Читать книгу Il 1859 da Plombières a Villafranca - Alfredo Panzini - Страница 5
I.
Cavour.[4]
ОглавлениеI Greci raccolsero l'antica storia nel nome di alcuni eroi, Ercole, Edipo, Prometeo; sterminatori di mostri, interpreti di enigmi, rapitori del fuoco.
Noi non abbiamo più simboli, ma anche noi raccogliamo in pochi nomi l'opera di coloro che ci diedero una patria.
Anch'essi furono eccitatori del fuoco, sterminatori di mostri, interpreti di enigmi. Noi ci accordiamo in quattro nomi, quattro figure; e, in qualche vecchia stampa di vecchie case, voi le potete vedere insieme: il Re, gran baffi, gran pizzo, gran forza; egli sta davanti, bonario ma risoluto. «A Roma ci siamo e ci resteremo!» Ha l'aria di dire proprio così. Ma Giuseppe Mazzini non ode; fa della palma letto alla guancia e sempre più s'assorbe in sè, sempre più macero e triste.
Con le mani che escono dal poncio, come da una stola, Garibaldi posa piamente su l'elsa della spada. Figura esotica; venne da lontano, da un oltremare lontano. Eppure altre volte ti abbiamo incontrato nel cammino dei secoli morti.
Ritornerai tu ancora?
Una quarta figura: una barbetta caprina incornicia una faccia sbarbata, paffuta: occhiali a stanghetta: pare un vecchio. Invece è quello che è morto prima degli altri; nel colmo teso della vita la sua vita è stata spezzata. Pare il burocratico, il segretario degli altri tre. Cavour.
Sì, un burocratico di molto concetto, un diplomatico pieno d'ordine. Eppure quel volto parve sospetto ad un occhio acuto che lo vide per la prima volta. «Si sente, si vede, si riconosce in lui il cospiratore».[5] Era von Hübner, l'ambasciatore austriaco. È vero che non doveva riuscire difficile per un italiano, semplicemente pensante, passare da cospiratore agli occhi di un personaggio austriaco; ma è anche vero che quell'uomo d'ordine uscì spesso dalle rotaie[6] della diplomazia e buttò per aria molte combinazioni degli altri diplomatici. Pare un melanconico ed era un giovane allegro. E Iddio lo ha aiutato, anche perchè lo ha fatto morire molto presto.
Altre vecchie stampe ho visto che portavano accanto a Vittorio Emanuele una quinta figura: essa pure militaresca, anzi impettita, quasi geometrica; con i baffi diritti alla moda ungherese, il piccolo pizzo, i cernecchi dei capelli lisci, su le tempie. «Questo — e vi appoggiava un grande indice — è Napoleone III, Imperatore dei Francesi». Mi pare di vederlo quel mio vecchio maestro che ci parlava così. Era stato medico, e di che valore questo mio maestro! Aveva una testa che avrebbe ben servito per modello del Catone dantesco, se non che la sua barba era troppo tabaccosa, e i capelli troppo arruffati. Questo vecchio pensava e scriveva a modo dei prischi latini, e non essendogli permesso di portare la toga, vi suppliva con un gran scialle attraverso la grave persona.
«Quello lì, vedete, è passato sul corpo di due republiche per fare l'Italia».
Era un ammiratore grande di Napoleone III, che diceva aver conosciuto, giovanetto, in Forlì. Quella stravagante espressione di aver ucciso due republiche per fare l'Italia, era poco comprensibile a noi ragazzi. Ha fatto l'Italia, lui? A molti, oggi più che mai, questa affermazione sembrerebbe blasfema. Ecco, diciamo così: Ha permesso che quegli altri quattro si potessero fare il ritratto insieme. Questo Imperatore era un melanconico ed un credente in una fede irrazionale: il suo destino; e Iddio non lo aiutò.
*
Ma dietro questi personaggi famosi sta una schiera molto grande e confusa: essa si sperde lontana negli albori del secolo, si fa folta e poi dirada sino ad un impiccato recente. Comprende martiri puri, quasi verginali; comprende torbidi e audaci uomini, insofferenti dell'attesa, uomini di congiure e di sangue; solitari che dai libri meditati videro balzare fantasmi che additavano un'arma; preti che leggendo l'Evangelo, udirono il rimbombo della voce di Cristo; madri che dissero al figlio: «Va!» Noi non li nominiamo per devozione a quelli che sono men noti. La più parte di essi morirono giovani, affinchè il detto di Menandro si rinnovellasse,[7] e anche perchè così piacque all'Austria. Piacque all'Austria cospargere di sangue questa terra ritenuta soltanto la terra dei canti e dei suoni: ma essa era anche terra ferax et ferox, ferace ed indomita; e quel concime purpureo fu ottimo generatore di martiri. Noi non li nominiamo, ma ci piace commemorarli semplicemente con le parole del Poeta:
Io vo' rapirti, Cadore, l'anima
Di Pietro Calvi.
Costoro sono il santo fiume umano, che inabissa e riappare, dilaga, si stringe, rugge; va per meandri strani, alimenta, fa la storia d'Italia.
O padre Nilo, — chiede l'antico poeta[8] — quale origine hai tu? in quali terre nascondi le tue sorgenti?
O fiume del martirio d'Italia, dove, come nascesti?
*
Il ritratto che Angelo Brofferio ci porge del Cavour, quando fu eletto deputato del '48, non è punto lusinghiero: «Qualche suo discorso nelle adunanze agrarie aveva potuto metterlo in evidenza esperto di traffici e versato negli studi economici e rurali; ma nessuno si accorse che nella sua mente germogliasse qualche peregrina idea e che nel suo cuore avvampasse qualche favilla di quel sacro fuoco che solleva gli uomini sopra la terra. Nuocevagli il volume della persona, il volgare aspetto, il gesto ignobile, la voce ingrata. Di lettere non aveva traccia; alle arti era profano; di ogni filosofia digiuno; raggio di poesia non gli balenava nell'animo; istruzione pochissima; la parola gli usciva dalle labbra gallicamente smozzicata; tanti erano i suoi solecismi, che metterlo d'accordo col dizionario della lingua italiana sarebbe a tutti sembrata impossibile impresa».[9]
Non era bello, infatti, e il D'Azeglio, che fu bello anche come uomo, lo chiamava fra gli intimi el Pansciotel; e Hübner, che lo vide a Parigi del '56, al tempo del Congresso, dice di peggio: «che il suo fisico mancava di distinzione». Era così distinto il conte von Hübner![10] La sua natura era antipoetica come egli stesso dichiara; ma l'abbondanza degli spiriti poetici in Italia ci può compensare se Camillo Benso di Cavour era specialmente un intelletto matematico. Però «profano alle arti» non lo direi: un giorno tornando a casa (era del 1860 e di cose pel capo ne doveva avere parecchie), trova sul tavolo il progetto del regolamento d'ornato per la città di Torino. Il caso volle che, avendo un ritaglio di tempo, lo leggesse. «Quale fu il mio stupore!» — scrive[11] a quel sindaco — «Giammai lo spirito investigatore, intromettitore, seccatore dell'amministrazione produsse opera peggiore. Povera libertà a quali dure prove si sottopone. Non una finestra, non un balcone, non una cornice senza l'assenso preventivo del sindaco. Persino il colore delle pareti interne delle corti sarà sottoposto al gusto di quel funzionario e la censura con tutti i suoi rigori, applicata alle costruzioni. In verità se lo stampato non portava il bollo municipale, avrei creduto che si trattasse di un regolamento edilizio, redatto da un sinedrio di mandarini e ritrovato dai generali alleati nel palazzo comunale di Pekino. Per onore di Torino sospenda la discussione di quel progetto. Nella legge comunale che si prepara, sarà proclamata la libertà ai cittadini di ornare le loro case come l'intendono, epperciò la soppressione della giunta d'ornato. Massimo D'Azeglio mi dichiarò che, se non è morto o paralitico, si recherà al Senato per combattere un'istituzione altrettanto molesta ai cittadini quanto contraria all'arte ed al buon gusto. Faccia quell'uso che vuole di questa lettera, giacchè son deciso di combattere con tutti i mezzi di cui dispongo un tema così contrario al principio di libertà che deve informare tutte le nostre istituzioni se vogliamo diventare una nazione grande, forte ed illustre».
Di lettere aveva realmente poca «traccia», perchè più che libri di letteratura, aveva letto libri di economia e di storia. Il suo amico e parente De La Rive[12] ce lo ricorda a Presigne, desto di buon mattino, per imparare l'inglese su faticosi volumi della «Storia d'Inghilterra»; ce lo ricorda nelle sue terre di Leri, in piedi dall'alba, tutto intento a riveder conti, visitare fattorie, studiare bonifiche, sorvegliare macchine; e nei ritagli di tempo, leggere, leggere, leggere.
Però digiuno di lettere non lo direi. Certo abbondano i solecismi e, spiace dirlo, il suo pensiero si muove più franco ed agile nella forma francese che in quella italiana; però anche in italiano scrive con una qualità notevole, ed è questa: se noi prendiamo le forbici per isfrondare, tagliare, non ci riesce: si rompono le forbici, ma la sua prosa resiste. Non gli piacciono le espressioni antiquate, i giri lunghi di parole. Mi ha tutta l'aria di sottoscrivere al paradosso del Carducci: chi potendo dire una cosa in dieci parole, la dice in venti, lo credo uomo capace di male azioni.
Una volta un insigne letterato gli ripulì una relazione e la infiorò con dei «vuoi» e degli «imperocchè»; ma lui dichiara che la sua relazione «gli era stata guastata», e che «un'altra volta userà del diritto di dire degli spropositi».[13]
Ma non chiameremo spropositi questi avvertimenti sull'arte dello scrivere, contenuti nella seguente lettera del 22 maggio '59, dopo la vittoria di Montebello: «Desidererei che il nostro Stato Maggiore affidasse a penna più abile la cura di raccontare i fatti. L'ultimo bollettino sul combattimento di Montebello era redatto in stile da Fischietto. I soldati che si battono oltre il bisogno, la lotta che è fermata dal giorno, sono cose da far ridere i più benevoli. Ho pensato di non pubblicarlo tale e quale. Avrei fatto altrettanto della lettera a Sonnaz, se fossi stato a Torino quando ci fu mandata dal campo. Non so chi la scrisse, ma in verità è ridicolo parlare dei bracci che incanutiscono e del senno che non incanutisce. Ma sopporteremo con rassegnazione della cattiva prosa, se continuate a fare, come in questi giorni, fatti egregi».[14]
Come oratore certo non possedeva tutte quelle doti che Cicerone enumera nel «De Oratore»; nè era eloquente al punto da piacere ad una moltitudine poco pensante e molto desiderante. A questo fine gli difettò specialmente la Retorica, divinità indigete, sopravissuta in buona salute a tanto tramonto e infermità di numi; ma la sua parola corre incisiva, caustica, ignuda; batte l'ala talvolta per forza di sdegno o di ponderata passione.
«Di ogni filosofia digiuno»: ma possedeva la maggior filosofia; conoscere uomini e tempi. Come indovinò bene, per esempio, Nino Bixio. «Vi raccomando in ispecie Bixio, che è il miglior generale di Garibaldi».[15] E Pio IX? «I furori del Papa, le sue filippiche non mi sgomentano punto, anzi crescono in me la speranza di raggiungere il desiderato scopo. Quanto più S.S. sarà veemente, tanto più mi mostrerò calmo e moderato negli atti e nelle parole».[16] E ancora: «Le scene violenti del Papa non mi spaventano. Nella sua qualità di uomo nervoso, tutte le crisi sono seguite da un periodo di calma, in cui è più facile fargli capire la ragione».[17]
E le moltitudini? «Evitino il giorno dei morti!»[18] raccomanda ripetutamente ai regii commissari; cioè evitino che il giorno del Plebiscito coincida con quello dei morti. Triste presagio!
Nè gli mancavano qualità profetiche, che è il massimo della filosofia, anzi della poesia. Se ne potrebbero portare parecchi documenti. Eccone alcuni: Giovanissimo, vivendo a Parigi la gran vita mondana, confida al De La Rive queste sue impressioni: «Credete voi alla possibilità d'un potere aristocratico qualsiasi? La nobiltà crolla da tutte le parti. I principi come i popoli tendono a distruggerla. Il patriziato non ha più posto nell'odierna organizzazione sociale. Che cosa rimane per combattere contro i flutti della democrazia? Niente di solido, niente di forte, niente di durevole. È un bene o un male? Io non ne so nulla; ma a mio credere è l'inevitabile nell'umanità. Prepariamoci o, almeno, prepariamovi i nostri discendenti, chè ciò li riguarda più di noi».[19] Ancora: «La salvezza d'Italia sta nel Parlamento. Se vi è in esso una maggioranza onesta, liberale, nemica delle sette, non temo nulla. Ma se la maggioranza è settaria o soltanto debole, non saprei prevedere le calamità che potrebbero sovrastarci».[20] Ancora: «Solo una soluzione radicale può ricondurre la pace fra la Chiesa e lo Stato».[21] Ancora: «Finchè l'Austria rimarrà una grande potenza, noi non potremo essere tranquilli».[22]
Ed anche sul punto di morte questo spirito profetico non l'abbandonò, chè, come tramandando con il passar della vita la lampada dell'anima sapiente, dice al suo Re: «E i Napoletani? Così intelligenti! Ve ne sono che hanno molto ingegno, ma ve ne sono altresì che sono molto corrotti. Questi bisogna lavarli, Sire, sì, sì; si lavi si lavi».[23]
Si potrebbe, volendo, trovare a che dire anche sul nome, giacchè quel Benso, che pare un nordico Benz, e quel Cavour hanno un sapore esotico: ma certo Camillo è un bel nome, pieno d'augurio italico.
*
Altre belle virtù egli aveva, proprio di quelle che in teoria noi ammiriamo tanto: la gratitudine, per esempio. Quando negli alti consigli dello Stato, dopo il '60, si trattava di liquidare l'esercito garibaldino, egli avverte i generali Cialdini e Fanti, «che si leverebbe un grido di reprobazione se si conservassero i gradi agli ufficiali borbonici che fuggirono obbrobriosamente e si mandassero a casa i garibaldini che li hanno vinti. Su questo punto non transigerei. Anzichè assumere la responsabilità d'un atto di nera ingratitudine, vado a seppellirmi a Leri. Disprezzo talmente gli ingrati che non sento ira per loro e perdono le loro ingiurie. Ma per Dio! non potrei sopportare la taccia meritata di avere sconosciuto servigi come quello della conquista di un regno».[24]
Altra virtù il non odiare. Fra lui e Garibaldi, dopo la cessione di Nizza e l'impresa dei Mille, non c'era buon sangue e non corsero belle parole; eppure quando l'Austria minacciò ancora la guerra, scrive: «Dite al generale Garibaldi da parte mia che se noi siamo assaliti, io l'invito in nome d'Italia a imbarcarsi sull'istante e a venire a combattere sul Mincio».[25] Oh, non odiava, come è documento quest'altra lettera: «Duolmi che Garibaldi se l'abbia avuto a male, giacchè desidero di cuore che non si venga a rottura con lui. Esso fu meco ingiusto, potrei dire ingrato.... Ciò nullameno quello che ho detto al Parlamento lo ripeto ora: avrei vivo desiderio di stringergli la mano e stendere un velo sul passato....»[26] E nei vaneggiamenti dell'agonia ripete al suo Re: «Garibaldi è un galantuomo: io non gli voglio alcun male».
Anche come capo di amministrazioni ha criteri molto pregevoli, benchè severi. Una volta una dama, e inglese per giunta, gli raccomanda un nobile giovane, ex-ufficiale della marina borbonica, che aveva dato le sue dimissioni durante la guerra, ed ora pretendeva di essere accolto con avanzamento di grado nella marina italiana. Cavour le spiega: «Sapete perchè Napoli è caduta sì basso? Si è perchè le leggi, i regolamenti non si eseguivano quando si trattava di un signore o di un protetto del Re, dei principi, dei loro confessori od aderenti. Sapete come Napoli risorgerà? Coll'applicare le leggi severamente, duramente, ma giustamente. Così ho fatto nella marina; così farò nell'avvenire; e vi fo sicura che fra un anno gli equipaggi napoletani saranno disciplinati come gli antichi equipaggi genovesi. Ma per ottenere questo scopo, credete alla mia vecchia esperienza, bisogna essere inesorabili».[27] La dama replica, come è facile supporre, ed il Cavour le risponde fra le altre cose: «Credo essere il mio dovere di mostrarmi severo, e di lasciare ai miei subordinati la parte della mansuetudine. Spero così di mutare lo spirito che informa l'amministrazione napoletana; spirito fatale che corrompeva gli uomini più distinti e le migliori istituzioni». La severità ai capi responsabili e la mansuetudine ai subordinati? Così non avvenne al tempo che morì di crepacuore G. Mercuri, più noto col nomignolo di Battirelli.
Queste virtù di giustizia fanno molto onore al Cavour, tanto più che egli sa che «in politica non si possono sempre prendere come punto di partenza i principi della morale».[28] Il che non include peraltro che si debbano prendere quelli opposti dell'immoralità.
Nella sua qualità di diplomatico, egli era uomo prudente: non si creda peraltro che il grado della sua prudenza fosse eccessivo. Uomo pacifico, come ci dice il suo ritratto: e poichè era di temperamento allegro, diremo, un allegro uomo di pace: non però disposto a farsi ammazzare; «disposto» di preferenza «a provare di ammazzare gli altri anzichè lasciarsi ammazzare»;[29] e questa filosofia cercò di infondere anche negli uomini del suo partito, dimostrando che vi sono momenti «in cui l'audacia è la vera prudenza, e la temerità è più savia della ritenutezza». Con tale disposizione ardita dell'animo non gli facevano difetto quei provvedimenti da cui spesso rifugge la molto umanitaria indole nostra. «Tenete» — è un dispaccio del 22 ottobre 1860 al conte Carlo di Persano, quando l'Austria minacciava di assalire ancora — «pronta la squadra per partire alla volta dell'Adriatico: fate leva forzata di marinai a Napoli. Se il codice napoletano non punisce i disertori in tempo di guerra con la pena di morte, publicate un decreto in questo senso e fate fucilare qualche marinaio disertore su la calata».[30]
Circa sei anni dopo il Persano salpò con la squadra; oh, ma non c'era più il Cavour a raccomandargli di fare in fretta, e tu lo sai, azzurro Adriatico!, e a ricordargli che c'è la fucilazione per chi diserta il suo posto.[31]
Ma specialmente abbondava nel Cavour quella forma di coraggio che è così rara, cioè il coraggio civile. Egli non giudicava menomamente uomo politico chi non avesse saputo sacrificare la sua popolarità al bene della Patria.
Nei due anni '59 e '60, in gran fretta, sotto il sereno e sotto la tempesta, furono tirati su i muri maestri dell'edificio nazionale, e fu coperto anche il tetto. Chi non è pratico di arte muraria crede che il più sia fatto; ma domandatene ad ogni buon muratore e vi dirà che quella è soltanto la metà del lavoro. Ora il Cavour non si nascondeva la difficoltà della seconda gran gesta, e che mettere in armonia gli interessi delle varie regioni era cosa più difficile che scacciare l'Austria dal Quadrilatero; nè si pensi che egli avesse propensione per una mano di calce piemontese, data in fretta da zelanti imbianchini in berretto burocratico, a tutto il portentoso edificio, «Il Parlamento sarà organo di concordia, non di tirannia centralizzatrice».[32]
Altre cose di lui come uomo politico converrebbe richiamare dal nostro oblio; ma alcune appariranno dal corso di questa narrazione; qui basterà ricordare una sua notevole dote per la quale non nominò eredi; quella cioè di non fare come il buon lazzaro che avendo provveduto al bisogno dell'oggi, dimentica che esiste anche il domani: io voglio dire occupare gli avvenimenti, non farsi occupare da essi.
*
Prima di essere stato ministro del Re, il Cavour era stato giornalista e nel giornale da lui fondato «Il Risorgimento», il 22 marzo 1848, aveva publicato quello scritto notevole: «L'ora suprema della monarchia sabauda», il quale per lunghezza e per audacia può fare il paio con la non meno famosa lettera del Mazzini a Carlo Alberto del 1831. E fu anche publicista, e fra i suoi scritti più matematicamente dimostrativi, ricordiamo quello apparso del '48 nella «Revue nouvelle» di Parigi col titolo: «Des chemins de fer en Italie», etc. Vi si parla di linee ferroviarie, di trazione, di macchine; ma esse devono, oltre alle merci, trasportare anche quel terribile carico, per cui tanti doganieri allora vegliavano: le idee. A quello scritto sarebbe stata bene come motto la chiusa dell'ode del Carducci «Alle fonti del Clitumno»:
in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie, in corsa
fischia il vapore.
Sono in quello scritto le idee del Gioberti e del Balbo, ma con in più un certo sapore di polvere. Quel birichin — diceva con dispetto il Balbo, alludendo a questo sapore di polvere, — «finirà col ruinare il magnifico edificio, eretto dal senno e dalla prudenza di tanti valentuomini».[33]
*
E prima aveva viaggiato (1835) a lungo, ripetutamente, Svizzera, Inghilterra e Francia, in compagnia di un amico anche più giovane di lui, il cui cognome era una memoria e una gloria: Pietro Derossi di Santa Rosa: in Parigi aveva, frequentato il gran mondo dei salons; a Liverpool, Cambridge, Londra aveva visitato e studiato officine, industrie, istituti, macchine, etc. Aveva viaggiato, dunque, per acquistar «virtute e conoscenza» come dice Dante, e per divertirsi anche. Ma studiando e divertendosi, l'orecchio non perdeva una battuta di ciò che cantava il novello coro del gran dramma della vita, cioè l'opinione publica; giacchè oramai è deciso: i protagonisti delle moderne tragedie e commedie della vita sono costretti ad agire molto in conformità con l'intonazione del coro. Questa cosa oggi è manifesta a tutti; tanto che gli uomini dabbene rivolgono ogni loro cura affannosa affinchè questo gran coro canti nel modo meno stonato che sia possibile. Ma in quegli anni, prima del '48, occorreva una certa disposizione filosofica per notare un fatto che era appena in sul primo manifestarsi: disposizione tanto più encomiabile trattandosi di un giovane di venticinque anni e vissuto fra quel ceto aristocratico dove tali fenomeni si avvertono in ritardo e con olimpica indifferenza.
Il passo riferito, ove accenna al necessario avvento delle democrazie, è fortemente illustrativo. E perchè non farne un raffronto con l'avvertimento che il Mazzini dava a Carlo Alberto nella famosa sua lettera del '31? Dice: «Oggimai la causa del dispotismo è perduta in Europa. La civiltà è troppo oltre perchè l'insania di pochi individui possa farla retrocedere. I Re della lega lo intendono, ma sono troppo in fondo per poter risalire. Essi lottano disperatamente col secolo, e il secolo li affogherà».
Conoscere e divertirsi, ma anche togliersi da quell'atmosfera di cupa oppressione che gravava sul natio Piemonte. «Qui» (cioè in Torino) — scrive al De La Rive nel '43 — «io vivo in una specie di inferno intellettuale, cioè in un paese dove l'intelligenza e la scienza sono considerate cose infernali da chi ha la bontà di governarci. Sì, mio caro, sono già due mesi che io respiro un'atmosfera piena di ignoranza e di pregiudizi e che io abito in una città dove bisogna nascondersi per scambiare qualche idea che esca dalla sfera politica e morale dove il Governo vorrebbe tenere imprigionate le anime. Ecco ciò che si chiama godere la felicità di un governo paterno».[34]
Non vengono in mente le tetre querele di un'altra anima imprigionata, il Leopardi? Felice il Cavour a cui natura concesse la forza lieta dell'azione, del far della storia; non le malinconie del pensiero, del meditar su la storia.
Sia lecito fare un raffronto con questo passo del Cattaneo dove, ricordando i nobili esuli lombardi, ritornati in Milano dopo l'amnistia del 1838, dice: «V'erano tuttavia molte famiglie antiquate, che imaginando ancora di vivere ai tempi del Sacro Romano Impero, non si reputavano disonorate della presenza dei soldati stranieri. Ma i reduci, valendosi dell'autorità di eleganti dettatori che dava loro la lunga dimora fatta in Londra e in Parigi, ammaestrarono quella stolta gente a serbare al cospetto degli stranieri i doveri della nazionale dignità».[35]
«Nos patriam fugimus, nos dulcia linquimus arva». E di abbandonare per sempre la patria dava consiglio al giovane Cavour la contessa Anastasia de Circourt-Klustine.[36] La lettera del Cavour a questa dama è fremente di tale passione che lo stesso Brofferio si sarebbe ricreduto dei suoi giudizi. Oimè, come diceva Solone a Creso, noi non ci conosciamo che dopo la morte, se ci conosciamo pur allora! «No, madama, io non posso lasciare la mia famiglia e il mio paese. Santi doveri mi trattengono presso un padre e una madre che mai non mi diedero motivi di lamentarmi. No, madama, io non infiggerò un pugnale nel cuore dei miei genitori; io non sarò mai un ingrato verso di loro, io non li abbandonerò se non quando la morte ci separerà. E perchè, madama, abbandonare il mio paese? Per venire in Francia a cercarmi una rinomanza nelle lettere? Per correre dietro una piccola gloria, senza potere mai raggiungere il fine a cui tende la mia ambizione? Quale influsso potrei io esercitare in vantaggio dei miei fratelli infelici, stranieri e proscritti, in un paese in cui l'egoismo occupa ogni grado sociale? Che cosa fanno a Parigi tutti questi esuli che la sventura qui gettò, lungi dalla terra natale? Quelli stessi che sarebbero stati grandi in patria, qui vivono oscuri nel turbine della vita parigina. Quanto di più nobile e illustre conteneva la mia patria, ha dovuto fuggire. Tutti quelli che io ho conosciuto personalmente mi hanno rattristato sino al fondo del cuore con lo spettacolo del loro grande valore, rimasto sterile ed impotente. No, no! Non è fuggendo la patria, perchè essa è infelice, che si può raggiungere una meta gloriosa! Sventura a chi abbandona con disprezzo la terra che lo vide nascere, a chi rinnega i suoi fratelli come indegni di lui! Quanto a me, io sono deciso. Io non dividerò mai la mia sorte da quella del Piemonte. Sventurata o felice, la mia patria avrà tutta la mia vita».[37]
Oh, non è egli poeta, imaginazione non ha! «Io non ne possiedo alcun germe. In tutta la mia vita io non sono potuto arrivare ad inventare la più piccola favola da far stare attento un bambino»;[38] ma questi che qui riportammo sono «raggi» della più sublime «poesia» che «baleni» nell'animo dell'uomo.
*
Veramente il conte Enrico di Mombelles, legato austriaco in Torino, non era di questa opinione. Il giovane Cavour aveva dato, anzi, molti dispiaceri a suo padre. Perchè è da sapere che prima di viaggiare all'estero, era intenzione del giovane di visitare la Lombardia; ma il detto conte Enrico di Mombelles, avendo saputo di queste intenzioni, si era affrettato a scolpire questa succosa e onorevole biografia: «Questo giovane appartiene ad una delle famiglie più rispettabili del Piemonte, e suo padre il marchese di Cavour, è il primo a gemere su la condotta e sui principi del suo figlio cadetto. Questo giovane, fornito di molto talento e facilità di ingegno, era entrato nel genio militare. Ma le sue idee e le sue relazioni con altri giovani mal pensanti, indussero il Re a confinarlo nel forte di Bard.... Io lo considero come uomo molto pericoloso, e tutti gli sforzi per ricondurlo sulla buona strada sono riusciti infruttuosi. Merita, dunque, una sorveglianza continua».
Per effetto di questa raccomandazione segreta («segni funesti», come al buon Bellerofonte), il conte Torresani, direttore della polizia di Milano, dirigeva all'Imperiale Regio Commissario di Buffalora il seguente avviso, in data 15 maggio 1833: «Sta per mettersi in viaggio il giovine cavaliere piemontese Camillo Cavour, già uffiziale del genio, e malgrado la sua gioventù, già provetto nella corruzione de' suoi principii politici. Mi affretto a darle, signor commissario, questa notizia, coll'invito di non ammetterlo, qualora si presentasse su codesto confine, se non sopra passaporto in perfettissima regola, ed in questo caso soltanto previa la più rigorosa visita sulla persona e sugli effetti, avendo io notizia che egli possa essere latore di pericoloso carteggio».
Il carteggio pericoloso era, tutt'al più, nella testa del giovane cavaliere; e all'Austria più che il carteggio segreto dei patriotti, fu esiziale questo carteggio dei suoi ministri il quale, se non ci richiamasse lugubri imagini di corpi e di anime straziate, potrebbe anche ricordare le pedantesche corrispondenze dei commissari spagnuoli dietro a quel gran delinquente che fu Renzo Tramaglino.
Ma, pensatoci meglio, il Torresani, con circolare 7 giugno 1833, n. 3476, vietava al Cavour l'accesso in Lombardia; e soltanto tre anni dopo, di primavera, quel pericoloso cavaliere, previe le consuete pratiche ecc., ottenne, per una sol volta, il passaggio al confine di Buffalora.
C'è un ponte al confine di Buffalora, e lo seppero gli Austriaci a Magenta: e poichè queste circolari sono tutte del tempo di primavera, ricordiamo come nella primavera del '59 il Cavour costringesse con più efficaci mezzi l'Imperiale Regio Commissario a lasciargli libero il passaggio per quella remota Lombardia, dove era la Chimera orrenda, che il buon Bellerofonte uccise.
*
Già, prima era stato ufficiale: luogotenente nel corpo reale del genio militare; e la sua nomina è del settembre 1826. A sedici anni; carriera di cadetto, in virtù del privilegio di essere stato prima paggio di corte! Ventimiglia, Genova! Splendide guarnigioni e vita ben gaia, specialmente con un temperamento come la madre fin da piccino notava: «luron, fort, tapageur, et toujours en train de s'amuser». Oh, bei sogni della giovanezza, e fra quei sogni, questi ben singolari per un ufficiale! Una mattina si era svegliato, e gli sembrava di essere ministro del Regno d'Italia; un'altra mattina di emancipare l'Italia dai barbari![39]
«Vi dispiacque di aver lasciato il servizio di paggetto di corte?»
«Mi è sembrato di essermi levata la livrea».
«E andavate vestiti?...»
«Come volete che andassimo vestiti? Come dei lacchè. Ne arrossisco ancora dalla vergogna!»[40]
Fu confinato nel forte di Bard, in val d'Aosta: una specie di relegazione. Quest'ordine del nuovo sovrano, Carlo Alberto, è del 27 aprile 1831, e fu motivato, pare, da quelle «imprudenti» parole.
Oh, giornate di luglio 1830; oh, grande aurora di ribellione, che rosseggia in Francia, per cui di tanto palpito ti innebbriasti, anima incredula di Arrigo Heine; oh, congiure, speranze, nella patria nostra; intervento armato, quindi, dell'Austria; e poi esilii, carceri, forche; oh, come doveva essere triste la guarnigione nel solitario forte di Bard![41] Nel forte di Bard, «in un paese privo di risorse», egli era «ridotto, per ammazzare il tempo, a giocare a tarocchi con gli appaltatori».[42]
Noi ricordiamo nell'antica storia d'Italia un altro melanconico giocatore, un uomo nato alla meravigliosa azione e condannato dalla stolta malvagità dei potenti alla tortura dell'ozio: Niccolò Machiavelli, che gioca «a cricca, a tric-trac con un beccaio, un mugnaio e due fornaciai»; ma venuta la sera, si «spoglia di quella veste cotidiana, piena di fango e di loto»; si mette «panni reali e curiali» e ragiona coi grandi morti delle antiche età, poichè dormono i vivi.
Il Cavour dopo otto mesi di quella specie di esiglio, sospende anche lui «quella veste cotidiana», non «piena di fango e di loto», ma poco adatta alla libertà dei movimenti, e avanza verso i vivi, che hanno cominciato a svegliarsi.[43]
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Il Cavour, come tutti sanno, è ritenuto il maggior rappresentante del partito così detto moderato. Ma sul senso della parola sarà bene intenderci. Che se per moderato si intendesse o mal larvata immoderazione retriva, ovvero moderata idealità, moderato sdegno, moderati ardimenti, si commetterebbe un grave errore di giudizio. Il miluogo o «juste-milieu» a cui giunse dopo il nobile fermento della prima adolescenza, non ha nulla a che fare colla solita via di mezzo, calcata da quei molti prudenti «che s'adombrano delle virtù come dei vizi»;[44] ma è l'equilibrio tra il desiderabile e il fattibile. La sua mente pratica non può fermarsi che su le cose possibili.
Può, vuole, anzi ha bisogno di smuovere uomini e cose, ma prescindere dalla prosa dei fatti come sono, per vivere nella poesia dei fatti come dovrebbero — forse — essere, non è del suo temperamento. Egli non è adatto per lanciare all'avvenire di quegli immensi valori fiduciari che tanto piacciono alle moltitudini, e perciò il suo pensiero non potè mai essere popolare; anzi ogni intemperanza demagogica, che muova da un postulato dottrinario, eccita in lui come una caustica secrezione di ironia. Di questo suo spirito liberale così informato a moderazione ci piace oltre ai molti documenti che la necessità del racconto ci obbligherà a produrre, riferire questi due i quali si possono ritenere veridici, perchè non sono tolti da concioni politiche ma da lettere intime. «Io reputo che non sarà l'ultimo titolo di gloria per l'Italia di aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà all'indipendenza, senza passare per le mani di un Cromwell; ma svincolandosi dall'assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario».[45]
Il secondo passo è del 7 gennaio 1860, cinque mesi dopo Villafranca ed ha speciale valore perchè ci rivela il suo intimo pensiero per ciò che riguarda l'Italia e la politica di Napoleone III. Dico intimo, perchè diretta la lettera al De La Rive e confidata con questo avvertimento: «Io vi scrivo a cuore aperto, e vi tengo un linguaggio che sta male in bocca di un diplomatico. Ma con voi io non voglio essere che un vecchio amico, sicuro che voi non mi farete commettere delle imprudenze». Aveva in quei giorni Napoleone III accettate le dimissioni del ministro degli esteri, conte Valewski, di cui avremo occasione di fare menzione sovente, e chiamato in sua vece Thouvenel, «ennemi des prêtres». Dice dunque: «È evidente ai miei occhi che l'Imperatore s'è deciso dopo lunghe esitazioni a ritornare francamente all'alleanza inglese, per la quale egli ha avuto in tutta la sua vita il pensiero fisso. Quanto all'interno egli ha capito che il partito clericale lo trascinerebbe verso la china fatale che ha perduto Carlo X. Egli ha subodorato una reazione violenta contro il partito ultramontano, un ritorno appassionato verso i principi del '89 e l'ha rotta con Roma. A mio avviso la decisione dell'Imperatore non è dubbia. Il giorno in cui ha fatto all'arcivescovo di Bordeaux la sua famosa risposta, di cui l'importanza non era minore ai miei occhi che quella dell'opuscolo «Il Papa ed il Congresso», io ho esclamato fra me: Io perdono all'Imperatore la pace di Villafranca: egli sta con ciò per dare all'Italia un aiuto ben più grande che con la vittoria di Solferino. L'alleanza inglese e la rottura con Roma devono necessariamente dare al governo dell'Imperatore degli andamenti più liberali, o almeno più larghi e più popolari».
Gli occhi del Cavour si chiusero a tempo. Egli morendo potrà dire: «L'Imperatore è molto buono con noi». Egli non udì la fucilata di Aspromonte e di Mentana; non lesse le lunghe, diuturne, affannose o pietose pratiche dei ministri italiani a lui successi.[46] Non vide (e sarebbe avvenuto, lui vivo?) l'Imperatore, tratto contro l'opera propria. I suoi occhi si erano chiusi. Ma che egli avesse visto la meta a cui tendeva Luigi Bonaparte, fra impedimenti immensi, lo dice la storia, quella che è più sigillata; e delle forze avverse che trascinavano l'Imperatore anche questa semplice narrazione offrirà prove non poche.
«Quanto all'Italia» — prosegue il Cavour — io ho il convincimento che le restaurazioni non avranno luogo e che il potere temporale dei papi è distrutto; e in uno spazio di tempo poco considerevole, il principio unitario trionferà dalle Alpi alla Sicilia».[47]
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Questo ammirevole possessore del senso del reale non potè accordarsi con colui che fu detentore massimo del senso dell'ideale, cioè col Mazzini. La qual cosa non vuol dire che l'uno abbia torto e l'altro ragione. V'è nella leggenda biblica Lia e Rachele, lo spirito attivo e lo spirito contemplativo; v'è nella parallela la linea destra e la linea sinistra: non si toccano mai; ma ambedue sostengono il carro e nella visione lontana ambedue le linee convergono in una.
Io non nego che, indipendentemente dal temperamento dei due uomini, non possa spiacere questa specie di sconoscenza del Cavour verso il Mazzini; ma oltre alle cose che diremo in seguito, qui ci piace ricordare come il Cavour, giudicando secondo la sua coscienza, si sentiva offeso da quel partito mazziniano, che pretendeva da solo «al monopolio del patriottismo e dell'amore per la libertà».[48] Credeva inoltre che la monarchia sabauda «avendo mantenuto e sviluppato nel decennio il principio costituzionale, avesse nociuto all'Austria ben più seriamente che le sommosse del Mazzini».[49]
Il Cavour, dopo l'Alfieri, è l'altro allobrogo grandissimo attratto dalla voce della gran madre, l'Italia. Certo quella sua manchevolezza di studi filosofici e classici, l'ambiente in cui visse da giovane, lo mettono troppo in contrasto con altri italiani, che assursero all'idea della patria e della libertà da una quasi saturazione di pensiero antico e da una stupenda fraternità d'anima col popolo.
Questa deficienza nel Cavour può spiacere: come a chi è propenso alle idee di republica, può spiacere quella sua fedeltà incondizionata al monarca sabaudo, sino agli ultimi aneliti, sino alle parole supreme; tanto che ad un primo superficiale esame si dubiterebbe se egli ami più la patria o la monarchia. Per quanto animato da spiriti nuovi e uomo nuovo nel vecchio Piemonte, egli è pur sempre uscito da quella nobiltà feudale e guerriera che fiorì intorno al trono.
Con tutto questo non si dimentichi che la politica, risolutamente italiana del Piemonte, è opera del Cavour, e ciò non avvenne senza qualche opposizione. Carlo Alberto nei suoi perpetui tentennamenti lo avrebbe dichiarato «l'homme le plus dangereux de son royaume»;[50] e si citano i giudizi dei re per non riferire quelli degli altri, giacchè se è bel destino dei re portare tutte le glorie dei loro sudditi, è anche brutto destino portare talvolta anche le loro colpe.
Ben è vero che l'Azeglio, dopo Plombières, scrisse al Cavour una lettera ove è detto «oggi non si tratta più di discutere la tua politica, ma di farla riuscire»,[51] frase se non proprio degna di Plutarco, come nota il Bonfadini,[52] degna di un patriotta di cuore e di acuto senno, il quale ben conoscendo l'abilità — mi si conceda l'espressione — del cuoco, accetta le vivande con gli ingredienti che questo ha a sua disposizione. È dopo la morte del cuoco che gran turbamento avvenne in cucina! Ma che le arti politiche del Cavour gli gradissero tutte, non oserei dire. L'assoluto del giudizio dell'Azeglio rispetto all'Italia e la rettitudine della sua morale, ammirabile senza dubbio, ma in contrasto con le necessità della politica, lo porteranno a chiamare quelle arti «giuochi di bussolotti del povero Camillo e Compagni», espressione non destinata alla pubblicità[53] e detta con forza di preterizione, ma che è significativa e può oggi essere palesata. E se alcunchè di vero è nella cruda espressione, vero è anche che furono «giuochi» leali, e morto lui, nessuno li seppe più così bene eseguire. Quanto poi queste arti dispiacessero al Mazzini, come di mala opportunità le incolpasse, è cosa nota. Caratteristica questa atroce opinione: «Se i popolani d'Italia vibrassero i loro coltelli al grido di Viva il re Sardo! e vincessero, voi li abbraccereste fratelli. E se vincessero anche senza quel grido, voi li abbraccereste il dì dopo, per cercare di impossessarvene e sviarne e tradirne i nobili istinti a benefizio d'un concettuccio ambizioso della monarchia».[54]
Sospinse il Cavour Carlo Alberto alla guerra;[55] sospinse senza pentimenti, risolutamente, Vittorio Emanuele su la via della Rivoluzione. La monarchia conquisterà l'Italia, l'Italia le si arrenderà incondizionatamente.[56] Ma egli comprende che questa sottomissione della Rivoluzione alla Monarchia non può avvenire per atto di coercizione o di fedeltà in senso feudale, cosa non conforme alla tradizione italiana, ma per spontaneo accorrere e fondersi di forze, per patto di riconoscenza. La monarchia deve «fare il suo dovere», la monarchia deve «magnetizzare» la rivoluzione. V'è un passo del Cavour che simboleggia questo concetto in modo evidente. In una lettera al Farini, del 5 ottobre, dice: «Occupate senza indugi gli Abruzzi. Fate entrare il Re in una città qualunque e là chiami Garibaldi a sè. Lo magnetizzi....»[57] Esita il Re? Lo rincuora: «Oggi o domani Vostra Maestà porrà il piede sul suolo napoletano. Passo magnanimo che supera in ardire il passaggio del Ticino nel 1848».[58] Scoppierà una nuova guerra contro l'Austria? E per questo? «Siamo preparati a tutto. Nasca quel che sa nascere; se abbiamo da soccombere, lo faremo valorosamente e salvando la fama dell'Italia, assicureremo il suo avvenire».[59]
In altri termini il Regno non deve essere soltanto donato al «sopraggiunto Re», nè il Re andrà alla sua mensa e Garibaldi spezzerà solitario, con fronte dolorosa, il secco pane.
Il passaggio della Cattolica e del Tronto nel '60, la Monarchia osante quanto la Rivoluzione; la Monarchia che affronta essa radicalmente la questione di Roma; la Monarchia instauratrice di un novus ordo; la Monarchia che non manda a casa i garibaldini con un «benservito», sono le condizioni perchè il Re possa veramente essere Re d'Italia. E questo scomunicato muore col frate confessore accanto e con l'olio santo. Leverà Iddio la scomunica![60]
Tutte queste cose potrebbero dimostrare che l'uomo geniale è pur sempre idealista, anche se spirito matematico.
La dichiarazione[61] del Mazzini del 2 marzo 1860 è indizio di questa politica vittoriosa, ed il Carducci, incolpato di manifestazioni monarchiche e sabaude nella sua giovanezza, spiega con lo stato della sua anima quella di tanti italiani, i quali, «nel '59 e nel '60, accolsero la formola Italia e Vittorio Emanuele.... per il concetto che nella fusione dell'elemento signorile col cittadino, dell'esercito col popolo, delle memorie monarchiche con le democratiche, etc., la storia d'Italia troverebbe alfine il suo complemento necessario».[62]
Questo moto forte e concorde tanto durò, quanto durò la vita dell'uomo meraviglioso; ed è questa forza, è questa concordia che nei due anni, 1859 e 1860, produssero l'unità della patria. Scomparso lui, i due partiti si staccarono, e ciascuno riprese la sua libertà di azione. Gli uomini di parte moderata, spinti dall'impeto della politica del Cavour, si trovarono come viandanti in cerca di «estraneo lido». Ben vorrebbero proseguire, ma la guida geniale non è più. Rinvennero, con istintivo moto di prudenza, come un corpo elastico a cui è sottratta la forza che lo traeva. S'accostarono verso le idee di un altro grande rappresentante delle idee moderale, il D'Azeglio. Se non che questi nella rettitudine del suo spirito, già dal '53, quando sentì di non potere procedere oltre, aveva indicato il Cavour, se era giocoforza procedere; e pur servendo, quando fu richiesto, la patria, s'era ritratto dal potere.[63]
Ma gli uomini che detenevano il potere, oramai troppo erano avanzati. Procedere volevano, certo, ma, tra difficoltà grandissime e varie, bisognava osare ed imperare bene, ed imperare e osare bene è cosa geniale: ritirare il piè non potevano. Subirono, non dominarono gli avvenimenti. Il partito della Rivoluzione o d'Azione, come fu chiamato, procedette per suo conto, ripudiando il motto «Italia e Vittorio Emanuele», e per converso al partito detto dell'ordine, s'accostarono i troppi, i quali costretti dalle mutate condizioni a riformare la moda del loro abito politico, scelsero la foggia che più pareva adatta a proteggerli. Poi fra le nuove parti divise s'incuneò possente la forza nuova della nuova idea internazionale. Quindi l'orientarsi verso sconfinate idealità sociali, da un lato; dall'altro le troppe faccende e le troppe ricchezze contribuirono a diffondere l'oblio, in questa nostra gente già così obliosa, di tanta gloria e di tanta storia palpitante ancora.