Читать книгу Il 1859 da Plombières a Villafranca - Alfredo Panzini - Страница 3

Prima.
INTRODUZIONE STORICA.

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Nel secolo passato, come si diceva sino a nove anni addietro; ora diremo nel secolo XVIII, le guerre duravano molti anni. Anzi si può dire che tutta la prima metà di quel secolo così singolare, che comincia col Metastasio e finisce con la «Marsigliese», fu tutta una continuazione di tre guerre, che si trascinarono per la bellezza di quarant'otto anni, qua e là per l'Europa come una pestilenza.

I popoli, cioè i fedelissimi sudditi, avevano da tempo osservato che dietro alla guerra veniva spesso la peste vera e la carestia e perciò si erano abituati a notarle come tre fatalità, e pregavano il Signore di tenerle lontane:

a peste, fame et bello, libera nos, Domine!

Ma che fossero una fatalità non pare proprio, se è vero che i serenissimi principi potevano a loro talento scatenare i nembi di queste guerre come Eolo faceva dei venti.

Bene è vero però che in quella prima metà del secolo, all'infuori di eserciti imperiali, cioè austriaci e alemanni da un lato ed eserciti gallo-ispani dall'altro, densi di archibusi, e comandati da marescialli imparruccati, instivalati, isperonati, e loro coorti, altri nembi non cavalcavano per l'aria serena. Il nembo della ribellione era tuttora nel cervello dei filosofi e appariva in forma di leggiadre nuvolette, come il polline dei fiori. Anzi quando la tempesta del fiero Marte s'era trasportata d'uno in altro paese, dalle riposate ville o dai bei palagi qualche Nice incipriata udivasi sospirare:

Se cerca, se dice:

L'amico dov'è?

L'amico infelice,

Rispondi, morì.

Nè si deve d'altra parte pensare che questi eserciti nelle loro zuffe o battaglie si decimassero scambievolmente, perchè se così fosse stato, dopo tante battaglie e in tanti anni non sarebbero rimaste in piedi che le parrucche e gli stivaloni. Anzi tutto la scienza chimica e la meccanica non avevano posto a disposizione del progresso tanti rapidissimi e perfetti congegni di morte; ed inoltre appare evidente che quelle antiche milizie, se trovavano professionalmente utili le guerre lunghe, non altrettanto utili dovevano trovare le guerre micidiali.

Queste guerre furono tre, e tutte e tre ebbero il nome di guerre di successione, perchè furono cagionate dal diritto che i Serenissimi Principi avevano o credevano di avere alla successione di un trono rimasto vacante. E prima fu vacante il trono di Spagna e la guerra arse per 14 anni, cioè dal 1700 al 1714; poi fu vacante il trono di Polonia e la guerra arse per altri 5 anni, cioè dal 1733 al 1738; in ultimo fu vacante il trono d'Austria e la guerra arse dal 1740 al 1748. Dopo si fece la pace che ha il bel nome imperiale di Acquisgrana, anzi, cosa singolare, i Serenissimi Principi, venuti ad occupare, per effetto di quelle guerre, i troni d'Italia, si posero a restaurare la nuova casa a beneficio dei fedelissimi sudditi. Se non che un bel giorno quel polline diventò nembo, quel venticello leggero di fronda filosofica, bufera. Tutto il cielo si oscurò dalla parte di occidente, dove è la Francia, e in quel buio lampeggiò una cosa orribile: la mannaia della ghigliottina. Poi apparve sull'Alpe un giovane pallido, Napoleone. La bufera scoppiò anche da noi e spazzò quei restauri ed anche quei Serenissimi Principi.

Da allora in poi altre case per il popolo ed altri restauri domanda il popolo.

Era quello un ben felice tempo per i Re e per i Principi, giacchè tanto le terre quanto i sudditi si ritenevano come una specie di loro proprietà privata, concessa da Dio: il tempo delle monarchie assolute e del diritto divino, come dicono gli storici. Oh, non che tutti i Re governassero a loro talento. Governava chi poteva, come sempre è avvenuto. Ciambellani, gran signori, gran dame, confessori governavano anche: un complesso di interessi che si connettevano o si ritenevano congiunti agli interessi supremi del trono alla cui ombra fiorivano quei signori.

Dunque era proprio morto il re di Spagna, l'erede di Carlo V e di Filippo II, due nomi che hanno riempito tanto il mondo di sè, che vivono anche nei romanzi: il sole non tramontava mai nei suoi Stati: egli era tramontato. I cortigiani, secondo il rito, lo avranno chiamato per nome e gli avranno chiesto gli ordini: ma il re non ha risposto. Era morto e non lasciava erede alcun figliuolo; ma un nipote, che a sua volta era pronipote del più folgorante di questi re, il re di Francia, così folgorante anzi che era chiamato il Re Sole, era stato nominato erede. Se non che l'imperatore d'Austria avanzava anch'egli diritti, come parente, a quel bel trono di Spagna. Grande era la potenza di questo imperatore, e grande il suo retaggio. Tuttavia ambiva anche al trono di Spagna ed alla monarchia universale, come al tempo dei Cesari romani del cui nome era erede, e di Carlo V, di cui pure egli era erede. Io non parlo degli aspiranti minori che non furono pochi.

Questa ambizione dell'Austria poco piacendo alla Francia, e viceversa, i contendenti ricorsero all'eloquenza del cannone: i cannoni su cui era impresso tra fregi adorni il motto: «Ultima razon de Reyes, ultima ratio regum», per dire che i re non avevano bisogno di ricorrere ad alcun Areopago o giudizio di popolo nelle loro contese.

Dopo quattordici anni, quanto potrebbe durare una causa per successione presso i nostri tribunali, cioè nel 1714, le armi avendo dato ragione al nepote del re di Francia, avvenne che il trono di Spagna a lui si rimase. Ma l'imperatore d'Austria aveva per tanti anni combattuto per niente? Era pur dovere ricompensarlo. Ebbene gli furono dati quei possessi che la Spagna da due secoli circa aveva in Italia, cioè buona parte d'Italia: il reame di Napoli, la Sicilia e la Lombardia. Se non che dopo alcuni anni gli stessi contendenti, cioè Francesi e Spagnoli da un lato e Imperiali dall'altra, essendosi trovati di fronte ancora per un'altra successione e il cannone avendo questa volta dato ragione all'Imperatore, il reame di Napoli e la Sicilia furono dall'Austria restituiti alla Spagna; e più precisamente se ne formò un piccolo e bel regno ad esercizio regale ed a conforto dei figli di Filippo Borbone. E fu in tale modo che cominciò in Italia quel dominio dei Borboni di Napoli, il quale durò per 126 anni, cioè sino al 1860. E in simile modo spenta la vecchia casa dei Medici in Toscana, vi si costituì un altro secondo regno, anzi gran ducato, a conforto dei figli dell'Imperatore d'Austria di Absburgo-Lorena, che durò sino al 1859; e in simile modo spenta la casa dei Farnesi in Parma, se ne formò un altro piccolo regno, anzi ducato, a conforto di un altro figliuolo di Filippo Borbone, la cui successione durò pure sino al 1859. E in simile modo per la pace di Aquisgrana, fu assicurata la Lombardia a Maria Teresa, di cui vive ancora la buona memoria in queste terre lombarde, benchè i successori di lei, quando del '59 si accomiatarono, non lasciassero certo nessuna brama di sè.

Ma dunque l'Italia serviva come ricca merce di compensazione ai soccombenti in queste liti di Re? Dunque spenta una dinastia se ne sostituiva un'altra senza consultare il popolo? E il popolo d'Italia non insorgeva a simili mercati? Quel popolo d'Italia che vediamo nella lontananza dell'Evo Medio così pronto alle armi ed al sangue, così geloso dei suoi diritti, così indomito nelle sue passioni, che oppresse un primo e un secondo Federigo, pur d'onore sì degno, quel popolo che oggi s'aduna nei comizi e può imporre la sua volontà ai governanti, nulla vedeva, nulla sentiva allora di simili obbrobriosi mercati?

O come la profezia dei nostri profeti, di Dante, del Petrarca, del Machiavelli si era compiuta! Ma dove era allora il popolo d'Italia? In verità v'erano dei nobili e dei cavalieri i cui privilegi non erano offesi per nulla da tali mutamenti politici. V'erano molti monaci e molte monache le cui dovizie e la cui troppo riposata vita non era turbata. Molti briganti e banditi pur v'erano la cui vita non era turbata, molto artigianato libero e tranquillo, moltissima plebe pasciuta, o rassegnata, a cui poco importava di Francia e Spagna, «basta che s'magna», come dice ancora il motto. Molti poeti pur v'erano che si ricordavano talvolta di variare il lamento su l'Italia, destinata a servir sempre, o vincitrice o vinta, una specie di fatalità, come la guerra, la fame e la peste. Del resto, questi numerosi intelletti canori erano onorati presso i Serenissimi Principi in premio di loro belle poesie per le nascite, per le morti, per le nozze, per le monacazioni, per l'esaltazione degli eccellentissimi prelati.

E poi l'Italia con la voce dei Papi non comandava ancora «urbi et orbi»? e l'Imperatore d'Austria non rappresentava i Cesari? e quell'insalatuzza degli orticelli d'Arcadia non dava ancora l'illusione di un primato intellettuale? Era un così dolce stare tra quei boschetti d'Arcadia, quando un grido atterrì: era l'Alfieri. Era un così tranquillo occuparsi di antiquaria, quando una voce disse: occupatevi della Vita. Era il Leopardi. Ma quanto tempo occorse perchè quelle voci fossero udite!

*

O dolce conforto del non vedere e del non sentire, che il pietoso Iddio regala ai popoli destinati ad essere servi degli altri!

Queste tre guerre furono combattute anche in Italia, benchè gli Italiani non facessero, essi, la guerra: la subissero soltanto, e con le sue conseguenze. Ma è bello ed è comodo trasportare il trambusto di Marte nella casa degli altri, specialmente quando essa vi si presta bene per la sua posizione. Infatti il dolce piano

che da Vercelli a Marcabò dichina,

pareva fatto apposta per le battaglie tra l'Impero, la Francia, la Spagna.

Questa cosa, del resto, era avvenuta anche due secoli prima, nel Cinquecento, quando la patria nostra non «era soggetta ad altro dominio che de' suoi».

Allora i magnifici signori e le potenti republiche nostre avevano con quel buon gusto che li distinguea assistito allo spettacolo di battaglie da giganti che in quel bel piano ci avevano favorito un cattolico Re di Spagna e un cristianissimo Re di Francia. Non solo assistito, tanto che l'Ariosto ne avea tolto il modello per le fantastiche guerre del suo folle Orlando, ma vi avevano anche partecipato, ciascuno secondo i propri interessi, ben si intende. Ci fu anzi una volta che in una di quelle battaglie uno di questi signori, forse in un istante di lucida visione, disse ai suoi artiglieri irresoluti se tirare contro gli Spagnoli azzuffati coi Francesi: Tirate senza timor di fallare chè son tutti nostri nemici.

Ci fu anche un Papa, un vecchio bizzarro ed energico che leggeva Dante, il quale gridò: Fuori i barbari! Ma tranne questi casi isolati, noi Italiani fummo di una ospitalità classica: ospitalissimo fu Ludovico il Moro, il quale se non avesse dichiarato che l'Italia non l'aveva mai vista nè conosciuta, e che conosceva soltanto i suoi privati interessi, sarebbe stata la mente politica più fine del secolo XV. Ospitalissimi i nostri olimpici signori. Li accolsero nei loro incantevoli palazzi quei re d'oltremonte, li intrattennero in belli e savi discorsi di filosofia e di politica: l'Ariosto fece omaggio del suo folle Orlando: un pittore, il Tiziano, ritrasse le sembianze del più potente di questi re; un orafo, il Cellini, battè spade, elmi e corazze per l'altro re suo rivale: vi furono anche scambi di doni nuziali, finchè un bel giorno i signori d'Italia, così maestri nel «tessere una fraude», si avvidero di essere frodati. Uno di questi re, anzi re ed imperatore, ci aveva piantate le tende.

Fu il popolo spagnolo che ci piantò le tende allora, e l'imperatore e re fu Carlo V. Un Papa, di nome Clemente, e quindi un altro Clemente, benedissero quell'imperatore e quelle tende, e costui li compensò aiutandoli a dare reale consistenza al lungo ambizioso sogno dell'Evo Medio, cioè a consolidare nel cuore d'Italia quello Stato della Chiesa che paralizzò il cuore d'Italia: grave accusa, in verità, contro il governo dei preti, e certo ad essi, che sono sottili dialettici, non mancherebbero nemmeno oggi buoni ragionamenti per dimostrare che quello Stato era reclamato da san Pietro o che quella morte in terra aiutava a conquistare la vita in cielo. Malauguratamente sino da quel Cinquecento il Machiavelli si fa publico accusatore di un'accusa molto grave: quando dice che è merito della Chiesa se l'Italia ha perduto ogni religione. Gli Spagnoli ci tennero le tende per quasi due secoli e ci insegnarono tutte le loro qualità cattive, tenendo per sè le buone.

Dopo, come abbiamo veduto, ve le piantarono gli Austriaci quelle tende che il Manzoni nel 1821 e nel 1848 consigliava di levare, adducendo inoppugnabili ragioni di diritto divino ed umano:

O stranieri, levate le tende

Da una terra che madre non v'è.

Se non che l'Austria riteneva quelle tende legittime e collocate da Dio, e tutto dà a credere che non le avrebbe mai levate di suo spontaneo volere.

*

Bel campo, dicevamo, per le battaglie questa, ahi, non più nostra Italia! E così avvenne una seconda volta durante le tre guerre di successione: scorrazzavano per le nostre terre e città eserciti imperiali ed eserciti gallo-ispani, e vi dimoravano per lunga stanza ed i buoni cittadini erano consigliati a far lieto viso, le dame a danzare in onore dei generali e marescialli, i municipi a pagare le spese. Erano fieramente nemici i gallo-ispani degli imperiali, ma in questo andavano d'accordo. Ci fu una volta, in una di queste città papaline, che uno di cotali eserciti imperiali annunciò la sua gradita partenza dopo un lungo periodo di saccheggi, uccisioni e feste per le nozze di una figlia di Maria Teresa. Prima di partire gli ufficiali del principe, generale supremo, fecero sapere ai consoli della città come fosse cosa di dovere e solita a praticarsi in ogni terra occupata da un esercito, l'offerire, allorchè questo è in procinto di andarsene, un conveniente regalo al generale, all'effetto di obbligarselo ed avere riguardo al territorio. I consoli con dignitosa prudenza risposero di conoscere il loro dovere; ma la Comunità versare in tali strettezze per le ingenti spese sostenute nell'onore di mantenere l'imperiale esercito, che non potevano spremere dall'erario la benchè minima somma. Allora quei signori dichiararono che il non dare ascolto al benevolo loro suggerimento equivaleva a vedere saccheggiata la terra. Fu adunato il consiglio della città e si deliberò di offrire al principe generale una borsa con duecento cinquanta zecchini. Tenue offerta! Ma le belle parole, umili, ossequiose; gli augurî di ogni prosperità a lui ed alle armi cesaree, fecero a Sua Altezza accettare il dono, oh non confacente alle obbligazioni che la città gli professava! Ma partiti gli imperiali, ecco sopraggiungere i gallo-ispani!

Le gravezze dei balzelli e le brutalità dei soldati erano giunte al punto che quelle non si potevano più nascondere sotto il cerimonioso sorriso, nè queste confortare con la fatalistica e pulita espressione della «militare licenza». Si rivolsero quindi al legittimo signore, che era il Papa, anzi al signore del mondo. Era presumibile che egli non potesse imporre un poco di rispetto per le sue proprietà, almeno a questi re e imperatori cattolici e cristianissimi? Ma il Papa rispose dolentissimo che quei re cattolici ubbidivano più volentieri alle armi e alla voce del cannone che alla sua, la quale si trovava senza il sussidio delle armi e dei denari. Poteva ben compatire, ma nulla fare in aiuto. Era proprio il caso davvero di aver fatto tante feste, tanti tridui, tanti ringraziamenti all'Altissimo quando quelle città passarono sotto il dominio del Papa!

Questa umiliante consuetudine di fare buon viso e festa, volta a volta, ad eserciti nemici ci rimase, è doloroso il dirlo, nel sangue sino a tempi a noi vicini. Oh, quante volte «fuori i lumi!» per i Francesi, quante altre «fuori i lumi!» per gli Austriaci! E il gonfaloniere coi signori della città farsi incontro sino fuor delle porte, col sorriso sulle labbra e l'angoscia nel cuore, a corrucciati generali cavalcanti, e porgere le chiavi della città su cuscini di velluto assicurando che i buoni cittadini avrebbero sfarzosamente illuminate le vie, fatto scelti concerti, le dame ballato, e il Comune pagato! Sono sessant'anni appena che queste miserabili cose più non avvengono: il popolo, ohimè!, non le ricorda nemmeno: ma ci si accusa e noi ci accusiamo tuttora di mancare di educazione politica, ma con tanto alternarsi a brevissima distanza di tempo di grida coatte: Viva Napoleone! viva Francesco I nostro signore, viva il Papa, viva la Rivoluzione, viva la Libertà, viva la Forca, viva Murat, viva l'Austria, come era possibile imprimere ad un popolo l'educazione politica? Mi sta a mente un minuscolo fatto d'arme, ricordato pur ne' manuali scolastici. Nel marzo 1831, il dì venticinque, un pugno di animosi presso le Celle a un miglio da Rimini, su la via Emilia, fece fronte all'esercito tedesco. Ma le prime avanguardie austriache non chiesero: dove è il nemico? chiesero: dove sono i briganti?

I briganti! Oh, lo dicevano in buona fede e molte timorose coscienze da noi vi credevano. La storia di questi briganti che affrancarono un popolo e poi furono venerati come martiri ed eroi, è gran parte della nostra storia recente!

Ma quale nenia malefica era stata cantata? quale veleno di sonno era stato propinato a questo popolo già così indomito, insofferente, feroce, fecondo? Fin la fecondità materiale della generazione parve avere sosta! Per qual delitto d'audacia fu l'Italia punita? Torquato Tasso domanda ai gesuiti un confessore che lo assolva di grande peccato. Ultimo grande della Rinascita, in che hai mai tu peccato? Quella grande rivoluzione del pensiero, la Rinascita, fu dunque così mortale peccato? Così grande peccato che solo le fiamme che arsero le carni di Giordano Bruno parvero pena condegna? Sommessamente, umilmente davanti al tribunale del Santo Ufficio, in Roma, Galileo osò ripetere: Eppur si muove! Non fu il rogo che annienta, fu un'altra forma di annientamento: la segregazione da ogni essere umano del mirabile vegliardo affinchè quella voce non fosse più udita: ma essa volò e si diffuse come il santo spiro di Cristo fuor dell'avello![1]

*

Quando discesero i Francesi in Italia col Bonaparte, e ciò fu nel 1796, parve, come dopo lunga afosa stagione, il sorgere al confine del cielo di un temporale nero come la pece. Fiamme e lampi balenavano dietro e ne solcavano i margini. Pochi istanti ancora ed ecco si leverà il vento. Chi ha le messi all'aperto s'affretta a nasconderle: porte, finestre siano sbarrate. Hanno ucciso il loro re, hanno abolito Iddio! Che mai sarà di noi? Chi può, come don Abbondio all'arrivare dei lanzichenecchi, prende la via dei monti. Nascondete sotterra i tesori, le reliquie. Le vergini, le caste monache siano pur esse nascoste; e si attende immobili, col cuore che palpita. La nube nera è squarciata da fulgori d'armi e cannoni; eccoli, eccoli, sono arrivati, hanno tutto spazzato, tutto vinto. Il re del Piemonte come una festuca, quattro antichi eserciti del sacro romano impero dell'Austria sono stati da quelle furie francesi spezzati come verghe di un inutile fascio: i signori di Milano su cuscino prezioso hanno, tremando, offerto al giovanetto guerriero le chiavi della città. Attila s'arrestò davanti a papa Leone: non s'arresterà il Bonaparte: un grido lo precede, l'antico, immutabile grido del diritto della forza: «O soldati, avete riportato sei vittorie, avete ammazzato o ferito più di dieci mila persone; avete vinto battaglie senza cannoni, passati fiumi senza ponti, marciato senza scarpe, alloggiato allo scoperto, etc.». Sostò appena al petrone dove Cesare arringò le legioni dopo il Rubicone e mosse contro Pio VI. Solo gli immobili santi nelle arche secolari possono dare aiuto e San Marco a Venezia e Verona, e San Gennaro a Napoli, e Santa Maria a Genova; Santa Maria, dal cielo lontano, è invocata dal popolo. E il popolo è pronto a combattere per i suoi santi e per i suoi signori. Ma i signori di Venezia non han membra che per tremare, non han voce che per proclamare un atto di viltà così grande che il mercato di Campoformio può sembrare quasi espiazione.

Il re di Napoli, Ferdinando IV, che s'era avanzato sino a Roma, ebbe tronca dal terrore una vana parola di iattanza: è precipitato a Napoli, di lì salperà coi tesori, con le ree femmine, Carolina, Emma Leona, per Sicilia. Più lontano fuggire non può.

Orribili a vedersi, in istrane fogge, laceri, sordidi di polvere e di sangue; ma tante terre hanno corse, tanto sangue hanno sparso!

Voi non li capite? Ma se rulla il tamburo e canta la «Marsigliese», voi li capite. Voi tremate? E che? «Anime timide; e voi, bocche perfide, cessate di spargere il vostro veleno. Noi siamo qui per proteggere l'innocenza, la probità, la virtù!»

I cuori cessarono di battere. Stupri, uccisioni, rapine, non ne fecero essi di più che gli antichi imperiali e cattolici eserciti. I Lazzari, feroci, domandarono onore per San Gennaro, e fu concessa al santo una guardia d'onore. Del resto, c'erano i nuovi santi e i nuovi inni: «Liberté, égalité, fraternité», l'albero della «Libertà», il vessillo tricolore, «Allons enfants de la patrie», «Ça ira». Rullava il tamburo e si capiva; torme poi di Italiani, scomunicati e indiavolati anch'essi, con nomi nuovi alla francese, giacobini e patriotti, seguivano gli eserciti della Rivoluzione e facevano da interpreti. In fondo si trattava di ballare, ballare a tondo la «Carmagnola» e le donne e i giovani — ben lo sapete — imparano presto le nuove danze e si vestono volentieri delle nuove fogge. Si trattava anche di veder fuggire atterriti gli antichi padroni, i preti ed i signori nobili: spettacolo crudele: ma questa soddisfazione accade così di rado che quando accade ci prende sempre gusto il popolo.

Questo temporale durò tre anni (1796-1799), e dove prima sorgevano ducati, granducati, regni, sorsero tante piccole republiche, generate convulsamente dalla grande madre: la Francia.

Se non che nell'anno 1799, al tempo che Napoleone inseguiva in Oriente non so qual suo meraviglioso sogno dietro le orme di Alessandro, ecco la tenace e formidabile Austria, collegata alla Russia, ridurre in breve tutta Italia alla fortuna di prima. Fuori i lumi, adunque: giù l'Albero della libertà. Si intuoni dai re e dai popoli il «Te Deum», si esponga il Sacramento. Bonaparte è tornato! Ma Bonaparte è vinto! L'infame Bonaparte è vinto, il vecchio generale austriaco Melas, sempre nei fatali campi d'Italia, lo ha vinto. Messi a spron battuto ne diffondono la gran nuova. A Livorno è giunta la regina Carolina moglie del re di Napoli, sorella dell'imperatore d'Austria, sorella della decapitata Maria Antonietta. Ella si affretta a Vienna a domandare più vasto regno: il sangue sparso dei patriotti napoletani non ha saziato la sua vendetta: altro sangue e più vasto regno domanda. Ma ecco nella notte ella è desta: un nuovo messo è giunto. Ella, nell'aprire il foglio diceva: leggiamo la fine del presuntuoso esercito di Buonaparte. Ma quando lesse la disfatta del Melas, instupidì, rilesse come incredula il foglio, le mancò la luce e si appoggiò morente alla donna che l'aveva desta.[2]

Oh, è ancora la dolce primavera, l'astro di Napoleone non tramonta, anzi sale con l'estate al suo grande meriggio; tredici anni durerà quell'estate purpureo, spentosi contro le brume e il gelo del Nord. La dolce terra di Francia ne ha a gioire come ai tempi d'Orlando. La vendetta dei re maturerà nell'odio ancora tredici anni.

Napoleone dopo Marengo fu ancora arbitro del mondo e d'Italia. Egli con la spada la tagliò come un bel manto antico; col pezzo più unito e piano fece prima una Republica e poi un Regno; e di stoffa regale tanta ne avanzò, che ne diede alla Francia, ne vestì i parenti, le sorelle orgogliose. E tu, madre mia, nulla vuoi? Nulla volle Letizia. Lunga vita e lungo martirio ebbe solo quella lungi-veggente.

Dopo la battaglia di Marengo furono di nuovo esposti i lumi per la Francia e fu cantata la «Marsigliese». Certamente molte cose in quegli anni mutarono, ma non così profondamente come può credersi pensando al principio di quel moto, cioè alla Rivoluzione. Le rivoluzioni hanno una certa somiglianza col corso dei fiumi. Noi vediamo i fiumi presso le loro sorgenti precipitare dai monti con impeto così grande che fanno paura e diciamo: Guai se essi devono seguitare così! Oh, non seguitano. Appena giunti al piano, dilagano e prendono corso tranquillo.

Napoleone quando prese nome imperiale, mutò il rito; non si fece incoronare dal sacerdote, ma, come tutti sanno, si pose egli stesso la corona ferrea sul capo, pronunciando quelle famose parole che fecero stupire tutti e sorridere qualche filosofo: «Dio me l'ha data, guai a chi la toccherà!» Chi sa che anche egli non abbia creduto a quelle parole! Gli eroi dell'azione se non avessero fede nel sogno della loro onnipotenza, rimarrebbero inerti come certi eroi del pensiero.

Mutò il rito e rimase l'impero: risorsero i titoli di conte, duca, marchese: scomparvero le immobili ricchezze del feudo e delle chiese; nacque la nuova, mutabile e maggior ricchezza dei traffichi e delle industrie. Cessò la tirannia dei nobili, germogliò quella che dovea crescere così fiorente, e fu detta tirannia borghese, e forse oggi è nata nuova tirannide

che l'una e l'altra caccerà di nido.

Poi Napoleone cadde in un tragico precipitare. Guerra di Spagna, di Russia, Lipsia, Waterloo, sono le tappe di questa caduta. Ritornò ancora l'Austria in Italia tenendo a mano i piccoli principi: fu cantato il «Tedeum» ancora, furono restaurate o, meglio, si desiderò di restaurare le cose come prima.

*

Ma a questo punto noi ci domandiamo: In questo alternarsi violento dal caldo al gelo, dall'azione alla riazione, dal «Tedeum» alla «Carmagnola», quale mutamento intimo, molecolare, era avvenuto nelle fibre del nostro popolo? e le plebi asservite che cosa avevano imparato dai così detti immortali principî dell'ottantanove?

La risposta è difficile, ma ricordo che Michele il Pazzo, capo dei Lazzari, richiesto che cosa fosse uguaglianza, rispose: Poter essere lazzaro e colonnello. I signori erano colonnelli nel ventre della madre: io lo sono per la uguaglianza. Allora si nasceva alla grandezza, oggi vi si arriva. E dietro Michele il Pazzo sta tutta una schiera di morti, tragicamente sublime in quello sfondo sereno e ridente di Napoli: Caracciolo, Mario Pagano, Domenico Cirillo.

Un giovinetto fremente incominciava in quegli anni un suo libro con le parole: «Il sacrificio della patria nostra è consumato». Venezia, infatti, fu sacrificata, ma dietro le sorgeva più grande patria, l'Italia.

Meneghino, che dal tempo della battaglia di Legnano si era disabituato alle armi, imparò a marciare e a fissare in volto il nemico.

Il «giovin signore» meditò su la politica e su le congiure: affronterà la carcere ed il patibolo.

Pantalone, Brighella, Florindo ebbero un grande colpo in quegli anni e ne morirono, almeno come maschere.

L'ultimo arcade ed abate si chiamò Giuseppe Parini, e dopo di lui i poeti non fiorirono più all'ombra dei troni, ma fra il popolo, e molti di essi oltre alla lira portarono la fiaccola e la spada: Ugo Foscolo, Giovanni Berchet, Goffredo Mameli.

Di republica o di monarchia, di federazione o di unità si occuparono i nostri studiosi, per conforto di Napoleone, anzichè di antiquaria e di arcadiche ciance. Un vessillo anche ne fu dato!

Infine in quegli anni furono seminati i denti del dragone da cui nacquero i liberatori della patria: Garibaldi, Mazzini, Cattaneo, Carlo Alberto, Cavour, ecc. Nacquero «sub Julio», sotto il nuovo Cesare, sotto Napoleone.

Ma una mutazione non meno interessante si compì anche nei Serenissimi Principi, i quali, da allora in poi, si trovarono turbati nella loro serenità e dichiararono ai popoli che per l'avvenire li avrebbero governati da buoni padri. Dichiarazione preziosa che fa supporre il riconoscimento di aver governato molto male per il passato. Oh, li aveva ben ammoniti il Petrarca sin da lontano:

Qual colpa, qual giudicio o qual destino

Fastidire il vicino?

Ahimè, gli ammaestramenti in poesia e in filosofia persuadono poco; ed è mortificante il pensare che occorra la Rivoluzione e il tamburo della rossa «Marsigliese» per insegnar qualche cosa!

Dunque fu un gran bene la Rivoluzione francese? E di Napoleone lascieremo sempre l'«ardua sentenza» ai posteri? Bisognerà pur dire qualche cosa e dell'una e dell'altro, pur essendo persuaso di non piacere a nessuna categoria di lettori.

Noi nelle scuole, nei libri, nei discorsi, abbiamo imparato a considerare la Rivoluzione francese il più gran fatto del mondo; il sangue delle sue vittime ci parve una purificazione e, svanendo, divenne come una cornice purpurea intorno a un quadro di incomparabile potenza e le disperate grida noi non le abbiamo udite, perchè suonava così giocondamente, così terribilmente la «Marsigliese» che non si potevano udire! Le orride megere[3] attorno al palco della ghigliottina in Parigi ci parvero giuste come le Parche. Abbiamo imparato che Marat aveva nel cuore il dolore dei secoli. E come noi, tutti, che assistemmo da un posto più o meno distinto al dramma meraviglioso; e se qualche solitario osava criticare o zittire, noi non chiedemmo: Perchè disapprovate o zittite? ma dicemmo: Fuori!

Questo giudizio si è alquanto modificato da quando, per un bizzarro privilegio concesso a chi medita, siamo potuti entrare nel palcoscenico dove si svolse quel dramma. Ma di questa modificazione di giudizio è inutile parlare: esso è cosa più che altro soggettiva, mentre cosa obbiettiva è il fatto che la Rivoluzione di Francia è stata la generatrice della età nostra, nel bene e nel male, in ciò che si vuol conservare e in ciò che di lei si vuole distruggere o rinnovare. È evidente perciò che i figli la venerino come madre ed evitino di discuterla.

Intorno a Napoleone poi molte poesie italiane, francesi, tedesche abbiamo anche imparato a memoria fin dall'adolescenza, ed abbiamo osato spingere lo sguardo sino all'alto vertice del suo monumento, sperso nel cielo come una guglia alpina: se non che altri, obbligandoci ad accostarci a quel monumento, ha fatto osservare che di cadaveri sono le basi, di sangue e di lagrime il cemento. Vero! ed avremmo inorridito se subito non ci fosse venuto a mente che gli uomini elevano di solito i loro edifici con simile macabro materiale costruttivo.

Ce lo hanno anche rappresentato con Giulio Cesare, cavalcante cupamente per una via senza fine, lastricata di cadaveri allineati: meno impassibile di quei truci cavalcatori. Eppure, chi sa per qual malìa, noi non abbiamo potuto odiare. La nostra ragione non ha saputo vincere il nostro affetto. Sovente anzi l'affetto disse alla ragione: Guarda: una lagrima è impietrata nel suo ciglio!

Infatti l'Austria quando di soppiatto, negli anni 1814, 1815, penetrò in Italia, trasse partito non soltanto dell'odio degli Italiani verso Napoleone per il molto oro e il molto sangue che costui richiese in quel suo ultimo, folle, disperato opporsi contro al fato; ma blandamente, astutamente cercò di insinuarsi nell'animo degli Italiani coi ricordi dell'antico tempo, delle antiche glorie municipali, della nostra storia passata. Un generale, il Bellegarde, presenta gli Austriaci come i nostri liberatori, dichiara che era suonata «l'ora della nostra redenzione», ci chiama «alla difesa comune», ci parla «dei nostri legittimi diritti». Anche di «indipendenza» ci parlarono gli Austriaci, della felice Italia formata di tante piccole patrie, delle arti anche, del piacere di rivedere gli amati principi e dell'odiato Brenno sul Campidoglio: un curioso miscuglio di antico e di nuovo fecero sventolare davanti alle nostre passioni.

Era naturale. Napoleone non cadde per effetto di un solo colpo mortale, ma molti colpi mortali occorsero, come ad Orlando, affinchè fosse atterrato. Murat e Beauharnais, benchè avversi e avversati, pur si mantenevano con eserciti in Italia; d'Italia libera ed una parlò anzi il Murat con una voce che rimbomberà fra poco, ma che allora, fra il crollare dell'immane edificio napoleonico, non potè bene essere udita. Bisognava ricorrere ad ogni mezzo per atterrare il colosso e l'Austria ricorse sino a stimolare il nostro orgoglio di Italiani. Infine l'ultimo crollo avvenne, le macerie precipitarono, la tempesta delle passioni posarono come posa la polvere dopo che un edificio è caduto; e allora apparvero nettamente le cose: apparve l'Austria.

Come e che cosa l'Austria intendesse per indipendenza lo dicono, per esempio, queste parole dell'imperatore Francesco I, che accompagnano l'alta onorificenza al Metternich, repressore dei moti del '31: «Per aver tanto contribuito a mantenere l'indipendenza negli Stati italiani».

Appare l'Austria nel suo atteggiamento vero e fatale; ed anche dai sensi più ottusi fu sentita quell'atmosfera «di taciturna oppressione quale mai non erasi, nè fu più provata, tanto maggiore quanto non ricreata da verun lampo di speranza». Queste parole si tengano a mente perchè non sono di Giuseppe Mazzini: sono di Cesare Cantù!

Allora quel fiero e fanatico ministro della reazione dell'Austria, il Metternich, torcendo a peggiore e maligno senso tutta la storia della patria nostra, dirà: «Ma che nazione! l'Italia non è nazione. È espressione geografica!» E se non basta questo oltraggio dall'oriente, dall'occidente verrà altro oltraggio: «L'Italia è la terra dei morti».

Venitela a vedere come è poetica questa terra dei morti!... Briganti fra le ruine e monaci molti fra le tombe. Al sole qualche Graziella canta.... E gli inglesi taciturni e strani infatti vengono a contemplare e pregano che tale bello spettacolo non sia mai rimosso: ma un inglese, appunto, gettando una sua romantica face fra quelle cose di morte, gridò: Si agitano dei vivi in quel sepolcreto! Giorgio Byron. Ma vediamo, vediamo ciò più minutamente.

*

Alfredo De Musset, nel principio delle sue «Confessioni di un figlio del secolo», descrive con impareggiabile pennello il senso di stanchezza e di smarrimento dei Francesi dopo quella disperata corsa dietro alla gloria e alla guerra. Si guardarono e si videro brutti di squallore e di sangue. E allora quei guerrieri ricordarono che oltre a Napoleone e alla gloria, avevano le culle e le tombe. Tale senso di stanchezza invase anche l'Italia, come quella nazione che più da presso aveva seguito le sorti francesi. Non c'è più sangue nelle vene da offrire a Napoleone? Non c'è più sangue, e molti videro in Blücher e in Wellington i nuovi Tesei che avevano liberato il mondo dal Minotauro, divoratore di giovani vite.

Se non che la Francia fu vinta soltanto, e l'Italia fu conquistata e trattata secondo il diritto della conquista.

Le grandi potenze d'Europa, coalizzate prima contro Napoleone, poi, dopo che egli fu vinto, strette in un'alleanza che fu detta Santa, imposero per re alla Francia, conforme al principio del «legittimismo», escogitato in quelle circostanze, Luigi XVIII, fratello di Luigi XVI, quel re che, a testimonianza di Samson, il carnefice, seppe morire da Re dopo essere vissuto poco bene, almeno come Re.

L'Italia, invece, fu tutta preda dell'Austria. Blandamente da prima e quasi amorevolmente, sì che molti si mossero incontro a lei. Ella ci ricordò il volto degli antichi amati sovrani e promise che ce li avrebbe ricondotti. A chi aveva imparato dalla Rivoluzione il principio di nazionalità richiamò astutamente, come dicemmo, le nostre antiche glorie e libertà comunali. A chi amava la pace, ricordò il lungo e pacifico governo di Maria Teresa. A chi odiava le novità democratiche, fece sapere che i Re grandi e gli Imperatori, stretti in una alleanza Santa, avrebbero rimesse le cose come prima. Seppe, insomma, abilmente trarre profitto di quel complesso di passioni politiche che si scatenano in ogni nazione dopo un grande sfacelo, ma che in Italia, per effetto dell'indole nostra e delle antiche dissensioni regionali, hanno maggior rigurgito e più confusa violenza. E se il Metternich non lesse il Machiavelli, dove è fatta la psicologia dei Fiorentini, ai quali per naturale disposizione «ogni stato rincresce, ed ogni accidente li divide», certo questa psicologia comprese e mirabilmente sfruttò.

Verso coloro poi che odiavano Napoleone, l'Austria aveva le maggiori benemerenze. Voi direte Lipsia, la tragica battaglia di tre giorni, voi direte Waterloo, voi direte gli eserciti imperiali risorgenti sempre dopo la sconfitta.

V'è di più: l'imperatore d'Austria gli ha infitto nel mezzo del petto una spada avvelenata: bene ha il petto di bronzo colui che vide impassibile i campi coperti dei morti: ma a tanto strazio non resisterà. La moglie sua, figlia dell'imperatore austriaco, Maria Luisa, sorride dall'incosciente volto di bambola, in Parma, odorosa di viole, ai cavalieri austriaci. Ma un più indomabile affetto aveva quel cuore di bronzo. Lo so, la storia ufficiale non ha tempo di registrare gli affetti privati dei protagonisti dei grandi drammi della vita. Ma questa ommissione è erronea. Un indomabile affetto: il figliuolo; per lui solo oramai il Minotauro folle conquistava il mondo. Al nepote dell'avvocato Carlo Bonaparte e dell'umile Letizia Ramolino egli aveva imposto il titolo trionfale di re di Roma. Di tutti i grevi emblemi dell'impero, lo aveva gravato, il bambinello! Mille canori poeti cantarono il suo nascimento. Ma noi non ricorderemo nè quei canti nè quei poeti. Ma ricorderemo che era là, su le rive della Moscova il giorno in cui mezzo milione d'uomini si preparavano a sgozzare altri uomini che un messo venne e che recava il ritratto del pargoletto sorreggente nella manina i mostruosi pesi del mondo e dello scettro.

Ricorderemo che quando Napoleone fu deposto, domandò al suocero la moglie e il figlio. E l'imperatore d'Austria negò. Ricorderemo che nel marzo del 1815, quando Napoleone riprese per cento giorni l'impero, domandò ancora la moglie ed il figlio e l'imperatore d'Austria negò. Al giovanetto fu mutato abito, linguaggio, nome. Il bel castello di Schönbrunn fu la imperiale fiorita Bastiglia ove languì, morì — nuova maschera di ferro — il figlio di Napoleone.

Dopo ciò che cosa è il «Bellerofonte» che naviga verso l'isola di Sant'Elena? che cosa è Hudson Lowe, il carceriere feroce?

Dunque bene aveva titoli di benemerenza Francesco I imperatore d'Austria per coloro che in Italia odiavano Napoleone. Ma altra cosa conviene dire per ispiegare come molti si fecero incontro all'Austria, tanto che aristocrazia di sentimenti fu detto il parteggiare per l'Austria, e in Milano quell'aristocrazia provocò un tumulto per affrettare l'ultimo crollo del dominio francese. Io voglio dire il giuoco degli interessi, la molla occulta che governa tanta parte dei fatti umani: la classe dei nobili sperò nel ritorno dell'Austria il ritorno degli antichi privilegi e nei soldati austriaci videro soltanto i buoni servi armati, che li avrebbero difesi dalla Rivoluzione.

Ma più sottile cosa conviene dire, cosa confessata a mezzo, occultata spesso, determinabile con fatica e che tuttavia è la ragione per cui i fatti si svolgono in un certo modo costante.

Molte persone, all'infuori di ogni interesse ed opinione, provano un invincibile senso di repugnanza contro la mediocrità e la viltà invidiose, procaccianti, trionfanti: queste numerose e maligne forze umane si sviluppano tanto in regime aristocratico come in regime democratico e per distruggerle io dubito che convenga distruggere l'umana natura. Ma certo in clima democratico hanno una fioritura più appariscente o se vogliamo dire in altro modo, possiamo dire che il regime aristocratico vietando molte cose, vieta nelle piazze l'ingombro e il tumulto dei ciarlatani e dei cavadenti e non permette le grida di viva o di morte che il publico alterna. Il regime aristocratico, inoltre, essendo più stabile, non permette così facilmente che sul corpo della povera volpe, caduta nel fosso, e succhiata dalle mosche canine, queste, gonfie di sangue, siano scacciate per dare posto ad altre mosche di altrettanto più avide quanto meno sono pasciute. Ora molte nature sensibili dovendo scegliere tra due mali, dànno la preferenza a quello che è meno nauseabondo.

Chi non ricorda, ad esempio, le terribili invettive di Ugo Foscolo nella «Ypercalypseos» contro la demagogia del tempo napoleonico, e le atroci accuse contro Milano, «Babylon minima», che pur fioriva di uomini insigni, compreso lui, il Foscolo, magnifico figlio di quella democrazia?

Ma la verità è questa: quei grandi sono rimasti e la turba agitata e agitante è scomparsa, come allorchè la nobile pianta è riuscita a crescere a dispetto delle male erbe che rigogliose attorno le succhiano l'umore, più quelle non teme, anzi intorno le uccide.

Certo che per allora l'Austria si presentava a molti come la giustiziera contro l'invidia demagogica, contro «quei prepotentoni di Frances», come il buon governo che riconduceva il quieto vivere e il lauto «pacchiare».

Giovannin Bongee col suo fratello Marchionn di gamb avert, avevano di che querelarsi: donna Fabia Fabron De-Fabrian poteva con amabile terrore, ma sicura oramai, parlare nel suo salotto al frate confessore delle «fellonnii» del passato tempo francese, e dei «sovvertiment de troni e de costumm».

Blandamente e con mano guantata si insinuò l'Austria in Italia: tanto che il suo ritorno venne cantato da Vincenzo Monti come il ritorno di Astrea. Ma pare che l'Austria gradisse poco, non dirò le lodi, ma il lodatore, sì che ne cercò carezzevolmente lui altro: costui era però d'altro metallo. Ugo Foscolo odorò il lupo sotto il manto del pastor buono. Preferì il volontario esilio, anzi, come dice il Cattaneo, diè primo all'Italia questa nuova istituzione: l'esilio.

Se non che quetate le cose d'Europa e d'Italia, fatta in quel generale abbattimento forte e sicura la sorte dei gran Re alleati, e prima già disperso l'esercito italico (è bene non conservare i denti nè anche alle rane), sconfitto a Tolentino l'altro esercito italico di Gioachino Murat, tra Napoleone e l'Europa l'Oceano, l'Austria divenuta arbitra delle sorti d'Italia, potè mostrarsi più schiettamente.

Signori, dichiarò l'Imperatore austriaco ai professori dell'Università di Pavia, sappiate che io non voglio gente di studio, ma voglio che mi facciate dei sudditi fedeli, devoti a me ed alla mia casa. E buoni vassalli furono avvertiti in segreto di essere i piccoli re, duchi e granduchi, che l'Austria ci riconduceva.

Oh essi, sì, erano disposti ad essere buoni vassalli! Fu decretato che tutto dovesse tornare come era prima della Rivoluzione e di Napoleone; tutto doveva essere restaurato: restaurate le decrepite ruine feudali. A mano, dunque, l'Austria ce li ricondusse gli amati principi. Ma di che avete paura? Le baionette austriache vi difendono. Egli è là, in mezzo all'Oceano.

E primo il papa Pio VII. Egli soffrì quasi il martirio per opera di Napoleone: strappato da Roma, deportato in Francia! E i pii vescovi chiusi nel forte di Fenestrelle e costretti a leggere l'empio Voltaire! Oh, i devoti sudditi non lo ricompenseranno mai abbastanza di tante afflizioni! L'Austria riconduce nel regno di Napoli anche Ferdinando Borbone: egli ha mutato nome. Non è più Ferdinando IV, ma I. È più tremante di prima perchè fu lì lì per vedersi soppiantato da Giovacchino Murat. Però i sudditi lo riconosceranno lo stesso. Le macchie di sangue dei grandi morti della Republica Partenopea, non si possono scancellare: non resta che coprirle di nuovo sangue, e quello di Giovacchino Murat sarà pur bello e generoso sangue. Poi verrà il sangue e il tradimento dei costituzionali del Ventuno, chè a tanto obbrobrio lo riserba la sua lunga vecchiezza.

In Torino a gran festa ritorna Vittorio Emanuele I, con parrucca e spadino come prima che Napoleone lo confinasse in Sardegna. Veste all'antica e le baionette austriache lo circondano. «Sed hastae regis septemtrionis circumdabant eum», come scrisse Santorre di Santarosa. S'industria con l'aiuto di un almanacco del 1793 a rimettere cose e persone come prima. Sventuratamente se si potevano restaurare le cose (diritti di primogenitura, tribunali privilegiati, procedure segrete con torture e tenaglie), non si potevano restaurare gli uomini di prima per la ragione che erano morti. Le nuove generazioni guardavano e sorridevano.

Tutto come prima, e in fatti il buon Re soleva ripetere che aveva dormito per quindici anni, dichiarazione che può fare il paio con l'altra di Ferdinando IV, cioè che egli non camminerebbe nelle vie aperte dai Francesi. Ma non aveva dormito l'Austria, chè se avesse anche lei dormito, il buon Re non si sarebbe destato sul trono. Oh ma non tutto proprio come prima! l'Austria alla Lombardia che sola possedeva nel secolo XVIII, aggiunse anche il Veneto e Venezia. Venezia era stata la più aristocratica e patriarcale delle Republiche e gran nemica della Republica giacobina francese. Avrebbe dovuto come premio di quella inimicizia e a rigor del principio legittimista essere restaurata, ma o che il nome di republica suonasse male in quell'anno 1815, o che non ci fossero legittimi principi da rimettere sul trono o piuttosto che sembrasse una bella preda agognata fino da antico, l'Austria fece proprio come Napoleone, si prese Venezia per sè. Così abituato alla docilità quel popolo di Venezia! I suoi carnevali e le sue sagre gli saranno conservati. Anche si prese la Valtellina, la quale, insieme al Friuli, cioè dall'Isonzo all'Adda, congiungeva le provincie italiane a quelle austriache direttamente, mentre nel secolo XVIII la Lombardia era separata dall'Austria per mezzo della republica dei Grigioni. Avrebbe altresì l'Austria desiderato di annettere anche le legazioni, cioè le quattro provincie di Ferrara, Bologna, Ravenna, Forlì. Così belle, così ubertose! Presidiarle, almeno! E infatti le presidiò quasi sempre sino alla primavera del 1859. D'altra parte si passava così bene per quella magnifica antica via Emilia, tracciata dal genio di Roma, ove corsero le legioni e le aquile di Mario e di Cesare! Inoltre si passava per terre amiche dell'Austria, perchè il bel ducato di Parma, Piacenza, Guastalla era stato dato a conforto della sua vedovanza a Maria Luisa, austriaca; si passava per il bel piano di Modena e Reggio, ridente di ubertà, che era stato dato a Francesco IV da Este, nome italiano e glorioso, ma sangue austriaco, ambizione e orgoglio austriaco: era cugino e cognato dell'imperatore d'Austria. Di lì si poteva ben passare in Toscana, che era stata ridata a Ferdinando IV, austriaco, che si apprestava ad applicare ai suoi popoli la cura del papavero chè già «il mondo va da sè», come assicurava un suo acuto e italicamente scettico ministro, il Fossombroni.

Stati amici e Stati «reversibili» all'Austria. Tanto amici che si risparmiano loro le spese dei soldati. Ci pensa l'Austria. Di soldati ne ha tanti l'Austria: quanti ne volete. Anche se non volete, verranno i soldati dell'Austria. Appena il gallo canterà ai dormienti nell'alba chiara, l'Austria manderà i suoi soldati dalle quattro fortezze di Mantova, Verona, Legnago, Peschiera, già che lo disse anche Dante:

Peschiera bello e forte arnese.

Dopo ciò quale meraviglia (io non dirò le sette Carbonare e Massoniche pullulanti in quegli anni) se un plenipotenziario inglese, lord Castlereagh, reduce dal congresso di Vienna, ove questi paterni Re si erano adunati a congresso, ci parla di «mercato dei popoli» fatto in Italia? Se un cardinale, il Consalvi, vagheggia una setta segreta contro l'invadenza austriaca? Se lo stesso Giuseppe De Maistre, il poeta mistico della Santa Alleanza e della forca, onora l'Italia della sua compassione? Oh non mai tanto oltraggio era stato fatto ad un popolo!

Potè l'Italia essere stata saccheggiata, lacera, corsa, più schiava, più afflitta, ma più oltraggiata, più schiaffeggiata con profumata mano, no! Sentirono gli Italiani questo mercato, questo oltraggio? Sì, lo sentirono quando il laccio al collo era ben stato messo e con un sintomo terribile che montò alla gola di quelli stessi che avevano invocato sei anni prima il ritorno di Astrea: il soffocamento, l'assorbimento. L'Austria stessa ci obbligò a reagire, a spezzare quel laccio se volevamo vivere.

Non tutto però come prima: non soltanto perchè non si volle, ma essenzialmente perchè con tutto il buon volere di un Metternich, con tutti gli sforzi del sofisma di un De Maistre, con tutto il misticismo dei gesuiti fioriti accanto ai troni, non si potè. Non si potè per la semplice forza delle cose. Le antiche corone videro l'impossibilità di rinnovellare la consacrazione se non col beneplacito dei popoli. Si desiderò, e in buona fede da molti, di restaurare i patriarcali governi di una volta, il patronato delle caste privilegiate come in antico: ma non fu più possibile. Il passato era morto per sempre! Ai popoli ai quali si erano voluti togliere i beneficî degli ordinamenti democratici, non fu possibile ridonare un'altra volta i beneficî dell'antico stato di servitù. Anzi gli stessi governi assoluti, prima l'Austria, che non volevano a nessun patto camminare per le vie aperte dalla Francia, furono costretti non solo a camminarvi, ma conservarono ciò che di meno desiderabile produssero la Rivoluzione e Napoleone: l'accentramento e la tirannide burocratica, la coscrizione, gli eserciti stanziali, e infine la gravezza dei tributi.

Sotto questo anacronismo si sfasciò la lega dei Re. La libertà non è dono della rivoluzione, ma è dono di natura. I trattati del '15 violarono questa legge di natura.

Ma per ciò che riguarda l'Italia, essa, soggetta ad uno speciale inasprimento da parte dell'Austria, ha una storia sua propria. Questa vetusta madre delle genti fu qualificata «come popolo infante, che essa, l'Austria, durava gran fatica a educare alla sapienza germanica» chiosa il Cattaneo; e la ribellione si formò spontanea e fu soprattutto ribellione di aristocrazia e di intelligenza.

Un patrizio un giorno trovò che con tutti i suoi privilegi di casta, non poteva respirare e disse: «No!» Alle frivole spose danzanti con usseri damerini, alle insensate matrone ciancianti con decrepiti marescialli, stette dinanzi la testa terribile di un loro pari, già presso al patibolo: Federico Confalonieri.

Ai buoni popoli addormentati nel queto vivere e nel bel mangiare, un poeta, come Dante i commutati in mostri della bolgia ottava, così il Berchet presenta i figli del popolo sotto la metamorfosi orrenda, come simbolo di una metamorfosi dell'anima nostra.

Ha bianco il vestito,

Ha il mirto al cimiero,

I fianchi gli cingono

Il giallo ed il nero,

Colori esecrabili

A un italo cor.

*

La storia delle armi e delle arti politiche per cui furono stracciati quei rei trattati del 1815, è la storia di questo libro.

Il 1859 da Plombières a Villafranca

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