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Capitolo Primo.
Addio, bel mare!

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Indice

Gli avevano fatta un’ingiustizia, saltandolo nelle promozioni; perciò, a mala pena sbarcato, aveva mandata la sua dimissione al ministro. Per la via gerarchica, s’intende; e il capo del suo dipartimento marittimo, alla Spezia, si era degnato di esortarlo a pensarci su, almeno un paio di giorni. Per non fargli dispiacere col mostrarsi sconoscente alla cortesia del superiore, aveva accettato il consiglio; ma, quarantott’ore dopo, si era ripresentato al suo illustre capo, pregandolo di dar corso alla lettera.

Tra gli uguali, qualche amico sincero aveva tentato dissuaderlo, arrischiandosi a dirgli che commetteva un errore; ma egli non aveva voluto convenirne. Altri gli dicevano: «Fai bene; è stata un’ingiustizia; le ingiustizie non si sopportano». Ed egli rispondeva con un vivo cenno di assenso, quasi di ringraziamento, come uno che si senta compreso, congedandosi con una poderosa stretta di mano da tutti quei vecchi compagni, ai quali lasciava un gradino vuoto su quella scala di Giacobbe che conduce al paradiso del viceammiragliato.

Era sicuro del fatto suo; la risoluzione gli pareva buona, per il caso presente e per i casi futuri. Infatti, che cosa sperare da quel ministro, che era stato suo comandante in una memorabile crociera e che aveva mostrato in parecchie occasioni di non poterlo soffrire? Effetto di una ruggine antica, per una manovra fatta da lui, di suo capo, che il comandante non aveva ordinata, che anzi aveva biasimata. Un po’ troppo presto, per altro: lo scandaglio, la mattina dopo, aveva dimostrato a tutti che seguendo ciecamente gli ordini del comandante si sarebbe rimasti incagliati. Quattro palmi di sàgola avevano dato ragione all’inferiore; e il superiore se l’era legata al dito, quantunque l’inferiore si fosse studiato con ogni maggior cura di non lasciar trasparire il sentimento della propria superiorità. Una promozione, dopo quel giorno malaugurato, era venuta per tutt’e due, l’uno giungendo al grado di tenente di vascello, l’altro al grado di contrammiraglio. Due anni ancora, e il contrammiraglio diventava ministro. Il ministro si era slegato finalmente il dito, saltando nelle prime promozioni il tenente di vascello.

Lagnarsi? È presto detto. In che modo? Aspettare che cascasse il ministro; sì, fra due o tre anni, e intanto divorarsi l’affronto. No, niente aspettare; perciò aveva mandata la sua dimissione. Cosa amaramente spiacevole per lui, quanto edificante per tutti, la sua dimissione era stata accettata a volo. Brutto momento, vedersi così di punto in bianco fuori dell’uscio! Ma c’è «la buona compagnia che l’uom francheggia»; e questa, nei brutti momenti, consola.

Ahimè, non del tutto. A lui una pena sorda restava nel profondo dell’essere. Amava il mare; il bel mare, così pieno di misteri, così magnifico nella collera, così augusto nella calma, che pare abbia un’anima, e grande, meravigliosamente grande, grande almeno sei volte quella dell’umanità tutta quanta; il buon mare che mette in comunione tutte le creature viventi, assai più ed assai meglio che non facciano tante strade ferrate e tanti telegrafi. In questi dotti congegni c’è sempre l’arte di un mondo piccino, piccino come tutte le trovate degli uomini; c’è sempre l’idea di sentirsi passare in una cruna d’ago, assottigliati, stiacciati, tanagliati dagli attriti continui del passo. E poi, che cosa sono le invenzioni dell’uomo, ristrette ad un solo ufficio, ordinate ad una sola utilità, in confronto di quella superficie azzurra, pianura liquida e senza solco, che palpita e porta, mobile, gloriosa e superba, che dà moto e gioia a tanti organismi animati, colore agli occhi, calore agli spiriti, essendo ad un tempo la via e la vita?

Tutto è nuovo su quella via, l’abbiate pure cento volte percorsa; ve la fanno parer sempre nuova i mille diversi aspetti delle cose, nella vastità sconfinata degli orizzonti, nella infinita varietà delle tinte, mezze tinte e sfumature, dell’aria e dell’acqua. Il punto a cui volgete la prora è di giorno una striscia di azzurro, di grigio, di roseo, sull’ultimo lembo del mare, una striscia tenue che non vi offre il colore stridente nè i contorni aspri del vero; nella notte, poi, è un punto di fuoco, che getta sulle acque un raggio luminoso; più spesso, e di giorno e di notte, è l’invisibile, il nulla, ma con la sublime certezza di vedere, di trovar qualche cosa, al momento prefisso, sulla via che vi dimostrano le stelle, che vi traccia infallibilmente un computo aritmetico. E intanto il lontano fa pensare; l’occhio intravvede l’infinito; l’anima sente Dio; nè ci sono professori di calcolo per rimpicciolirvi quello con la figura di un otto coricato, nè filosofi del malanno per dirvi che questo è un sogno, una idiosincrasia naturale, una concrezione storica del vostro pensiero.

Con che ansia, adolescente allievo del collegio di marina, aveva aspettato il giorno del suo primo imbarco! Con che passione aveva fatto il suo primo viaggio, quindici anni addietro! Lo aveva sentito cantare e sospirare, fremere, urlare e ruggire, quel mostro immane dai grandi occhi verdi e dal dorso di spume! E lo aveva ammirato nella molteplicità degli aspetti, soavi e terribili, graziosi e feroci, sempre nuovi e stupendi; lo aveva amato nella salubre vivezza delle fragranze, nella dolce giocondità dei ritmici cullamenti. E dopo tante ammirazioni, dopo tanti amori, lo aveva lasciato! Ma sì, che volete? gli avevano fatta un’ingiustizia. Le ingiustizie non si sopportano, o si mostra di averle meritate; nel qual caso non sono più ingiustizie, ne convenite? Triste cosa, per altro! Aveva sempre sognato una guerra, da far le sue prove anche lui, da onorare l’Italia, questa lunga penisola che pare una gran nave imbozzata attraverso il Mediterraneo, e che non dovrebbe starci, perdio, come un pontone, come una fregata in disarmo. Quella guerra non l’aveva certamente invocata; il valoroso non invoca i pericoli, che non sono solamente per sè, ma per tutti; li aspetta, e si prepara ad affrontarli.

Aspettando la guerra, preparandosi a quella, il soldato serve la patria. E perchè non l’aspettava egli ancora, passando sopra ad una cattiveria di ministro? Infine, gli uomini passano, la patria resta. Verissimo, questo; ma è verissimo ugualmente che son tutte parole. La patria che resta è sorda, cieca e muta; non vi sente, non vi vede, non vi conforta per nulla, non vi consola affatto, non vi vendica di quell’altra che passa, agitandosi intorno a voi, standovi sotto, accanto e sopra, che vi giudica senza criterio, ammirandovi di fuga quando il caso dà a voi di far bene e a lei di non poter fare altrimenti, disprezzandovi quando ne può avere un pretesto, deridendovi spesso e volentieri, ne abbia o non ne abbia ragione, solo che si presenti un appiglio. La patria grande, la vera, dopo tutto, si serve con dignità. Levate la dignità al soldato, e non gli resta più nulla; c’è la morte nell’anima, e il servire è vergogna.

Per altro, non credeva di dover tanto soffrire, obbedendo alla voce della propria coscienza. Fu una triste giornata quella in cui gli annunziarono che la dimissione del tenente Sospello era stata accettata. Ah, non voleva stare neanche un giorno alla berlina delle condoglianze. Le sue valigie erano fatte, in attesa dell’evento. Se ne andava subito subito; e lontano, molto lontano dal mare, che non voleva vedere mai più. Alla terra de’ suoi padri, alle Alpi, avrebbe chiesto il rifugio; possedeva ancora una bicocca, lassù. Di vecchi non c’era più nessuno, ad aspettarlo: restava una sorella maggiore, nobile e santa creatura, che tant’anni prima avrebbe desiderato di chiudersi in un monastero, ma non aveva osato farlo, per non lasciar solo del tutto il suo vecchio babbo. Morto quello, non aveva potuto lasciar solo e vuoto il vecchio palazzo, dove cinque generazioni di Sospelli di Vaussana erano passate, e dove era naturale che ella restasse per custodire il posto alla settima, se mai il fratello Maurizio si risolvesse di continuare la stirpe.

Buona e cara Albertina! Egli andava a farle compagnia nella triste casa; e qual compagnia! Lei, fastidita del mondo anche prima di conoscerlo, certamente per qualche intima ragione si era appartata a quel modo, rinunziando alle gioie della vita; se pure la vita ne ha. Anch’egli, vecchio scapolo, che aveva sognato d’impalmare la gloria, offeso un giorno nella sua dignità, rinunziava a tutti i sogni di una legittima ambizione, per andarsi a rinchiudere nella casa dei suoi maggiori, come un povero alcione ferito va a posar l’ala sanguinolenta sul nido abbandonato.

Maurizio aveva già scritto alla sorella, annunziandole la sua dimissione come un proposito irrevocabile: ma egli non intendeva già d’impoltronire nella sua bicocca montanina; non voleva finir cacciatore, nè giuocatore beone, come tanti gentiluomini campagnuoli. Possedeva una ricca libreria; l’avrebbe al bisogno accresciuta, per dedicarsi ad un’opera di polso. Aveva sempre vagheggiato il pensiero di scrivere un libro delle guerre marittime d’Italia, ma condotto con una certa larghezza di disegno, da appagar tutti i gusti, da rispondere a tutti i bisogni intellettuali, ordinato e preciso come una storia, vivo e animato come un romanzo, il libro del marinaio italiano, il libro che mancava ancora, per dare una idea chiara e compiuta delle antiche navigazioni e degli antichi commerci, argomenti di emulazione e cause di guerra tra i popoli; per descrivere i costumi marinareschi, le imprese audaci, le trasformazioni successive della strategìa e della tattica navale nel gran bacino mediterraneo. Certo, per condurre a termine un’opera come quella, non gli sarebbero bastati i libri che possedeva. Ma il primo anno lo avrebbe speso a tracciare il quadro; poi avrebbe veduto, si sarebbe destreggiato via via secondo il bisogno, cercando altri libri, viaggiando per città e biblioteche; ottima occasione per isgranchirsi, per non fare la ruggine. Ed era ancora una bella vita per un uomo di trentadue anni; e aveva tempo davanti a sè per colorire degnamente il quadro ideato.

Il suo attendente, congedandosi da lui alla stazione di Spezia, gli aveva dato il buon viaggio con le lagrime agli occhi.

—Grazie, Susini, e addio; siamo uomini;—gli rispose Maurizio.—Scrivimi, se ti occorrerà qualche cosa; ed anche quando non ti occorrerà nulla; riceverò sempre le tue lettere con molto piacere.

—E lei, signor tenente, non avrà mai bisogno di nulla, da un povero marinaio?

—Sì, spesso sentirò che mi mancherai, bravo Susini. Intanto, ti prego, appena sarà di ritorno, mi saluterai il Duilio.—

Aveva il cuor gonfio, il signor Maurizio, e incominciava a tremargli la voce.

—Ah, signor tenente!—mormorò il marinaio, singhiozzando.—È stata una grande ingiustizia.

—No, sai? t’inganni. Non si fanno ingiustizie, in servizio. Ci possono essere degli equivoci, dei malintesi; ma ingiustizie no, mai;—replicò il signor Maurizio, che aveva ancora la disciplina negli occhi e non voleva finir la carriera dando lo scandalo di dir male o di lasciar dir male dei superiori.—Se ti sembro commosso, pensa che ne ho qualche ragione. Non si abbandona il mare senza uno schianto dell’anima. Un giorno la sentirai anche tu, Susini mio, la nostalgia del mare.

—Io no, signor tenente, con sua licenza non avrò da sentirla. Non si ricorda che sono della Maddalena?

—È vero, sì, e invecchierai vedendolo ogni giorno; e quando sarai morto lo sentirai ancora da tutte le parti brontolare alla spiaggia; che bella cosa!—concluse sospirando il tenente.—Ma senti, fischia la macchina, e non vuol più saperne dei nostri discorsi. Qua la mano, mio vecchio, e addio!—

Il treno si metteva in moto, e il marinaio ebbe appena il tempo di baciare la mano che il suo tenente gli offriva per l’ultima volta.

—Non lo vuole ammettere;—borbottò egli, allontanandosi dal marciapiede d’asfalto, come il treno fu scomparso nel buio della notte;—ma tutti lo dicono a una voce: è stata un’ingiustizia. Per colpa di quei signori laggiù, la marina italiana ha perso ancor uno dei suoi manovrieri. E buono, poi, buono come il pane di Voltri; gentile come una ragazza di quindici anni, che non gli si è sentito mai uscir di bocca una mala parola, neanche nelle ore che scapperebbe la pazienza ai santi.—

La notte, senza lume di luna, era buia, e l’entrare del treno nelle centomila gallerie delle Cinque Terre e l’uscirne non facevano divario alla vista. Maurizio, nondimeno, sentiva il mare vicino, lo sentiva alle acute fragranze e al romper dei marosi contro le rupi. Lo rivide sull’alba, il vecchio amico brontolone; lo rivide di là dal monte di Portofino, farsi a mano a mano più luminoso e più bello, a Recco, a Nervi, a Genova, e giù giù per tutta la quieta Riviera di Ponente, dove si aprono cinquanta seni azzurreggianti tra il verde, e su lembi sottili di candide spiagge cinquanta paesi si distendono al sole. Quanti porti e rade, e golfi e calanche, di cui Maurizio conosceva gli approdi! A Genova era vissuto parecchi anni collegiale, e tante volte c’era tornato ufficiale. Nella rada di Vado, ancoraggio sicuro, era andato una volta a rifugio colla sua cannoniera, cacciato per due giorni da un fortunale di libeccio. Quella costiera della Cornice tutta frastagliata da balze ferrigne, coi suoi fondi di turchino carico listato di smeraldo e sormontato di bianche creste spumose, come l’aveva in pratica! Ed era sempre là, il suo mare, ad ogni uscita di galleria, il suo mare azzurro, scintillante, superbo, il buon mare, il bel mare, a cui aveva tutto sacrificato per tanti anni, perfino l’amore, il grande, il forte, il supremo bisogno dei cuori.

Non aveva egli dunque amato mai? Sì, aveva amato, ed anche incominciando per tempo; ma anche per tempo si era fermato. A quattordici anni aveva preso una cotta famosa per una sua cuginetta, splendidissima e formosissima bionda. Per moglie non sarebbe andata, avendo perfino un anno o due più di lui: ma chi bada a queste differenze, quando cantano gli anni adolescenti nel cuore? Quella stupenda creatura egli l’aveva veduta da bambino, e avevano giuocato insieme a marito e moglie: il «te ne rammenti?» era stato proferito con gusto al nuovo incontro, quando la cuginetta era venuta coi parenti a Genova, per salutar lui collegiale promosso agli esami finali e già presso all’imbarco desiderato. Ah, il bel giuoco di cui si ricordavano ridendo, ed anche arrossendo un pochino! Ma egli arrossiva anche d’un altro pensiero, che tanta bellezza fiorente gli aveva fatto nascere subitamente nell’anima. Perchè non si sarebbe ripigliata da senno quella condizione di marito e moglie che nove anni prima si era stabilita per giuoco? Ed egli già stava mulinando, in quei giorni di baldoria per le strade di Genova; studiava il modo di girare la frase, per dire alla cuginetta: aspettami due o tre anni, quanti i nostri parenti stimeranno che bastino, per.... Ma la frase non gli veniva mai bene, come avrebbe voluto. E frattanto, una domenica all’Acquasola, dov’erano andati a sentir la musica, quella splendidissima e formosissima bionda che tutti ammiravano, gli aveva detto di schianto:

—Sapete che non siete punto belli voi altri, con la vostra feluca?—

Il «voi altri» andava agli ufficiali di marina. Maurizio non era ancora che un allievo, e non portava la feluca; ma l’avrebbe portata ben presto, nelle circostanze solenni. Perciò s’impermalì un pochettino, sentendo quella eresia, e guardò la cuginetta con aria di persona offesa.

—Non siete belli, vi dico;—ribattè quell’altra, ridendogli ancora sul muso;—e tu starai male, cugino Maurizio. Neanche si capisce, quel vostro uniforme; non significa nulla. Perchè quella feluca nera, che non si può tenere ben salda sulla testa, che vi scivola sempre indietro, con uno di quei becchi d’anitra, in su, verso la luna, e l’altro in giù, che vi piove sulle spalle? perchè quello spadino al fianco, che par uno spiedo da infilzare i ranocchi? perchè quella coda di rondine, smilza smilza, che va a cercarvi i polpacci? Non si capisce, ti ripeto, quel vostro uniforme; non significa nulla.

—È quello a un dipresso di tutte le marinerie europee. Lo ha portato Nelson, signorina.

—E lasciatelo a Nelson, e vestitevi da cristiani. Guarda laggiù, quell’ussero di Piacenza. Che eleganza di vestiario! che armonia di tinte! e che aria marziale!

—Ah sì, quello starebbe bene a bordo!—notò Maurizio, allungando le labbra, con aria di sublime disprezzo.

—A bordo, non so;—ribattè la cugina, senza scomporsi.—Noi siamo in terra; per la terra giudichiamo gli uomini.

—Dagli uniformi;—conchiuse Maurizio.

Erano rimasti grossi per tutto il tempo della passeggiata. Quel giorno si separarono freddi. La notte, quando fu solo nel suo letticciuolo di collegiale, Maurizio pianse a calde lagrime il suo bel sogno svanito; ma con quelle lagrime gli si prosciugò la vena delle tenerezze. La cugina era una civettuola e una sciocca, vana della sua bellezza, felice d’esser guardata, e più fatta per godere gli omaggi della cavalleria che quelli della marineria. Gli ultimi giorni che ella passò a Genova non furono niente migliori. Maurizio era imbronciato, ed ella stette molto sulla sua. Ella partì per Nizza con la famiglia, ed egli s’imbarcò per il suo primo viaggio. Così finiva il romanzetto, a mala pena imbastito, così l’amor suo a mala pena sbozzato. Del resto, quella splendidissima e formosissima bionda, egli non aveva più avuto occasione di vederla. Quattro anni dopo, essendo egli di stazione a Montevideo, gli giungeva notizia che la cugina era andata a marito, passando anche a vivere in Francia. Buona fortuna, e figli maschi.

Strano ragazzo, quel Maurizio! aveva giurato di non lasciarsi più cogliere a certe lustre, ed era stato di parola: il primo amore era anche l’ultimo. Parliamo del grande amore, s’intende, di quello che si crede veramente l’amore, il forte, il solenne, il poema della vita. Episodii, sì, ad ogni crociera, ad ogni viaggio sui mari lontani, ad ogni fermata nei porti patrii: ma presto gliene era venuta la nausea. Tutti giuochi, superficialità, scioccherie, quando non erano indegnità; e queste e quelle erano poi sempre offese alla gran legge dell’universo. «L’amore è un atto religioso» diceva egli volentieri, quando ne cadeva il discorso cogli amici; «come atto religioso, non va preso a scherzo». Ed egli era religioso, come è sempre nel fondo dell’anima il gentiluomo di mare. Chi vive meno nel consorzio degli uomini vive più intimamente con sè, e più spesso con Dio; con Dio, il cui spirito corre non visto sull’acque, cavalca le nubi della tempesta, si libra sull’arco dell’iride, si affaccia nella gloria del sole sorgente sull’oceano, siede nella porpora accesa dal grande astro al tramonto.

Grandi cose, sul mare! Ed ora, abbandonato il vasto suo campo, sarebbe tornato alle cose piccine. Ma sì, così portava la necessità. Lo avevano voluto umiliare; aveva preferito spezzarsi. Non esagerava egli un poco? Forse; ma era fatto così. Obbedire gli piaceva, ma all’intelligenza, o alla probità che ne tien luogo, quando tra chi comanda e chi obbedisce aleggia l’idea del dovere morale. Altrimenti no; e per non dar scandalo brontolando, se ne andava via, spezzando la spada. Uno spiedo, dopo tutto; non glielo aveva detto quella formosissima bionda? Ed anche buttava la feluca a mare: galleggiasse a sua posta, e naufragasse al primo scoglio. Lassù, nella quiete della sua bicocca solitaria, avrebbe evocate le figure dei grandi ammiragli; buon metodo per dimenticare i piccini.

Tra cielo e terra: Romanzo

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