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CAPITOLO XXXIX

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Emilia, Valancourt e Enrico tornarono insieme alla festa; quest'ultimo presentò Valancourt al conte; Emilia credette accorgersi che questi non lo riceveva coll'ordinaria cordialità, quantunque paresse che si fossero già veduti. Fu invitato a godere i divertimenti della sera: quand'ebbe fatti i debiti complimenti al conte, andò a sedere accanto ad Emilia, e potè parlarle senza riserbo. I lumi appesi agli alberi permisero alla fanciulla di considerare quel volto, di cui nella sua assenza aveva procurato di rammentarsi tutti i lineamenti, e vide con pena che non era più l'istesso. Brillava come pel passato, di spirito e di fuoco, ma aveva perduto molto di quella semplicità, ed un poco anche di quella franca bontà, che ne formava il carattere principale: era sempre però una fisonomia interessante. Emilia credeva travedere in lui un misto d'inquietudine e di malinconia. Egli cadeva talvolta in un'astrazione passeggera, e sembrava sforzarsi d'uscirne; tal altra guardava fiso la fanciulla, ed una specie di fremito pareva agitare la di lui anima. Ritrovava in Emilia la stessa bontà e beltà semplice che l'aveva sedotto allorchè la conobbe. Le guance erano un po' impallidite, ma la di lei dolce fisonomia, sebbene alquanto malinconica, la rendeva sempre più interessante.

Gli raccontò le più importanti circostanze di quanto erale accaduto dopo la di lei partenza di Francia. La pietà e lo sdegno penetravano a vicenda, Valancourt al racconto delle atrocità di Montoni. Più di una volta, mentr'essa parlava, egli alzossi dalla sedia e passeggiò agitato. Non parlò se non dei mali da lei sofferti, nelle poche parole che potè dirigerle, non intese ciò ch'ella gli disse, quantunque con chiarezza, del sacrifizio necessario dei beni della sua zia, e della poca speranza di ricuperarli. Il giovane che pareva agitato da qualche affanno segreto, la lasciò bruscamente; quando tornò, ella si accorse che aveva pianto, e lo pregò di rimettersi. « Le mie pene sono finite, » gli disse Emilia, « io sono sfuggita alla tirannia di Montoni. Vi ritrovo sano, lasciate adunque ch'io vi veda anche felice. »

Valancourt, più agitato che mai, rispose: « Io sono indegno di voi, Emilia, sono indegno di voi. » Tali parole, e più ancora l'espressione colla quale vennero pronunziate, afflissero vivamente Emilia. « Non mi guardate così, » le diss'egli stringendole la mano, « deh! non mi guardate così!

– Vi vorrei chiedere, » gli diss'ella con voce affettuosa e commossa, « di spiegarvi chiaramente; ma mi accorgo che in questo momento tal domanda vi affliggerebbe: parliamo di tutt'altro: domani forse sarete più tranquillo. Voi eravate una volta ammiratore della natura; vi rammentate il nostro viaggio dei Pirenei?

– E posso obliarlo? Fu quella l'epoca più felice della mia vita: allora io amava con entusiasmo tutto ciò ch'era veramente buono e grande. Promettetemi Emilia di non dimenticarlo mai, ed io sarò tranquillo.

– La mia condotta dipenderà dalla vostra, » disse Emilia, « ma possiamo essere ascoltati. Viene appunto madamigella Bianca; andiamole incontro. »

I due amanti, raggiunta Bianca, recaronsi dal conte, e si misero a tavola sotto una pergola, ove sedevano i più venerandi vassalli, e tutti stettero allegri, tranne Emilia e Valancourt. Quando il conte tornò al castello, non invitò questi a seguirlo; egli prese dunque congedo da Emilia, e partì. La fanciulla, tornando in camera, pensò a lungo alla condotta di Valancourt ed all'accoglienza fattagli dal conte, ed in mezzo a queste riflessioni, obliò Dorotea. La mattina era già inoltrata quando se ne ricordò, e pensando giustamente che la buona vecchia non sarebbe venuta, pensò a riposare.

La sera seguente, il conte incontrò a caso Emilia in un viale del giardino. Parlarono della festa, ed il discorso cadde su Valancourt.

« Quel giovine ha talento, » disse Villefort. « Lo conoscete voi da un pezzo?

– Da un anno circa.

– Mi fu presentato a Parigi, ed in principio ne fui contentissimo. » E si fermò.

Emilia tremava, desiderava saperne di più, e temeva di far conoscere l'interesse che vi prendeva.

« Posso io domandarvi, » soggiunse egli poscia, « da quanto tempo vedete il signor Valancourt?

– Posso io domandarvi, o signore, il motivo di questa interrogazione? » diss'ella; « e vi risponderò immediatamente.

– Sicuro io vi dirò i miei motivi. È chiaro che Valancourt vi ama, e fin qui non vi è nulla di straordinario, chè tutti quelli che vi vedono fanno altrettanto. Non ve lo dico per complimento, parlo con sincerità; ciò ch'io temo è ch'egli non sia amante preferito e corrisposto.

– Perchè lo temete voi, signore? » disse Emilia, cercando nascondere l'emozione.

– Perchè temo non ne sia degno. »

Emilia, agitatissima, lo pregò di spiegarsi meglio.

« Lo farò, » ripigliò egli, « se voi sarete convinta che solo l'interesse ch'io prendo per voi, mi ha indotto a parlarvene… Io mi trovo in una posizione delicata, ma il desiderio di esservi utile deve vincere tutto il resto. Volete voi aver la compiacenza d'informarmi in qual modo conosceste il signor Valancourt? »

Emilia raccontò brevemente come l'avesse incontrato, e pregò poscia il conte di spiegarsi.

« Il cavaliere e mio figlio, » le disse egli, « fecero amicizia nella casa di un loro compagno, ove l'incontrai io stesso. L'invitai a venire in casa mia: allora ignorava le sue relazioni con una specie di uomini, rifiuto della società, che vivono della risorsa del giuoco, e passano la vita nelle dissolutezze. Io conosceva soltanto qualche parente del cavaliere, e riguardava questo motivo come sufficiente per riceverlo in casa mia. Ma mi accorgo che voi soffrite… troncherò questo discorso.

– No, signore, » gli disse Emilia; « vi supplico di continuare.

– In breve seppi, » soggiunse il conte, « che le sue relazioni l'avevano trascinato in una vita di dissipazione da cui pareva non aver nè il potere, nè la volontà di ritirarsi. Perdè al giuoco grosse somme; questo vizio divenne per lui una vera passione, e si rovinò. Ne parlai con interesse ai di lui parenti, i quali mi assicurarono che le loro ammonizioni essendo state inutili, erano stanchi di farne. Seppi in seguito che pe' suoi talenti era stato iniziato nei segreti della professione del giuoco, e che aveva avuta la sua parte in certi ignominiosi profitti.

– È impossibile, » sclamò Emilia; « ma perdonatemi, signore, non so quel che mi dico; perdonate al mio dolore: io credo, e debbo credere che foste male informato: il cavaliere ha senza dubbio nemici che hanno esagerato questi rapporti.

– Vorrei crederlo, ma nol posso; mi son deciso a parlarvene soltanto per l'interesse che prendo alla vostra felicità, e dietro mia piena convinzione. »

Emilia taceva, e rammentavasi le parole di Valancourt, che avevano scoperto tanti rimorsi, è sembravano confermare i detti del conte; non aveva però il coraggio di convincersene, ed il suo cuore era oppresso dall'angoscia. Dopo una lunga pausa Villefort soggiunse:

« Mi accorgo dei vostri dubbi, e li trovo naturali; è giusto ch'io vi dia la prova di quanto ho detto, eppure nol posso senza esporre qualcuno a me sommamente caro.

– Cosa temete, signore? » disse Emilia; « se posso prevenirlo; affidatevi al mio onore.

– Mi affido senza dubbio all'onor vostro, ma posso io fidarmi egualmente del vostro coraggio? Credete voi di poter resistere alle preghiere di un amante corrisposto, che, nel suo dolore, vorrà sapere il nome di chi lo priva della sua felicità?

– Non sarò esposta a questa tentazione, signore, » disse Emilia, con nobile fierezza, pur reprimendo a stento le lagrime; « non potrei continuare ad amare una persona che non posso più stimare, e perciò vi do la mia parola d'onore.

– Vi dirò dunque tutto; la convinzione è necessaria alla vostra futura pace, e la mia intiera confidenza è il solo mezzo per procurarvela. Enrico, il figlio mio, è stato troppo spesso testimone della cattiva condotta del cavaliere: vi fu quasi trascinato anche lui, e si abbandonò a mille stravaganze; ma riuscii a preservarlo dalla perdizione. Giudicate ora, signora Emilia, se un padre, a cui l'esempio del cavaliere ha quasi traviato l'unico figlio, non abbia un titolo bastante per avvertire quelli ch'egli stima, di non affidare la loro felicità in tali mani. Ho veduto io stesso il cavaliere impegnato nel giuoco con tai persone, che fremo al solo rammentarle; se ne dubitate ancora potete informarvi meglio da mio figlio.

– Non dubito, o signore, dei fatti dei quali foste testimone, o che affermate, » disse Emilia, soccombendo al suo dolore; « il cavaliere si sarà forse abbandonato ad eccessi nei quali non cadrà più; se aveste conosciuto la purità dei suoi primi principii, potreste scusare la mia attuale incredulità.

– Aimè! quanto è difficile il credere ciò che ci affligge! ma non voglio consolarvi con false speranze… Noi sappiamo tutti quale attrattiva abbia la passione del giuoco, e quanto sia difficile il vincerla. Il cavaliere si correggerebbe forse per un certo tempo, ma tornerebbe ben presto a ricadere nella funesta sua inclinazione. Temo la forza dell'abitudine, temo anzi che il suo cuore sia già corrotto. E perchè dovrei nascondervelo? Il giuoco non è il suo unico vizio; pare ch'egli abbia preso il gusto di tutti i piaceri vergognosi. »

Qui il conte ammutolì; Emilia, addolorata, sentendosi quasi mancare, aspettava ciò che aveva ancora da dirle. Villefort, visibilmente agitato, continuò: « Sarebbe una delicatezza crudele se persistessi a tacerlo; per due volte, le stravaganze del cavaliere lo trassero nelle carceri di Parigi, d'onde è uscito, a quanto mi fu accertato da persone degne di fede, la mercè d'una certa contessa notissima, e colla quale viveva tuttavia quand'io partii da Parigi. »

E cessò di parlare; guardando Emilia, si accorse che cadeva svenuta, e s'affrettò a soccorrerla. Passò qualche tempo prima ch'ella potesse riaversi: allora si trovò fra le braccia, non già del conte ma di Valancourt, il quale l'osservava con occhio smarrito, volgendole la parola con voce tremante. Al suono di quella voce tanto nota, Emilia aprì gli occhi, ma li rinchiuse tosto, e svenne di nuovo.

Il conte, con un'occhiata severa, fe' segno al giovane di allontanarsi. Questi non fece che sospirare e chiamare Emilia presentandole acqua. Il conte ripetè il suo gesto, e l'accompagnò con qualche parola; Valancourt rispose con uno sguardo risentito, ricusò di abbandonare il suo posto, finchè Emilia non fosse rinvenuta, e non permise ad alcuno di avvicinarsele; ma nell'istante parve che la sua coscienza l'informasse del soggetto dell'abboccamento del conte e di Emilia: i suoi occhi si accesero di sdegno, che fu tosto represso dall'espressione d'un profondo dolore: il conte, osservandolo, fu mosso a pietà più che ad ira. Emilia, ripreso l'uso dei sensi, si mise a piangere amaramente, ma facendosi coraggio ringraziò il conte ed Enrico, con cui Valancourt era entrato nel parco, e s'avviò al castello, senza dir nulla a quest'ultimo. Colpito nel cuore da tal condotta, egli esclamò: « Gran Dio! In qual modo ho io meritato questo trattamento? Che vi hanno detto per cambiarvi a tal punto? » Emilia, senza rispondere, ma sempre più commossa, raddoppiava il passo.

« Accordatemi pochi minuti di colloquio, » le diss'egli avanzandosi al di lei fianco, « ve ne scongiuro: io sono infelice. »

Quantunque avesse parlato sottovoce, il conte lo intese, e replicò che Emilia era troppo indisposta, onde poter parlare con alcuno, ma che ardiva accertare ch'ella avrebbe veduto il signor Valancourt il dì seguente se fosse stata meglio. Il giovane arrossì, guardò Villefort con fierezza, quindi Emilia con espressione di dolorosa sorpresa, poi raccogliendosi alquanto, soggiunse:

« Ebbene, verrò, signora; approfitterò del permesso del signor conte. »

E fatto un leggiero inchino, si allontanò.

Appena rientrata nel suo appartamento, Emilia fu agitata da mille pensieri rammentandosi il racconto di Villefort. Talora credea che avessero falsamente accusato Valancourt, parendole impossibile che quel carattere sì franco e leale avesse potuto avvilirsi e cadere sì basso. Tal altra dubitava perfino della buona fede del conte, supponendolo spinto da motivi segreti a rompere la sua relazione con Valancourt; ma, riflettendoci, respingeva di poi siffatto pensiero. In ogni modo sentiva il peso della sua sventura. In mezzo al tumulto de' contrari affetti, si rammentò la semplicità dimostrata da Valancourt la sera precedente. Se avesse potuto dar ascolto al cuore, ne avrebbe sperato bene. Non poteva risolversi ad allontanarsi da lui per sempre, prima di avere acquistata una prova più convincente della sua cattiva condotta.

Infine deliberò di tornare al convento per passarvi due o tre giorni. Nello stato in cui si trovava, la società le diveniva insopportabile. Sperava che la solitudine del chiostro e la bontà della badessa l'aiuterebbero a riprendere qualche impero su sè medesima, ed a sostenere lo scioglimento che pur troppo prevedeva. Le pareva che sarebbe stata meno afflitta se Valancourt fosse morto, o s'egli avesse sposato qualche rivale. Ciò che la riduceva alla disperazione, era il vedere l'amante disonorato e coperto d'obbrobrio, costringendola così a strapparsi dal cuore un'immagine sì lungamente adorata.

Le triste riflessioni vennero interrotte da un biglietto di Valancourt, il quale, dipingendo il disordine dell'anima sua, la scongiurava di riceverlo quella sera medesima, anzichè la mattina. Provò essa tanta agitazione, che non ebbe la forza di rispondere: desiderava vederlo, per uscire da quello stato d'incertezza. Recatasi dal conte, gli domandò consiglio. Villefort le rispose che, se credeva avere forza bastante da sopportare questa scena, credeva utile ad ambedue di accelerarla.

La fanciulla rispose all'amante che acconsentiva a vederlo, e procurò in seguito di raccogliere le forze ed il coraggio di cui aveva tanto bisogno per sostenere un colloquio che doveva distruggere le sue più dolci e care speranze.

I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4

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