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Capitolo III.
I commentarii di Cesare.

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Indice

La cena era imbandita nella gran caminata del castello, dove il nostro Giovanni Passano ebbe il piacere di far riverenza a madonna Bianchinetta Fiesca, la veneranda madre del suo capitano. Il giovinotto la chiamava madrina, per aver ella tenuta la vezzosa Higuamota al fonte battesimale. La nobil signora vide assai volentieri il marito della cara figlioccia, e lo chiamò a dirittura figliuolo. Ha di queste delicatezze la vecchiaia, e pare che le derivi dal cielo, a cui è già tanto vicina.

Si ragionò di molte cose, a mensa, mutando gli argomenti come le portate. Così venne “in tavola„ l’eccelso Gian Aloise, con tutte le sue vaste ambizioni, ch’erano poi la gloria e l’onore della illustre casata dei Fieschi; una delle prime signorili d’Italia, e già considerata come principesca, tanto che non si faceva più lega o trattato di pace tra il re Cristianissimo e gli stati Italiani, che non vi fosse inclusa quella grande famiglia, alla pari con essi. Ed anche, volgendo il discorso qua e là, non fu dimenticata una più potente signoria, che per verità non era argomento da tavola; vogliamo dire la peste, oramai da tre anni vagante in Liguria, come nelle regioni contermini, ma che a Genova non aveva potuto menare gran guasto, per le buone provvisioni del governo. Strano, per altro, che ne avesse avuto a pagar le pene il provveditore, che era messer Giacomo Fouchesolts, luogotenente del regio governatore monsignor Filippo di Cleves. Ma oramai da un anno il povero luogotenente era morto, succedendogli, come sappiamo, il Roccabertino; sicchè, non c’era più molto da dirne, e neanche molto di un morbo al quale i popoli d’Europa s’erano avvezzati in que’ tempi, come noi a tutte le specie di nemici invisibili, che coi nomi svariati di microbii, bacilli, micrococchi e germi patógeni, dovrebbero poi essere l’attenuata ma non estenuata discendenza dei persecutori di quattro o cinque secoli fa.

—Parliamo di cose allegre;—disse ad un certo punto il Passano.—Ne ho sentito una, che mi ha riempito di giubilo. Voi scrivete i vostri commentarii, capitano?

—Chi te lo ha detto? Sei arrivato ora, e già sai....

—Non ve ne maravigliate, principale. Per giunger quassù, naturalmente, dovevo passar di laggiù.

—Tu parli come un libro stampato;—disse Bartolomeo Fiesco.—Alla mia volta dovevo immaginare che don Garcìa e frate Alessandro non volessero aver segreti per te. Sono essi infatti i miei due pazienti uditori serali. Che vuoi? bisogna ammazzare il tempo. Io scrivo di giorno, e leggo di sera. Oggi appunto ci avevo un paio di capitoli finiti. Ma ora che sei capitato tu coi tuoi scartafacci, tanto più importanti dei miei....

—Li avete letti, i miei; letti ed approvati;—interruppe il Passano.—Non vogliate defraudarmi della parte mia. Diteglielo voi, madrina;—soggiunse il giovinotto, vedendo che il principale nicchiava;—diteglielo voi, che ha da leggere.

—Mio figlio mi fa piacere, se legge;—rispose madonna Bianchinetta.—Quando legge dei suoi viaggi, mi par di viaggiare con lui.

—E che bel viaggiare!—aggiunse il Passano.—Se scrive come parla, ha da essere un racconto gustoso.

—Voi volete lodarmi, Giovanni, e, sia detto con vostra buona pace, proferite una sciocchezza insigne;—sentenziò gravemente Bartolomeo Fiesco.—Imparate, giovinotto di poche lettere, che lo scrittore italiano si guarda bene di scrivere come parla, avendo alto il rispetto delle vergini muse, dei lettori di buon giudizio, e di sè. Quando parla, apre la bocca, e dà il volo a tutti i passerotti che gli girano per l’anima; quando scrive, li mette tutti quanti sotto chiave, indossa il lucco, tempera la sua penna d’oca, e va a cercare nel fondo del calamaio tutte le sentenze più gravi, tutti i più ornati periodi. Prosa robusta vuol essere. Noi discendiamo dai Romani, che diamine! e Cicerone, maestro in materia, vi mostrerà coll’esempio che altro è scrivere un bigliettino al suo segretario, altro è scrivere a Pomponio Attico; altro scrivere a Pomponio, ed altro assalir Catilina, o Verre, o Marc’Antonio. Ma basta; voi mi sentirete, o giovane inesperto, mi sentirete scrittore; e se non dormirete in piedi, o seduto, l’avrò per un atto di valor singolare, da mettere accanto agli altri, per cui vi ho sempre stimato ed amato. Dixi.

E qui, naturalmente, una bella risata, di quelle che sapeva rider Damiano. La cena era finita, e i famigli erano venuti a sparecchiare, mentre i padroni di casa e il loro ospite uscivano a far due passi in giardino. Quando rientrarono, la gran tavola era rischiarata da tre grandi lucerne d’argento; il lusso d’allora, in materia d’illuminazione. Il numero dei lumi e la preziosità del metallo compensavano la poca vivezza della luce. E non solo c’erano lumi in tavola, ma anche ciò che può far perdere il lume del raziocinio a chi non sappia usarne con discrezione; vogliamo dire certe bocce vistose di vino delle Cinque Terre, coi calici di cristallo in grandi vassoi d’argento. Furono allora mandati a chiamare i due “uditori pazienti„ che per verità erano impazienti d’aspettar la chiamata, tanto furono pronti ad accorrere.

Offriva un bel quadro, la caminata di Gioiosa Guardia, in quella sera di marzo, al lume delle tre grandi lucerne d’argento, i cui dodici lucignoli, diradando le ombre senza cacciarle del tutto, lasciavano intravvedere lungo le alte pareti i ritratti di quattro o cinque generazioni dei Fieschi, soldati e marinai, ambasciatori, vescovi, cardinali e papi. Ma lo sguardo era maggiormente attratto verso il camino, onde la sala prendeva il suo nome di caminata; gran camino di pietra nera scolpita, sul cui alto stipite sorgeva lo stemma dei Fieschi, col suo elmo di fronte, carico di svolazzi e fogliami, donde apparivano affrontati il gatto sedente e il basilisco nascente. In quella mezza luce non si poteva leggere il motto: sedens ago, scolpito in una fascia tra l’elmo e lo scudo; e questo solamente si ricorda per amor d’esattezza. Davanti al camino, un po’ lontano dal capo della tavola, sull’alto scanno comitale sedeva madonna Bianchinetta, tutta vestita d’ormesino nero, con la sua cuffiettina della medesima stoffa marezzata, donde sbucavano sulle tempie le ciocche dei capelli bianchi come neve, tanto belli a vedersi nelle case che serbano il culto della dolce famiglia. Alla destra di lei stava la contessa Juana, ma seduta più in basso, in modo da potere ad ogni tanto piegar la testa sul bracciuolo dello scanno, e i suoi capelli nerissimi alle carezze della vecchia signora. I detrattori delle suocere avrebbero dovuto ritrovarsi un po’ là, per sentirsi morire l’eterna celia sul labbro.

Presso il capo della tavola, o meglio, tra questo e la contessa Juana, e avendo alla sua destra il Passano, era venuto a sedersi Bartolomeo Fiesco, pronto a squadernare i suoi gran fogli di carta. Dall’altro lato sedeva frate Alessandro, e presso a lui don Garcìa, con Polidamante; il quale per verità non si poteva dire che sedesse, avendo addosso l’argento vivo, ed ora per una cosa ora per l’altra cercando sempre di muoversi. In mezzo al semicerchio sarebbe rimasto uno spazio vuoto; ma lo colmavano già due grossi alani, Ovando e Bovadilla. Immaginate di certo chi avesse chiamata così quella coppia canina. Onore immeritato, e solamente da attribuirsi alla sua desinenza, il nome del commendatore di Calatrava era venuto a decorare la femmina. Gran matti, quei cani, essendo ancora molto giovani; più matti di Polidamante, col quale facevano a correre nei cortili e nei fossi di Gioiosa Guardia. Ma per allora, o che sentissero la gravità del momento, o che avessero abbastanza rosicchiato in cucina, si erano adagiati in quel vano, come due sfingi di basalto, colle zampe anteriori accostate e coi musi allungati sulle zampe. Facevano così per godere quanto più potevano la frescura del pavimento? o non piuttosto per prepararsi a gustare la prosa robusta d’uno scrittore italiano?

Bartolomeo Fiesco prese i suoi fogli in mano; tossì, com’era di rito, e poi disse:

—Frate Alessandro li chiama i Commentarii di Cesare; ma egli s’inganna a partito. Cesare raccontava le cose da lui medesimo operate, e con tanta fortuna; io le cose che ho viste accadere, e non liete, pur troppo. Quæque ipse miserrima vidi....

Et quorum pars magna fuisti;—aggiunse prontamente frate Alessandro.

—Ah no; fui parte, ma piccola;—ribattè il capitano Fiesco.—Questo capitolo, poi, a farlo a posta, narra di cose avvenute quando io e voi, frate Alessandro, fummo partiti dalla Giamaica su quel guscio di noce, lasciando il nostro grand’uomo a combattere con l’ira degli elementi e con quella degli uomini sulla spiaggia di Maima. Tutta roba adunque che sapemmo poi, al ritorno, e che naturalmente ho dovuto restringere in una mezza dozzina di pagine.

—Leggete, principale, leggete!—gridò il Passano.—Non ce le fate sospirare, vi prego.

—Lo volete, e sia. Tossisco ancora una volta, e incomincio;—disse il capitano Fiesco.—Non m’interrompete; le vostre osservazioni potrete dirmele poi. Non fate rumore, che la mamma vuol sentir bene ogni cosa. A farvi bere ci penserà Polidamante, che per muoversi non ha bisogno d’inviti.—

Dopo questo preambolo il capitano Fiesco incominciò la lettura dei suoi Commentarii, al capitolo XXV: Di quel che seguì alla Giamaica, come ne fu partito il Mendez col Fiesco.

“Partite le canòe per l’isola di Haiti, la gente dei navigli cominciò ad ammalarsi, così pei travagli del fortunoso viaggio, come per la mutazione dei cibi, non avendo più vino, nè altra carne che d’utia, quando pure potevano procacciarsene dai naturali. Aspra vita; e dovevano durarla, stando colà sequestrati? Certamente ci sarebbero morti d’inedia, dicevano alcuni; perchè l’Almirante non voleva ritornare in Ispagna, dond’era stato bandito, nè all’isola di Haiti, dove alla vista di tutti il commendatore di Lares gli aveva proibito di toccar San Domingo, per quanto bisogno ne avesse. Sarebbero tornate le canòe del Mendez e del Fiesco? soggiungevano i fratelli Porras, che primeggiavano tra i mormoratori scontenti. Quei due potevano esser giunti a San Domingo, ma forse per andar di là in Castiglia, a perorare la causa dell’ammiraglio caduto in disgrazia. E che questo potesse anch’essere il vero, lo dimostrava il fatto che il Fiesco, avendo avuto oramai il tempo di andare a San Domingo e tornare, non era più ricomparso. Del resto, potevano le due canòe essersi anche perdute: si doveva per questo rimanere laggiù ad aspettare una morte sicura, chiusi in quelle due navi sdruscite, per capriccio d’un gottoso, la cui stella era tramontata da un pezzo? Essi ancor sani, e, per grande fortuna, dovevano pensare ai casi loro, e andarsene a San Domingo, per raccontare all’Ovando come fossero trattati tanti onorati Spagnuoli da quell’avventuriere italiano. L’Ovando sicuramente li avrebbe rimandati in Castiglia, dove li avrebbero ascoltati e vendicati il vescovo Fonseca e il tesoriere Morales.

“Così parlavano i Porras, uno dei quali era il capitano della arenata Bermuda, e l’altro il notaio capo della spedizione. E Francesco e Diego furono tanto più facilmente ascoltati, in quanto che si sapeva da tutti che d’una loro sorella era il Morales fortemente invaghito. Entrarono quarantotto nella congiura dei Porras; e il giorno 11 di gennaio del 1504 il capitano Francesco se ne andò di buon mattino colla saliva amara dal signor Almirante, che era inchiodato dalla gotta nel suo giaciglio a poppa. “Perchè restiamo qui? gli chiese. Non vi par tempo di levarci da questo cimitero?„ Le parole del Porras fuor del costume arroganti, lasciarono intendere al signor Almirante che quell’uomo avesse già molti a spalleggiarlo; e più se ne persuase, quando, alle sue ragioni alzando le spalle, il capitano della Bermuda gridò con piglio sdegnoso: io me ne vado in Castiglia, con coloro che vorranno seguirmi. Ed usciva così dicendo dal castello di poppa, l’insolente capitano; e a lui si univano tumultuando i seguaci della sua ribellione, mettendo mano alle scuri, e gridando all’Almirante ed ai suoi: mueran! mueran! col qual grido si riscaldavano il sangue.

“A quelle voci balzò dal giaciglio il signor Almirante, e venne zoppicando sull’uscio. Accorsero i suoi familiari, ed altri che l’obbedivano ad ogni costo, per fargli scudo dei loro petti contro quei forsennati. Altri correvano a trattenere l’Adelantado, il valoroso don Bartolomeo Colombo, che già abbrancata una lancia si disponeva come Achille a dar dentro. E gli uni e gli altri consigliavano al capitano Porras di non tentare la sorte di una strage fraterna, che anco a lui poteva costare la vita: se ne andasse pure coi suoi, quanti fossero, quanti volessero seguirlo.

“Accetta quell’altro il partito, forse immaginando che a far peggio, e con fortuna, non avrebbe poi evitato un castigo. Egli e i suoi scendono dalle navi; slegano dieci canòe che il signor Almirante aveva comperate dai naturali, per tenerle pronte ad ogni stremo; vi tirano dentro molti rematori dell’isola, che hanno con belle promesse adescati, e mettono la prora verso levante, costeggiando, come avevano veduto fare al Fiesco ed al Mendez.

“Andando così marina marina, spesso calavano a terra, e prendevano a forza quanto lor bisognasse. Pagherà l’ammiraglio, diceva il capo dei ribelli; se non vi pagherà ammazzatelo pure, essendo egli prima e vera cagione d’ogni male, e per voi e per noi, come pei vostri fratelli di Haiti. Con queste arti si vettovagliavano ogni dì. Giunti finalmente alla punta orientale della Giamaica, e fatte le maggiori provvigioni per il lungo tragitto, si spinsero in alto mare, ma non andando più di quattro leghe lontano. Il vento si era voltato; si procedeva a stento coi remi, e le onde furiose entravano a far carico, minacciando di affondare o di capovolgere le lunghe e sottili imbarcazioni. Bisognò alleggerire, buttando le vettovaglie; bisognò alleggerire ancora, buttando i poveri Indiani che s’erano fidati alle belle promesse. Così ne perirono diciotto; con altri pochi che stavano ai remi, si toccò finalmente la riva, delusi d’ogni speranza, famelici, ed armati; perchè alle armi non avevano già rinunziato.

“Che fare? Alcuni proponevano di aspettare il buon tempo, e di navigare a Cuba, donde più facilmente avrebbero raggiunto Haiti. Altri, non intieramente guasti dell’anima, consigliavano di tornar pentiti al signor Almirante. Prevalse il partito dei Porras, di restar liberi, scorrazzando per l’isola. Non marcirebbero nelle navi; con l’armi alla mano otterrebbero da vivere; e là, stando alle vedette, aspetterebbero come tutti gli altri una via di salute. Era il partito peggiore, derivandone il malcontento dei poveri isolani, soggetti alle rapine continue di quella schiera malvagia. E un altro guaio sovrastava agli uomini rimasti obbedienti sulle navi. A provvederli di cassava e dei frutti della terra gli isolani si erano volentieri adattati. Ma quella povera gente, vissuta fino allora con pochi bisogni, non faceva grandi seminagioni. I figli del Cielo distruggevano in un giorno più di quello che i naturali del paese consumassero in venti. Dovevano lasciarsi taglieggiare dai ribelli, e provvedere in pari tempo agli uomini del Giocomina, per il ricambio di qualche campanello, o d’una manata di perline di vetro? Così avvenne che dispregiando i baratti e dimenticando le fatte promesse, non portassero più nulla, trascurando perfino di accostarsi alle navi.

“In quel terribile frangente una ispirazione celeste venne al pensiero del gran Genovese. Altri dirà che le sue cognizioni d’astronomia gli tornarono utili. E l’una cosa e l’altra possono ritenersi per vere. Scelto il suo giorno, che fu l’ultimo di febbraio, mandò un naturale di Haiti ad invitare i capi delle vicine tribù, che freddi si dimostravano, ma non erano nemici, e in lui riponevano fede. Avutili a sè, parlò in questa guisa:—Noi siamo cristiani; il nostro Dio abita in cielo, buon re per tutti i suoi sudditi, e dei buoni ha cura, e i malvagi castiga. Già voi vedete come abbia punito i cristiani ribelli, non permettendo che si allontanassero dalla vostra isola contro il comando del loro Giocomina; vi vedrete ora puniti con fame e peste voi stessi, che non portate più alle navi le vettovaglie pattuite. Non lo credete? Ebbene, n’avrete un segno manifesto nel cielo, non più tardi di questa notte, vedendo venir fuori la luna adirata.

“Partirono; alcuni con paura, altri sprezzando la vana minaccia. Ma non era vana, com’essi pensavano. Appunto in quella sera, all’apparir della luna incominciando l’ecclisse, e più aumentando quanto ella più ascendeva sull’orizzonte, quei poveri inesperti ricordarono le parole del Giocomina quanto fossero vere; e fu tanta la paura loro, che con grandissimi pianti e strida venivano d’ogni parte ai navigli con grandi carichi di vettovaglie. Prega il tuo Dio per noi, dicevano al Giocomina, pregalo che non eseguisca l’ira sua contro di noi; e manterremo d’ora in poi le nostre promesse, fino a tanto che tu rimarrai alla spiaggia di Maima. A che il signor Almirante si raccolse, per parlar col suo Dio; e tanto stette appartato finchè l’ecclisse della luna era sul crescere; ed essi tuttavia forte gridavano che dovesse aiutarli. Ma quando egli vide che l’oscuramento della luna era presso al suo massimo punto, non rimanendo più che di vederlo scemare via via, venne fuori dicendo aver fatto orazione per loro, promettendo che quind’innanzi sarebbero buoni, e tratterebbero bene i Cristiani, portando loro tutte le cose necessarie alla vita; e Dio aver perdonato, in segno di che vedrebbero essi che l’ira passava, e con questa la infiammazione della luna. La qual cosa avendo effetto insieme con le sue parole, essi rendevano molte grazie al Giocomina e lodavano il suo Dio: e così stettero finchè non ebbe termine l’ecclisse.

“Fu questo assai buono espediente, al cui felice successo aiutò la nessuna cognizione di quei naturali intorno ai moti degli astri, e alle ragioni per cui talvolta si ecclissano il sole e la luna; eventi celesti che essi stimano accadere a danno degli uomini. Nè io mi starò a lodare con molte parole l’accorgimento del signor Almirante, bastando il considerare che con esso egli ebbe provveduto alla salvezza di tanta gente cristiana, quantunque per sedizioni e turbolenze continue così poco meritevole delle sue cure paterne. Indi a pochi giorni giungeva alla spiaggia di Maima la canòa di Bartolomeo Fiesco, che prima non aveva potuto, per ragioni gravissime, le quali partitamente si diranno più sotto, non volendo io interrompere con privati accidenti, comunque maravigliosi e terribili, il racconto delle cose che riguardano il grande Navigatore genovese e le fortunose vicende del suo quarto viaggio. Accolto a festa dal signor Almirante, recava il Fiesco novelle del Mendez, da lui lasciato a San Domingo; novelle non liete, le quali il signor Almirante non stimò di far conoscere ad altri; che anzi, a tutti i ritornati della canòa fe’ giurare il segreto. Le novelle erano queste, che dopo tanti mesi di preghiere, tenuto quasi sotto custodia dal governatore, il Mendez non aveva potuto ottenere i navigli da condurre alla Giamaica, nè la licenza di trovarne egli stesso, pagandoli coi denari del signor Almirante; donde appariva chiaro il bieco proposito del gran commendatore d’Alcántara, di far perire Colombo e di oscurarne la gloria. Ma forse in tal proposito non avrebbe egli potuto durare, poichè il Fiesco gli era fuggito di mano, e certamente, Dio permettendolo, sarebbe giunto ad informare il signor Almirante di tutte quelle macchinazioni della brutta invidia e malvagità singolare di lui.

“Ma intanto la gente raccolta nelle due navi sdruscite, ignorando le nuove, stimava perduto il Mendez; nè quasi poteva più dubitarne, non pure per il ritorno avvenuto del Fiesco senza il compagno di tragitto, ma ancora per certe voci sparse dai sollevati del Porras, di una imbarcazione che s’era vista al largo della punta di Aramaquique, capovolta e trasportata dalle correnti, che sono fortissime al levante della Giamaica. Crebbero le paure, e con le paure le mormorazioni, i malcontenti, le trame. Già si ordiva una congiura, capitanata da un Bernardo di Valenza, speziale dell’armata, a cui s’aggiungevano uno Zamora e un Villatoros. E questa certamente avrebbe potuto segnare la estrema rovina dell’Almirante e de’ suoi fedeli, se non fosse intervenuto un caso fortunato a sviare le menti; onde lo speziale finì con aver pestata l’acqua nel mortaio. Si vide adunque una sera apparire da scirocco una caravelletta, quasi una voglia delle due che si aspettavano, sospirando, da poco meno di otto mesi. Quel piccolo guscio si accostò sull’imbrunire alle due navi arenate; un palischermo se ne spiccò, muovendo verso la capitana e portandovi il suo comandante Diego d’Escobar, inviato dal signor governatore. Brutta scelta era stata quella di Nicola Ovando, che sapeva l’Escobar nemico mortale del signor Almirante, contro il quale si era ribellato col famoso Roldano, meritando una condanna di morte, a cui non era sfuggito se non per l’amicizia del Bovadilla, gran protettore dei tristi.

“Quasi per aggiungere lo scherno all’offesa, portava l’Escobar in presente un barile di vino e una mezzina di porco salato. Se ne cavassero la sete, un centinaio di bocche, quante ne lasciava alle due navi sdruscite la sollevazione del Porras! Quanto ad aiuto di navigli, il gran commendatore (lo avevano infatti promosso alla maggior dignità di Alcántara, e si era spogliato della commenda di Lares) non poteva far altro che promesse, e solo per dimostrare il suo buon animo mandava quella piccola caravella, l’unico legno che si trovasse ad aver sotto mano. Bisognava contentarsi delle promesse, e far buon viso a chi le portava. Gran mercè che Diego d’Escobar si fosse incaricato di portar anche una lettera del Mendez, dove quel buon servitore faceva relazione di tutto il suo viaggio: relazione attenuata, s’intende, poichè doveva passare sotto gli occhi dei nemici; ma il signor Almirante sapeva leggere tra le righe.

“Questi avrebbe voluto rispondere, non pure al Mendez, ma ancora al governatore. Ma venne il mattino, e la caravelletta era scomparsa. Diego d’Escobar non aveva avuto altro incarico che di spiare e di riferire all’Ovando se l’odiato Genovese fosse ancor vivo. Bartolomeo Fiesco, dal canto suo, potè immaginare che quell’esploratore fosse venuto anche un pochino per lui, per vedere se egli, con quel suo tronco di legno incavato, fosse riuscito ad afferrar la Giamaica, e quali notizie avesse portate al signor Almirante. Se questo era il disegno di Nicola Ovando, poco doveva profittargli la sua accortezza. Bartolomeo Fiesco, che già all’apparire della piccola caravella si era posto sull’avviso, e delle persone che lo accompagnavano aveva prudentemente nascoste quelle che gli premeva di non lasciar vedere ai curiosi, trovò modo di dire all’Escobar, nel cospetto del signor Almirante, come questi fosse già informato delle buone intenzioni di don Nicola Ovando.—Gliel ho pur detto io, non dubitate, che il signor governatore non ha per ora a San Domingo i legni necessarii per mandare a levarci di qui; e se anche non giungevate voi, egli era già ben persuaso della bontà e della cortesia, comunque per ora impotenti, del gran commendatore d’Alcántara che Dio guardi, a cui vi prego di rammentarmi come suo buon servitore.—Era una bugía necessaria; e con certa gente, del resto, non si nasconde mai abbastanza quel che si pensa di loro. Il Fiesco, dopo tutto, non si pentì di quella bugía, nè d’altre parecchie, che per difesa sua e degli amici gli fosse tornato di dire. Se poi son colpe, ne domanderà l’assoluzione al suo confessore.„

—Fossero tutte lì!—scappò detto a frate Alessandro.

—Ah, tu non vuoi starmi ai patti, frate scudiero!—esclamò il capitano Fiesco.—Polidamante, negagli il vino.

—Per carità!—riprese il frate scudiero.—Stavo appunto per accennargli di mescere; e vi chiedo assoluzione a mia volta. Sapete pure che in certi brutti momenti avevamo promesso di confessarci l’un l’altro. Ma proseguite, capitano, ve ne prego.—

Il capitano Fiesco bevette un sorso, e ripigliò la lettura.

“Ritornando ora al signor Almirante, dirò com’egli, confidando oramai d’essere prima o poi sovvenuto di navigli, e cedendo all’impulso del suo cuore sempre inchinevole a pietà, mandasse due uomini a terra, dei suoi più fedeli, per tornare all’obbedienza i ribelli, avvisandoli dell’arrivo della piccola caravella, e mandando loro a testimonianza del fatto, come della bontà sua, una parte dei presenti che gli aveva portati l’Escobar. Già si disponevano alcuni ad accettare il perdono; ma li trattennero i Porras, più infelloniti che mai. E così, dopo essere stati un pezzo a consiglio, rispondevano tutti ad una, non volersi fidare del perdono, nè del salvacondotto che mandava loro il signor Almirante. Volentieri se n’andrebbero quieti dall’isola, s’egli promettesse di dar loro uno dei due navigli che aspettava, o mezzo naviglio, se uno solo ne fosse arrivato; e frattanto, poichè avevano perdute tutte le cose loro, volesse egli spartire con essi tutte quelle che aveva. E rispondendo i due ambasciatori non esser patti ragionevoli i loro, replicarono arroganti che quanto non si concedesse loro per amore, saprebbero bene pigliarsi per forza.

“Altro aggiungevano i Porras, riscaldandosi via via. Bene conoscevano l’Almirante per uomo vendicativo e crudele. Per sè stessi non temevano, sapendosi forti di amicizie e protezioni alla Corte; bensì per tanti loro compagni dei quali egli avrebbe preso vendetta, sotto colore e nome di castigo. Per tali ragioni non si era fidato di lui Francesco Roldano; e bene gli era riuscito, essendo stato tanto favorito da far mandar l’Almirante carico di ferri in Castiglia. Nè essi avevano minor cagione o speranza di fare altrettanto. Della piccola caravella, poi, non era da creder niente; ad altri la dèsse ad intendere. Quella non era stata una caravella vera, ma un fantasma di nave, opera di negromanzia, essendo noto come valesse l’Almirante in quell’arte diabolica. Perchè, se era opera d’uomini, non era rimasta, scambio di apparire a vespro e di sparir nella notte? Perchè con nessuno della sua marinaresca si era potuto parlare? Se fosse stata vera, bene si sarebbe affrettato l’Almirante a imbarcarvisi, col fratello e col figlio. Con le quali e con altre parole indirizzate allo stesso proposito, ottennero i Porras che la gente si confermasse nella ribellione, deliberando ancora di muovere verso i navigli, per far bottino, e prender l’Almirante prigioniero; se pure già non pensavano di far peggio.

“E mandavano i fatti compagni alle parole, accostandosi alla spiaggia di Maima. Non era più tempo d’indugi. Scese l’Adelantado con cinquanta armati, risoluto di sanare quei cervelli matti con buone ragioni, se potevano bastare; con le cattive, se fosse stato mestieri. Giunto ad una collina, e fermatosi ad un tratto di balestra dai sollevati, Bartolomeo Colombo fece chiedere il capo loro a parlamento. Non risposero quelli alla proposta degli ambasciatori, e pensando di aver da fare con gente stremata di forze, brandendo le spade nude, e le lance che avevano, formati in un drappello, e gridando ammazza, ammazza, assalivano la squadra dell’Adelantado; avendo prima giurato i sei più valenti di non dipartirsi l’uno dall’altro, ma di volgersi tutti contro Bartolomeo Colombo, perchè, morto lui, non facevano stima degli altri. Il che non piacque a Dio che loro venisse fatto, essendo stati così ben ricevuti, che cinque o sei ne caddero per terra, tra i quali erano i più di quelli che avevano giurato di colpire l’Adelantado. E questi diè dentro così forte, uccidendo ed atterrando, che l’istesso Francesco Porras non fu più in tempo a fuggire; laonde, lui fatto prigione, voltarono le spalle quanti non eran caduti.

“Volentieri avrebbe Bartolomeo Colombo proseguito l’inseguimento e lo sterminio di quei malvagi. Ascoltò nondimeno il consiglio di tale che aveva veduti sopra un’eminenza i naturali in gran numero, e forse disposti a saltare sui combattenti, sotto colore di aiutare i sollevati, ma col proposito di opprimere i fedeli dell’Almirante. E di questo il consigliere non si loderà troppo, pensando che forse egli vide un po’ grosso, quel giorno; mentre forse era meglio sperdere in un colpo la mala semenza, poichè nessuno valeva forse meglio del loro capo prigioniero ed incolume, nè del suo fallito imitatore, lo speziale mastro Bernardo da Valenza; il quale, a detta del signor Almirante, avrebbe meritato d’esser fatto a pezzi non una volta ma cento.

“Bene o male che fosse, l’inseguimento cessò, e ritornammo ai navigli, menando prigione Francesco Porras con altri de’ suoi. Della nostra gente due soli i feriti; l’istesso Bartolomeo Colombo in una mano, assai leggermente, e un maestro di sala dell’Almirante, percosso di lancia in un fianco. Pareva una cosa di nulla; pure, in capo a pochi giorni, il disgraziato morì. Dei sollevati, per contro, moriva in battaglia Giovanni Sanchez di Cadice, quello che sulle acque del Betlem si era lasciato sfuggire il cacico Quibian, per avergli allentata in mal punto la fune; e taccio d’altri minori. Ferito in molte parti del corpo, e rovinato giù da una balza, guariva invece Pietro di Ledesma, il forte nuotatore che tuffatosi in acqua dalla nave di Colombo, aveva superata la barra del Betlem, giungendo alla piccola colonia dell’Adelantado, e riportandone per l’istessa via le tristi notizie al signor Almirante.

“E merita costui un particolare ricordo, per la stravaganza del caso. Per due dì, dal 19 maggio, che fu il giorno della battaglia, rimase in quella fossa, senza che alcuno sapesse di lui, o gli desse aiuto, tranne gl’Indiani; i quali con maraviglia, non sapendo come tagliassero le spade nostre, gli aprivano con istecchi le ferite; una delle quali nella testa, per cui si vedeva il cervello, un’altra in una spalla, che si era quasi spiccata; un’altra ancora ad una gamba, spaccata dalla coscia alla caviglia; un’altra finalmente (e questa non si sapeva come fosse avvenuta) alla pianta del piede, dal calcagno alle dita. Coi quali danni nello scafo, quando gl’Indiani gli davan più noia, diceva: lasciatemi stare, che s’io mi levo su, vi farò.... E lo diceva con tal voce di tuono, che quelli spaventati la davano a gambe.

“Inteso di quel fatto sui navigli, volle pietà che fosse curato e portato in una capanna, per ripararlo dal freddo della notte, e dalle migliaia d’insetti che lo molestavano di giorno, minacciando di finirlo essi soli. Quivi, invece di usar trementina a ciò necessaria, gli medicavano le piaghe con olio bollente. Le quali furono tante, da far strabiliare il cerusico. Infatti, ogni giorno dei primi otto che lo medicò, gli trovava sempre qualche nuova ferita.

“La lezione domenicale del 19 maggio era stata così solenne, che la mattina del lunedì i superstiti fuggiti mandarono a chiedere misericordia. Si pentivano dei lor falli; volevano tornare alla obbedienza. E l’Almirante concesse un perdono generale, a patto che il Porras, capo ed istigatore, rimanesse in prigione, per non esser causa d’alcun nuovo tumulto, e che i pentiti non venissero sulle navi a leticare coi rimasti fedeli, o a seminarvi zizzanie. Questi, per miglior consiglio, sotto la scorta di un fidato ufficiale, mandò per l’isola al traffico, prendendo vettovaglie e dando cianfrusaglie in ricambio. Ed erano i baratti di questa forma; per uno o due utias, che son come conigli, si dava un ferretto di stringa; per una focaccia di pan di cassava, due o tre avemmarie verdi o gialle; per maggior quantità di cose, un campanello di ottone; ai capi delle tribù, che stavano ai patti, ora un piccolo specchio, ora una berretta rossa, ora un paio di forbici. Piccole cose, e di piccola utilità; ma sapevano contentarsene quei popoli agresti. Certo, in cuor loro pregavano Giocovagama che ci rimandasse in Azatlan, donde eravamo venuti. Amavano il Giocomina degli uomini bianchi; ed egli ne meritava l’amore. Ma quante anime nere, tra quegli uomini bianchi! Per un vero figlio del cielo, quanti Goeiz scaturiti d’inferno!„

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Raggio di Dio

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