mie musiche traversano invisibili le sale, e si perdono al di fuori, nella notte, come una processione di defunti. Quanti ne avete contato, signora, questa sera? Forse uno, forse meglio nessuno. Un solitario non è forse un incompreso, altrimenti perchè sarebbe solitario? Nullameno il mio braccio non fu mai più potente, nè la mia anima più commossa. Avevo ancora una speranza nel cuore, povera ammalata, alla quale non aveva giovato il sole di nessun clima e la brezza di nessun mare, e che è morta di freddo, come muoiono tutti gli ammalati. Avete sentito l'ultimo rantolo della sua voce, l'ultimo sguardo dei suoi occhi? Essa è morta in questo gabinetto, mentre voi non l'ascoltavate nemmeno morire! Ascoltatemi dunque — Addio, ultimo vapore del mare disseccato, ultimo rumore della terra deserta. Figlia della fede, che illumina, e della carità, che riscalda, tu sei morta nelle tenebre, come la fede che è una luce, e nell'acqua, come la carità che è un fuoco. Che avresti tu fatto nella solitudine del mio pensiero, che avresti tu detto nel silenzio del mio cuore? Addio dunque, figlia primogenita dell'ideale, sorella cadetta del dolore. Il cielo è nero, il tempo è freddo. Dove vuoi tu che ti seppellisca? Nel deserto, il Simoum verrebbe a scoprirti, dopo che le sabbie avrebbero corrosa la tua bellezza di morta: nel mare, sei troppo leggiera, e galleggeresti eternamente alle pioggie ed al sole. Poichè non ami più il canto degli uccelli e il profumo dei fiori, l'oasis non ti è sepolcro conveniente: e giacchè sei morta per tutti, il mausoleo dell'arte coi suoi cadaveri di marmo non potrebbe ricordarti a nessuno. Nullameno mi bisogna pur seppellirti. Se il cielo non può ricevere il tuo spirito, perchè tu eri una virtù della terra, e la terra non può ricevere il tuo corpo di vapore e di luce, ti depongo sotto questo baobab antico, e ti abbandono. Dormi adunque in pace, tu, che vegliavi anche nelle mie notti; riposa dunque nel sonno, tu, che non eri mai stanca. Addio per sempre. Addio, speranza, che salisti per tutte le sfere della vita; addio, granito, che diventasti terra; terra, che diventasti fiore; fiore, che diventasti colomba; colomba, che diventasti donna: addio, donna, che fosti rassegnazione; addio, uomo, che fosti costanza; addio, amore, che fosti generazione; addio, generazione, che volevi essere immortalità; addio, speranza, che sei vissuta e sei morta, sei morta e non risorgerai. Senza lagrime, perchè le lagrime sono dei fanciulli, e tu sola in me sapevi piangere: senza lamenti, perchè i lamenti non erano che l'espressione della tua impazienza, e adesso sei paziente, perchè sei morta, ti depongo qui nell'abbandono. Addio, passato, che dilegui; futuro, che dissipi; presente, che ti risolvi. Addio, speranza; addio, mamma della mia morte; addio, figlia della mia vita. — Adesso il mio strumento non ha più che una corda, e la mia vita un giorno; però se si romperanno ad un tempo, la corda farà forse più rumore della vita. Tutto è finito, vi ho detto tutto; e voi non potete aver compreso. Forse se sapeste che la mia vita è sospesa a questa corda, e che io stesso col coraggio del giustiziato, il quale accelera il proprio supplizio, l'ho tentata con tutti gli sforzi; se poteste sentire come cede, e cosa dicono i suoi stridori, e cosa tace il mio silenzio: se in quest'ultimo minuto, coll'audacia di chi ha davanti a se stesso l'eternità, solo, nell'ombra che è già la morte, e nel silenzio che è già l'oblio, vi urlassi la mia indicibile parola, rompendo nel suo singulto la corda:

Ah!

E la corda si ruppe con uno schiocco violento. Egli alzò la testa, che teneva piegata sulla tastiera, e lasciandosi cadere l'arco con un gesto trasognato, andò lentamente ad abbattersi sopra una poltrona.

La notte era buia, il gabinetto era nero.

Allora la signora, levandosi adagio, venne ad appoggiarsi come una visione alla spalliera della poltrona. Una pallidissima aureola bionda parve tremarle sulla testa. Poi si chinò sopra di lui colla lentezza di un'ombra, s'intese un soffio, e l'aureola si spense.

Quartetto

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