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CAPITOLO XXIII

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La mattina seguente, Emilia andò a trovare la zia di buonissim'ora; ella aveva dormito bene, e ricuperati gli spiriti e le forze, ma la di lei risoluzione di resistere al marito era combattuta dal timore. La fanciulla, temendo le conseguenze della sua caparbietà, fece di tutto per persuaderla, ma la signora Montoni, come vedemmo, aveva lo spirito della contraddizione; e quando se le presentavano circostanze disgustose, cercava meno la verità che argomenti da combattere. Una lunga abitudine aveva tanto confermato in lei questa disposizione naturale, che non se ne accorgeva più. Le ragioni di Emilia non fecero che risvegliare il suo orgoglio, anzichè convincerla; e non pensava se non a sottrarsi alla necessità di obbedire sul punto in questione. Se le fosse riuscito di fuggire dal castello, contava già separarsi legalmente, e vivere nell'agiatezza coi beni che le restavano. Emilia lo avrebbe desiderato quanto lei, ma non si lusingava d'un esito favorevole; le dimostrò l'impossibilità di uscire dalla porta, assicurata e guardata con tanta cautela; l'estremo pericolo di confidarsi alla discretezza di un servo, che avrebbe potuto tradirla per malizia o imprudenza; e la vendetta infine di Montoni, se avesse scoperto la trama…

Questa lotta di contrari affetti lacerava il cuore della zia, quando entrò d'improvviso il marito, e senza parlare della di lei indisposizione, le dichiarò venir a rammentarle quanto indarno essa tentasse di resistere ai suoi voleri. Le accordò tutto il giorno per acconsentire alla sua domanda, protestandole, in caso di rifiuto, che la sera medesima l'avrebbe rilegata nella torre di levante; aggiunse che molti cavalieri dovendo pranzare quel giorno istesso nel castello, essa farebbe gli onori della tavola colla nipote. La signora Montoni non voleva accettare, ma riflettendo che durante il pranzo, la sua libertà, sebben ristretta, avrebbe potuto favorire i suoi progetti, acconsentì; il marito ritirossi tosto. L'ordine ricevuto penetrava Emilia di maraviglia e timore; fremeva all'idea di trovarsi esposta a tali sguardi, e le parole del conte Morano non erano fatte per calmarla. Le convenne dunque prepararsi per comparire al pranzo, ma si vestì anche più semplicemente del solito, per evitare d'essere distinta. Questa politica non le riuscì, giacchè, quando tornò dalla zia, Montoni, rimproverandole il suo far dimesso, le prescrisse un abbigliamento più ricercato, adoperando a tal uopo gli ornamenti destinati pel di lei matrimonio con Morano. Adornata col miglior gusto e la massima magnificenza, la bellezza di Emilia non aveva mai brillato tanto. La sua unica speranza in quel punto era che Montoni progettasse meno qualche avvenimento straordinario, che il trionfo dell'ostentazione, spiegando agli occhi dei convitati l'opulenza della sua famiglia. Allorchè entrò nella sala, ov'era ammannito un lautissimo pranzo, il castellano ed i suoi ospiti erano già a mensa; essa andava a prender posto presso la zia, ma Montoni le fe' cenno colla mano; due cavalieri si alzarono, e la fecero sedere in mezzo a loro.

Il più avanzato in età di costoro era grande, aveva lineamenti caratteristici, naso aquilino, occhi incavati penetrantissimi; il di lui volto era magro e sparuto come dopo una lunga malattia.

L'altro, in età di circa quarant'anni, aveva fisonomia diversa; sguardo obliquo, ma volpino, occhi castagni, piccoli ed infossati, volto quasi ovale, irregolare e brutto.

Altri otto personaggi sedevano alla medesima tavola, tutti in divisa, ed avevano tutti un'espressione più o meno forte di ferocia, d'astuzia o di libertinaggio. Emilia li guardava timidamente, rammentandosi la truppa veduta il dì precedente, e si credeva circondata da banditi. Il luogo della cena era un'immensa sala antica ed oscura, illuminata da una sola finestra gotica altissima, dalla quale vedevasi il bastione occidentale e gli Appennini. Ella osservò che Montoni trattava con grand'autorità gli ospiti, i quali ricambiavanlo con dignitosa deferenza. Nel tempo del pranzo non si parlò che di guerra e di politica, di Venezia, dei suoi pericoli, del carattere del doge regnante e dei primari senatori. Finito il pranzo, i convitati, alzatisi, bevvero tutti alla salute di Montoni e alla gloria delle sue imprese. Mentre egli accostava la coppa alla bocca, il vino traboccò spumeggiando e ruppe il cristallo in mille pezzi. Ei faceva uso di quella specie di vetri di Venezia, i quali hanno la proprietà di rompersi allorchè ricevono un liquore avvelenato. Sospettando che qualcuno dei convitati avesse attentato alla sua vita, fece chiuder le porte, e mettendo mano alla spada, lanciò occhiate furibonde su tutti indistintamente, gridando: « Qui c'è un traditore! che tutti quelli che sono innocenti mi aiutino a trovare il colpevole. » I cavalieri proruppero in grida d'indegnazione, e sguainarono le spade. La signora Montoni voleva fuggire, ma il marito le impose di restare, aggiungendo qualche altra cosa che non fu intesa a motivo del tumulto e delle grida. Allora tutti i servi comparvero innanzi a lui, e dichiararono la loro ignoranza. La protesta però non poteva essere ammessa, essendo innegabile che soltanto il vino del castellano era stato avvelenato, per cui bisognava che almeno il dispensiere fosse stato connivente. Quest'uomo, con un altro, la cui fisonomia tradiva la convinzione del delitto, o il timore della pena, fu messo in ceppi e trascinato in un tetro carcere; Montoni avrebbe trattato nella stessa guisa tutti gli ospiti se non avesse temute le conseguenze d'un passo sì ardito: si contentò dunque di giurare che non sarebbe uscito neppur uno, prima che fosse dilucidato quest'affare. Ordinò aspramente alla moglie di ritirarsi, e ad Emilia di accompagnarla.

Mezz'ora dopo comparve nel di lei gabinetto; Emilia fremè vedendo la sua aria truce, gli occhi sfavillanti di rabbia e le labbra livide. « È inutile tenervi sulla negativa, » gridò egli furente alla moglie, « giacchè ho la prova del vostro delitto: non avete alcuna speranza di perdono se non in una sincera confessione; il vostro complice ha svelato tutto. »

Emilia fu colpita dall'atroce accusa. L'agitazione della zia non le permetteva di parlare; la sua faccia passava da un estremo pallore ad un rosso infiammato.

« Risparmiate i discorsi inutili, » disse Montoni, vedendola disposta a parlare; « il vostro contegno basta a tradirvi; or sarete condotta nella torre d'oriente.

– Quest'accusa, » rispose la moglie, che poteva appena articolar parola, « è un pretesto per la vostra crudeltà; sdegno di rispondervi.

– Signore, » disse vivamente Emilia, « questa orribile imputazione è falsa; oso rendermene mallevadrice sulla mia vita. Sì, signore, » soggiunse, « questo non è il momento di usar riguardi. Voi cercate ingannarvi volontariamente, al solo fine di perdere la mia povera zia.

– Se vi è cara la vita, tacete. »

Emilia, alzando gli occhi al cielo, sclamò: « Non c'è più speranza. »

Egli si volse alla moglie, la quale, rimessa dalla sorpresa, ne respingeva i sospetti con veemente asprezza. La rabbia di Montoni aumentava; Emilia, prevedendone le conseguenze, si precipitò ai di lui piedi, abbracciandogli le ginocchia e supplicandolo, piangendo, di calmare il suo furore; ma sordo alle preghiere della nipote e alle giustificazioni della moglie le minacciava fieramente amendue, quando fu chiamato. Uscì chiudendo la porta e portandone seco la chiave. Esse dunque si trovarono prigioniere. La Montoni guardava intorno a sè cercando un mezzo di fuggire. Ma come farlo? Sapeva pur troppo fino a qual punto il castello fosse forte, e con qual vigilanza guardato. Tremava di affidare il suo destino al capriccio d'un servo, di cui conveniva mendicare l'assistenza.

Frattanto intesero gran tumulto e confusione nella galleria; alle volte si sentiva il cozzar delle spade. La provocazione di Montoni, la sua impetuosità, la sua violenza, facevano supporre ad Emilia che le armi sole potessero finire l'orribile contesa. La zia aveva esaurite tutte le espressioni dello sdegno, e la nipote tutte le frasi consolanti. Tacevano amendue in quella specie di calma, che succede nella natura al conflitto degli elementi. Le circostanze di cui Emilia era stata testimone le rappresentavano mille confusi timori, e le sue idee succedevansi in tumultuoso disordine; fu scossa dalla sua meditazione sentendo battere alla porta, e riconobbe la voce di Annetta.

« Mia cara signora, aprite: ho molte cose da raccontarvi, » diceva sottovoce la povera ragazza. – La porta è chiusa, » rispose la padrona. – Sì, lo vedo, signora, ma per carità apritela. – Il padrone ha portato seco la chiave. – O beata Vergine! che sarà di noi? – Aiutaci ad uscire, » disse la Montoni. « Dov'è Lodovico? – Nella sala grande cogli altri, che combatte valorosamente. – Combatte! e chi sono gli altri? – Il padrone, tutti quei signori, e molti altri. – C'è qualche ferito? » disse Emilia con voce tremante. – Sì, signora, ce n'è qualcuno disteso in terra immerso nel sangue. Gran Dio! fate ch'io possa entrare, signora; ah! eccoli che vengono; mi ammazzano sicuramente. – Fuggi, » disse Emilia, « fuggi; noi non possiamo aprirti. »

Annetta ripetè che venivano, e fuggì.

« Calmatevi, zia, » disse Emilia, « per pietà, calmatevi; essi vengono forse per liberarci. Chi sa che il signor Montoni non sia già vinto.

– Eccoli, » gridò la zia, « li sento venire. »

Emilia alzò gli occhi languenti verso la porta, spaventata al maggior segno. Fu messa la chiave nella serratura; la porta si aprì, ed entrò Montoni seguito da tre satelliti. « Eseguite i miei ordini, » disse loro accennando la moglie; essa mise un grido e fu trascinata via sul momento. Emilia cadde priva di sensi sur una sedia: allorchè rinvenne, si vide sola, e guardando per tutta la stanza con occhi smarriti, sembrava interrogare ogni cosa sul destino della zia. Finalmente, si alzò per esaminare, quantunque con poca speranza, se la porta era libera, e la trovò aperta. Si avanzò timidamente nella galleria, incerta ove dovesse andare. Suo primo desiderio fu di ottenere qualche notizia sul destino della zia. Scese nel tinello. A misura che si avanzava, sentiva da lontano voci irate: le facce che incontrava pei numerosi anditi e la confusione che regnava aumentavano il di lei spavento. In fine arrivò nella stanza che cercava, ma non c'era alcuno. Non potendo più reggersi in piedi, si riposò un momento. Riflettè che avrebbe invano cercata la zia nell'immenso laberinto di quel castello, che pareva assediato dai briganti. Pensò dunque a tornare nella sua camera, ma temeva d'incontrarsi in que' feroci, quando un sordo mormorio interruppe il cupo silenzio; il rumore cresceva: distinse qualche voce e sentì passi che s'accostavano. Si alzò per andarsene ma venivano appunto per l'unica via ch'ella potesse seguire: pensò dunque di aspettare che fossero entrati. Udì gemiti, e vide poco dopo comparire un uomo portato da quattro. Atterrita a questo spettacolo, ebbe appena forza bastante per tornare alla sua camera senza poter conoscere chi fosse l'infelice circondato da quella gente, che nella confusione non l'aveano veduta.

Il suo affetto per la zia diveniva sempre maggiore; si ricordava che Montoni l'aveva minacciata di chiuderla nella torre di levante, ed era probabile che tal castigo avesse soddisfatto la di lui vendetta. Risolse dunque, nel corso della notte, di cercare una via per recarsi a quella torre. Sapeva bene che non avrebbe potuto efficacemente soccorrere la zia, ma credè che nel suo tristo carcere sarebbe stata sempre una consolazione per lei l'udire la voce della nipote. Alcune ore passarono così nella solitudine e nel silenzio, e parve che Montoni l'avesse obliata del tutto. Appena fu notte, vennero appostate le sentinelle.

L'oscurità della camera rianimò il terrore di Emilia. Appoggiata alla finestra, fu assalita da mille idee disgustose. « E che! » diceva ella; « se qualcuno di questi banditi, col favor delle tenebre, s'introducesse nella mia camera, cosa avverrebbe di me? » Poi, ricordando l'abitante misterioso della camera vicina, il suo terrore mutò oggetto. « Non è un prigioniero, benchè resti nascosto in quella stanza; non è Montoni che lo chiuda per di fuori, ma è l'incognito stesso che si prende questa cura. » Facendo tutte queste riflessioni, si ritirò dalla finestra, ed accese il lume. Si affrettò quindi ad assicurare alla meglio l'uscio della scala. Questo lavoro l'occupò sino a mezzanotte. Tutto era quieto, nè si udiva che i passi della sentinella sul bastione. Aprì la porta con cautela, e vedendo e sentendo una perfettissima calma, uscì; ma appena ebbe fatti pochi passi, vide un fioco chiarore sui muri della galleria. Rientrò in camera, e chiuse la porta, immaginandosi che forse Montoni andasse a fare la sua visita all'incognito. Dopo mezz'ora circa uscì di nuovo, e non vedendo nessuno, prese la direzione della scala di tramontana, immaginandosi di poter ivi più facilmente trovare la torre. Si fermava spesso, ascoltando con paura il fischiar del vento, e guardando da lontano attraverso l'oscurità dei lunghi androni. Finalmente giunse alla scala che cercava, la quale metteva in due passaggi diversi. Esitò alcun poco, e scelse quello che conduceva in una vasta galleria.

La solitudine di quel luogo la gelò di spavento, e tremava perfino all'eco de' propri passi. D'improvviso le parve sentire una voce, e temendo egualmente d'avanzarsi o di retrocedere, rimase immobile, osando appena alzar gli occhi. Le parve che quella voce proferisse lamenti, e venne confermata in quest'idea da un lungo gemito. Credè potesse essere sua zia, e si avanzò verso quella parte. Nulladimeno, prima di parlare, tremava di confidarsi con qualche indiscreto che potesse denunziarla a Montoni. La persona, qualunque fosse, pareva afflittissima. Mentre titubava, quella voce chiamò Lodovico. Emilia allora riconobbe Annetta, e tutta lieta si accostò per risponderle.

« Lodovico! » gridava Annetta piangendo; « Lodovico!

– Son io, » disse Emilia, tentando aprir la porta, « Ma come sei tu qui? Chi ti ha rinchiusa?

– Lodovico! Lodovico!

– Non è Lodovico; sono io, è Emilia. »

Annetta cessò di piangere e tacque.

« Se tu puoi aprir la porta, entrerò, » disse Emilia; « non temer di nulla.

– Lodovico! oh Lodovico! » gridava Annetta.

Emilia perdeva la pazienza, e temendo di essere scoperta, voleva andarsene; ma riflettè che la ragazza potrebbe aver qualche notizia sulla zia, o almeno avrebbe potuto indicarle la strada della torre. Ottenne infine una risposta, benchè poco soddisfacente. Annetta non sapeva nulla della padrona, e scongiuravala soltanto di dirle cosa fosse stato di Lodovico. Emilia rispose non saperlo, e le domandò come mai si trovasse rinchiusa là entro.

« Mi ha messo qui Lodovico. Dopo esser fuggita dal gabinetto della padrona, io correva senza saper dove: lo incontrai nella galleria, ed egli mi ha confinata in questa camera, portando via la chiave, affinchè non mi accadesse alcun male. Mi ha promesso di tornare quando tutto sarà quieto. Ma è già tardi, e non lo veggo venire; chi sa che non l'abbiano ucciso? »

Emilia si rammentò allora l'individuo ferito da lei veduto trasportare nella sala, e non dubitò più che non fosse Lodovico, ma nol disse. Impaziente di saper qualcosa della zia, la pregò d'insegnarle la strada della torre.

« Oh! non vi andate, signorina, per l'amor di Dio, non mi lasciate qui sola.

« Ma, Annetta cara, » rispose Emilia, « non creder già ch'io possa restar qui tutta notte. Insegnami la strada della torre, e domattina mi occuperò della tua liberazione.

– Beata Maria! » disse Annetta; « dovrò dunque star qui tutta la notte? Morirò dalla paura e dalla fame, non avendo mangiato nulla dopo il pranzo. »

Emilia potè a stento contener le risa a queste espressioni. Infine ne ottenne una specie di direzione verso la torre orientale. Dopo molte ricerche, giunse alla scala della torre, e si fermò un istante per fortificare il suo coraggio col sentimento del dovere. Mentre esaminava quel luogo, vide una porta in faccia alla scala. Incerta se questa la condurrebbe dalla zia, tirò il chiavistello e l'aprì. Si avvide che metteva sul bastione, e l'aria le spense quasi il lume. Le nubi agitate dai venti stentavano a lasciar vedere alcune stelle, raddoppiando gli orrori della notte. Rinchiuse la porta e salì.

L'immagine della zia, pugnalata forse per mano istessa del marito, venne a spaventarla; e si pentì d'aver osato recarsi in quel luogo. Ma il dovere trionfò della paura, e continuò a camminare. Tutto era calmo. Finalmente le colpì gli sguardi una striscia di sangue sulla scala; le pareti e tutti i gradini n'erano aspersi. Si fermò sforzandosi di sostenersi, e la sua mano tremante lasciò quasi cadere il lume. Non sentiva nulla; quella torre non pareva abitata da anima viva. Si rimproverò mille volte di essere uscita; temeva sempre di scoprire qualche nuovo oggetto d'orrore; eppure, prossima al termine delle sue ricerche, non sapeva risolversi a perderne il frutto. Riprese coraggio, e giunta alla torre, vide un'altra porta e l'aprì. I fiochi raggi della lampada non le lasciarono vedere che mura umide e nude. Entrando in quella stanza, e nella spaventosa aspettativa di ritrovarvi il cadavere della zia, vide qualcosa in un canto, e colpita da un'orribile convinzione, restò alcun tempo immobile. Animata quindi da una specie di disperazione, si accostò all'oggetto del suo terrore, e riconobbe un vecchio arnese militare, sotto al quale erano ammucchiate armi. Mentre si dirigeva alla scala per uscire, vide un'altra porta chiusa di fuori con un catenaccio, e dinanzi alla quale si vedevano altre orme di sangue: chiamò ad alta voce la zia, ma nessuno rispose. « Essa è morta! » sclamò allora; « l'hanno uccisa; il suo sangue rosseggia questi gradini. » Perdè tutta la forza, depose il lume, e sedette sulla scala. Dopo nuovi inutili sforzi per aprire, scese per tornare alla sua camera. Appena fu nel corridoio, vide Montoni, e spaventata più che mai, si gettò in un angolo per non incontrarlo. Gli sentì chiudere una porta, l'istessa ch'ella avea già notato. Ne ascoltò i passi allontanarsi, e quando l'estrema distanza non le permise più di distinguerlo, entrò in camera e coricossi.

Già biancheggiava l'alba e le palpebre d'Emilia non eransi ancora chiuse al sonno; ma alfine la natura spossata diè qualche tregua alle sue pene.

I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3

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