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A FRANCESCO BERLINGIERI

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Venendo a Te, per dedicarti il mio libro, penso ad una tua bella fantasia giovanile, «Un frate che minia la Divina Commedia»; povero frate che tu hai lasciato senza compagni, mutando il suo buon codice membranaceo nei codici moderni del patrio diritto; povero frate, per cui l’arte aveva ancora «sorrisi e fascini», ma più assai la giovane natura, parlante a lui l’onnipossente linguaggio da quelle stesse pagine ch’egli andava infiorando con le belle immagini fantasiose, ridenti d’italica primavera al genio di Oderisi da Gubbio e di Franco Bolognese. Deposti i pennelli, poggiata la faccia sulla palma della mano, pensa il povero frate, con gli occhi rivolti al poema del profugo Fiorentino «a cui temprâr l’ingegno—e l’amore e lo sdegno». O frate, tu gli hai detto, ammonendolo:

O frate, a lui l’esilio

E le pugne dell’alma:

A te l’obblìo degli uomini

E la cristiana calma.

Perchè t’alzi a colloquio

Col Ghibellin? tu piega

La queta fronte, e prega.

Ma sì, tardi consigli, come sono su per giù tutti i consigli dell’esperienza! Il male è fatto: il tuo monaco ha riletto dianzi quel diabolico canto V dell’Inferno, donde scoppia tanta passione umana, e dilaga e straripa. Quei due maravigliosi dannati raccontano anche così bene!

Per più fiate gli occhi ci sospinse

Quella lettura e scolorocci il viso:

Ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Povero frate! Satana gli ha dato l’esca. Che ardori nel suo sangue! che visioni nella sua cella! I giorni felici si ripresentano alla sua mente, con immagini e fragranze di baci; la gioventù lo chiama, la terra lo invita; il rimorso lo turba, e il cielo dimenticato un istante gli ridipinge agli occhi la scena terribile dei sicuri castighi. No, non più affetti terreni, non ribellioni, non fughe.

Dio, mi salva dal dèmone

Che tutto mi possiede!

Di macere vigilie

Rinforzerò la fede.

Nè più profane pagine

Avran su me l’impero!

Io minierò il Saltero.

L’uomo antico era ricomparso tra le mortificazioni dell’asceta; ma l’asceta ha riconosciuto il tentatore, ha resistito, ha vinto. Così tu, fantasticando davanti alle rovine di un vecchio convento, che l’anima tua ripopolava «di larve incappucciate», hai rievocato un momento tipico della vita passata, o, per dire più veramente, hai intravveduto nella vita passata un lampo della coscienza eterna, dell’eterno dissidio e del vincolo eterno tra la terra ed il cielo.

Ho il mio frate ancor io. Non minia, pur troppo: parla il linguaggio aspro e nondimeno attraente che molti ascoltano tuttavia, che molti ascolteranno ancora dopo di noi, perchè tra forme mortali e transitorie reca sempre la nota della immortale verità non mai intieramente chiarita, della immortale domanda non mai pienamente soddisfatta. Egli è voce e coscienza d’una religione storica, che in mezzo a tante cure mondane onde fu troppo infrascata nei secoli scorsi ed è ancora afflitta nel nostro, è pur bastata a dare un corpo di dottrine morali purissime, suggellate dal bel principio in uno stupendo esemplare di dolcezza e di grazia, di virtù, di mansuetudine, di sacrifizio sublime, parlante dalla montagna al popolo di Tiberiade, disputante coi dottori della legge nel tempio di Gerusalemme, odiato ugualmente da Scribi e da Farisei (specie non morta ancora), ugualmente franteso da Giudei e da Romani, dagli uni e dagli altri condannato nella doppia sentenza del sinedrio e del pretorio, epicamente grande nel supplizio del Golgota, redivivo e trionfante nella fede degli umili come promessa infallibile di ricompense celesti, presente in ispirito e in verità dovunque si soffre, dovunque si procede, dovunque si spera di giungere ad una meta, commensale divino degl’infelici, rompente con paterno amore ai pellegrini di Emaus quel pane quotidiano, che a tanti figli d’Adamo sèguita sempre a mancare. Triste cosa, non è vero? e si può bene rimpiangere che i seguaci si siano allontanati di tanto dall’esemplare maraviglioso; riuscendo agli onori del trionfo per collegarsi tosto a mutua difesa coi potenti della terra; non dando ai miseri altro aiuto fuor che di buone parole; sognando per sè l’impero del mondo, ed ottenendo per via da tutti i monarchi, alternamente combattuti e favoriti, uno scampolo di territorio per le loro famiglie, nella patria divisa, assoggettata e tradita. Ma gli errori degli uomini nel corso dei secoli, ed oggi le ineluttabili ragioni della difesa civile, non ci faranno dimenticare il buon principio essenziale di quella religione, che ha pure educato nei cuori il sentimento del divino, prendendolo ovunque le fu dato rintracciarlo, germe prezioso e fecondo, tra la scoria delle superstizioni volgari e tra le perle della filosofia antica, tra i dubbî della scuola e gli stupori della piazza, tra i foschi terrori e le serene speranze di settantaquattro generazioni. E chi sa? l’istesso mio frate, un po’ incalzato e stretto al muro da chi avesse avuto più tempo per ciò, si sarebbe licenziato a parlare più liberamente che non solesse fare dal pergamo ai fedeli cristiani di San Giorgio. Credete in Dio, avrebbe detto, credete in un Dio giusto e buono, come causa prima dell’universo; osservate la legge morale, com’ella per volontà di lui si è rivelata alle genti: praticato il rispetto, l’amore, la carità nel mondo, e lasciate al tempo la cura del resto. Molte foglie cadono ogni autunno dall’albero; molti rami secchi al peso delle nevi invernali, all’azione dei geli, al soffio della tramontana si spezzano: ciò che è vitale, vivrà.

Il mio frate non minia, ti ho detto; nè io son riuscito a miniar lui con arte degna del tema. L’ho tirato giù alla grossa, ma vedendolo bene; e penso che questo si debba sentire da tutti coloro che lo vedranno apparire a suo tempo, nel corso di queste pagine, viva figura di combattente, o larva di promessi rimorsi per due povere creature condotte dal destino all’aspro dissidio tra la passione e il dovere, tra la natura obbedita e la legge violata. Intorno alle quali cose, io credo che il mio pensiero, essendo chiarissimo, non si possa frantendere nè falsare da uomini di parte, credenti o miscredenti che vogliano essere: ma certo non sarà male renderlo più evidente colla giunta di poche altre considerazioni.

La società moderna, per giudizio di alcuni, va bene abbastanza, volgendo apertamente ed infallibilmente al meglio, alla liberazione, alla certezza, alla luce. Non tanto sfoggio di sostantivi, mi raccomando. Spero anch’io che volgerà al meglio, se per merito di qualche evento prodigioso le capiterà di rimettersi in gambe: per ora mi sembra che zoppichi; e guai se lo zoppo fa a correre; vuol esser tombola, non ti pare? La grande rottura, avvenuta da un pezzo, e di questi tempi condotta agli estremi, tra la scienza e la fede, ha tra parecchi buoni effetti il cattivo di lasciar la morale senza guida, senza sostegno, in un momento sociale che più avremmo bisogno di lei; mentre le moltitudini, felicemente sciolte da tanti vincoli molesti, sentono più vivo il gusto della libertà e lo estendono volentieri a tutti i godimenti dell’essere; mentre tutti gli accorti, segnatamente i meglio provveduti, i meglio collocati nel mare magno della vita, dopo aver tremato un pochino di certe raffiche minacciose, si rassegnano alla burrasca, vogando alla galeotta e ripetendo tra sè il motto infame di Luigi XV: «après moi le déluge»; mentre lo stesso fondamento della società, che è la famiglia, non ha più un medesimo pensiero, un medesimo criterio, un medesimo istinto, per tutte le persone che la compongono. Nel modo di vivere, di sentire, d’intendere, di curare la conservazione delle tradizioni, degli averi, delle virtù private e domestiche, principio delle pubbliche e civili, noi non sembriamo già più i figli dei nostri padri: gran soluzione di continuità, che dovrebbe farci pensare! Così la famiglia si disunisce, un po’ per debolezza sua, molto per colpa de’ suoi capi, che non l’hanno più per santuario, come gente civile, ma per rifugio, come selvaggi primitivi. L’uomo va per un verso, e la donna per l’altro, secondo gli umori, i gusti, le vanità; crescano i figli come vogliono e possono; e padri e madri e figliuoli con molti bisogni, perchè con molti appetiti; senza ideali, perchè senz’ombra d’idee.

Restaurare nel civile consorzio il senso morale parrà necessario a chi pensa; e necessario veder cominciare la restaurazione dai capi, dai capi della famiglia, dai capi della società, donde l’autorità deriva, donde gli esempi si spargono. Ma noi non faremo niente senza virtù private, senza idealità che le informino, scaldandone la buona semente nei cuori. Tanto io credo, «e creder credo il vero». Per ritornare al libro che ti offro, esso sarà giudicato come vorrà essere; anzi diciamo pure, pronosticando, che non sarà giudicato affatto. Viviamo in un paese di gente savia e prudente, che aspetta di fuori sentenze ed oracoli, mode, predizioni del tempo ed almanacchi. Mi preme soltanto che il libro sia sentito da coloro che lo leggeranno. Da ventimila, dice l’amico editore, sperando: da venti, dico io, già molto ambizioso, se penso ai venticinque di cui si contentava il Manzoni: nel fatto, levando tutti gli zeri, me ne bastano due.

Eravamo in due all’Acqua Novella, te ne rammenti? C’è là, in un angolo felice della nostra Liguria occidentale, il più antico e il più recente mio ricordo campestre. Vidi da bambino ed amai quella voltata in discesa dalla balza di Bergeggi a Spotorno, con le rovine dell’èremo di Sant’Antonino, piantato nel vivo della rupe ferrigna, sotto i ciuffi degli arbusti che gli fanno ombra dal ciglio sfaldato del gran masso imminente. Era allora il mio sogno d’essere il padrone dell’èremo, di restaurarlo, di farmi frate là dentro, frate di un ordine mio, molto benedettino per la copia dei libri, molto templario per la quantità dei conversi; gaudenti essi della vita materiale, gaudente io della felicità intellettuale, in quella grata solitudine, difesa dai venti freddi, con quel lembo di cielo opalino, con quella lista di mare turchino davanti, dimenticando tutto l’altro dello spazio e del tempo, ignorando l’ora degli altri, aspettando la mia senza troppo curarmene. Veramente, l’orologio non era lontano; orologio solare, sul terrazzo di una casa verdognola, trecento passi più in là, nel bel mezzo di un orto; con quella sua leggenda: «ultima necat» che fu la prima frase latina capitata davanti a’ miei occhi, e che mi dava sempre tanto da pensare, tutte le volte che passavo da quelle parti. Quando fui in grado da intenderla, amai compirne l’idea, premettendole un «vulnerant omnes». Ma per allora non era il caso di filosofarci su; ed io non filosofavo, sentendo il desiderio di quella pace, sognandola tutta per me.

Era un sogno, e finì come finiscono i sogni. Ma i bei sogni si ricordano volentieri; ed io più volentieri l’ho ricordato, tornando or non è molto con te alla tua bella Spotorno, bianca lucente sulla spiaggia lunga, tra la voltata di Bergeggi e il monte Orsini, aspra guardia di Noli. Ad un certo punto, e di comune accordo, abbiamo fatta fermar la carrozza; io per contemplare il mio èremo, tu per farmi bere un sorso della fontana lì presso, l’Acqua Novella, zampillante da una gran vasca quadrata, sul margine della strada maestra. O acqua ben nomata, veramente fresca, ristoratrice e pura, come tutte le cose novelle! Io non sogno più solamente il mio vecchio èremo e la mia vecchia meridiana; sogno ancora l’Acqua Novella e quel buon tratto di strada quieta, che abbiamo fatta a piedi con tanta allegrezza, mentre i cavalli ci seguitavano al passo. E penso ancora, nel mio sogno, che l’uomo più felice della terra debba essere un certo guardiano di strada ferrata, che ha il suo casotto in quelle vicinanze, col suo orticello, i suoi fagiuoli e il suo gran fico brogiotto, accanto allo sbocco della galleria di Bergeggi. Poveraccio! e forse egli sogna a sua volta un trasloco, una promozione, che lo sbalzi guardia eccentrica o guardia di sala in qualche stazione importante, donde gli sia facile di mandare a scuola le quattro o cinque creaturine che senza fatica, quasi senza un pensiero al mondo, gli sono rampollate là dentro.

Son tutti così, i miei bravi cantonieri di strada ferrata. Ricordo ancora quello di Varigotti, conosciuto tanti anni fa. Aveva anche lui una bella fontana daccanto, anzi una vera cascata d’acqua, che piombava dalla balza rossastra, sotto la chiesuola abbandonata di San Lorenzo; aveva un orticello, con pèschi, fichi e fagiuoli, ch’erano una maraviglia a vederli; aveva il gran mare turchino davanti, e tutt’intorno, da ogni piega del terreno, da ogni borro, da ogni fenditura della rupe, occhieggiavano a lui tra lucide foglie di smeraldo i bei limoni dal color dell’oro. Per esser felice, non gli mancava neanche una moglie, giovanissima, bella e savia, amante del lavoro e di lui. Ma quello ci aveva il mal del paese; voleva lasciare quel sorriso di cielo e di mare, quel profumo, quel tepore, quella gloria, per ritornarsene al suo nido natale, o non troppo discosto, tra Bussoleno e Modane, sotto le Alpi nevose, a sentir cantare gli aquiloni e scrosciar le valanghe. Barattava male, e non fu difficile contentarlo. Sarà felice, ora? Ah, penso che Gabriello Chiabrera fu ben ispirato, il giorno che sul portone della sua casa fece scolpir l’oraziano: «Nihil est ab omni parte beatum».

Ma se una felicità compiuta non si ritrova in nessun luogo, neanche là dove io l’avevo sognata, bene mi sarà lecito di desiderare che la vita sia più ricca d’ideale, e che un’acqua novella, se pure non ci si debba vivere accanto con oraziana serenità, rinfreschi e purifichi le nuove generazioni; che il sentimento del divino, ingenito nella coscienza umana, si accordi un giorno colla critica non più arrogante di facili dispregi, colla scienza non più infatuata di sollecite deduzioni, e venga in buon punto a rinvigorire di nuovi succhi la povera morale intristita. Questo è il mio sogno dell’età matura, e credo che questo sia pure il tuo. Tu hai, a buon conto, una famiglia nata di te; vuoi che abbia i tuoi stessi ideali, riflettendo alcun che di quelli che tu stesso derivi dai tuoi vecchi; ai quali con animo reverente mando un augurio e un saluto filiale ancor io.

Comunque esso sia riuscito per l’arte, il mio libro è morale. Non già come un trattato; credo anzi che ci corra molt’acqua, e tutt’altro che novella, di mezzo. Ma esso è morale, nondimeno, come può essere tale un romanzo; cioè a dire una rappresentazione della vita reale, aspersa d’una certa idealità, che è poi la nota personale fatalmente recata dall’artista nella cosa veduta, nella cosa sentita ed espressa.

Ritorneremo col bel tempo all’Acqua Novella e al vecchio èremo diroccato. Tu ama intanto il tuo

Anton Giulio Barrili.

Tra cielo e terra: Romanzo

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