Читать книгу Santa Cecilia - Anton Giulio Barrili - Страница 5
I.
Оглавление— È pure un noioso mestiere! — esclamò Tiberino, fra uno sbadiglio e l'altro, mentre si stiracchiava le braccia in alto e il corpo sul divano, con pochissimo rispetto alle tre persone che a quell'ora si trovavano nella bottega da caffè del Gran Corso.
Tre persone, s'intende, non contando noi che eravamo cinque, seduti a nostro bell'agio sui divani di un angolo della prima sala, con tanto di sigaro tra i denti e le gambe intralciate fra i sostegni a rabeschi di una tavola di marmo.
Era il tocco dopo il meriggio, di una giornata, nè bella nè brutta, del mese di marzo; non ricordo bene se della prima, o della seconda quindicina. Quel che ricordo si è che eravamo tutti studenti e facevamo, alla bottega da caffè del Gran Corso, chi il terzo e chi il quarto anno di leggi.
Il benigno lettore, per cui mi dispongo a inframmettere una parentesi nel racconto, non intenderà forse come si potesse fare il terzo e il quarto anno di leggi in una bottega da caffè; e cotesto perchè ignora certamente, e perchè io ho ancora da dirgli, quante fossero le università di Genova innanzi il 1858; chè le mie cognizioni sulla materia non vanno oltre quel tempo. Altri adunque narri quante sono ai dì nostri; io narrerò quante erano allora.
Anzitutto l'università di via Balbi, quella più grande; con due leoni di marmo; quattro bidelli, che a sommar loro gli occhi, ne portavano sette (donde non sarà difficile argomentare che ce ne fosse uno guercio); una biblioteca; un portiere con le mostre rosse al colletto della giubba; un museo con molti animali impagliati; molte panche nelle sale, e finalmente il professore D'Ondes-Reggio. Qui si vedevano ogni giorno, rari nantes in gurgite vasto, gli studenti che seguitavano i corsi e pigliavano note sui quaderni.
Veniva in secondo luogo la bottega da caffè del Sole, al pianterreno del palazzo che fa angolo tra la via Balbi e la piazza dell'Annunziata. Qui si faceva un corso alquanto più elevato: si dirozzavano i giovani coi primi elementi del carambolo, del colpo sotto e del colpo lungo.
Qui cionondimeno si pensava ancora alle lezioni dei professori; forse per effetto della troppa vicinanza. Però di sovente una partita ai birilli era lasciata a mezzo per una lezione sulla res judicata, del Mongiardini, o per un'altra sulle avarie, del Parodi. Gli studenti già divezzati si potevano trovare nella terza università, posta in via Nuova, al pian terreno del palazzo Adorno, all'insegna del Caffè del Centro. Qui si studiavano di proposito tutte scienze nuove, e, finito il corso, si era laureati in poule e carolina, in tresetti, in goffo e fumare con la pipa di gesso.
La quarta università era poi in piazza di San Domenico, di rimpetto al teatro Carlo Felice, all'insegna del Gran Corso. Convenivano in quelle sale gli studenti del terzo, del quarto e del quinto anno, i quali non trovavano affatto affatto divertenti i signori professori di via Balbi, timide scappatelle di adolescenti i primi rudimenti di piazza dell'Annunziata, e troppo chiassosa e materiale la scienza al pianterreno del palazzo Adorno. Il Gran Corso era per costoro il corso superiore dei loro studi, il sommo vertice della educazione.
E non avevano il torto. Nelle due prime sale di quella bottega da caffè, la quale adesso non saprei più riconoscere per quella di prima, c'erano seduti dall'alba (alba dei tafani, s'intende), e si davano lo scambio fino a notte alta, tutti i più gran scioperati che Genova avesse prodotti, e le altre parti d'Italia, o per vicende politiche, o per negozi artistici, sbalestrati sulla destra riva del Bisagno, «ov'io siedo e sospiro», come avrebbe detto Ugo Foscolo. Giornalisti della città, letterati in erba, soldati di Roma e di Venezia, maestri di musica, fuorusciti di Palermo e di Napoli, attori drammatici, e va dicendo, facevano in quelle due sale il più strano miscuglio di volti e di parlature.
Gli studenti della quarta università, che ho detto più sopra, erano come il cemento di tutti quelli elementi svariati, e due chicchere di caffè in un vassoio formavano il centro alla più splendida e sbardellata conversazione d'arte, di politica, di filosofia e d'altro che si potesse immaginare. Era quella una conversazione di nonnulla, di corbellerie e di cose serie ad un tempo. Il Burchiello ci avrebbe potuto ritrovare tutti gli ingredienti del suo famoso sonetto:
Orinali, zaffiri ed ova sode
Nominativi fritti e mappamondi,
tanta era la varietà dei ragionari, il trabalzo dal serio al faceto, dal gramo al buono, dallo studio assegnato alle più matte capestrerie.
Quante cose si impararono colà, che i libri non avrebbero potuto dire, o che sui libri non si sarebbe saputo cercare! Qualche odierno deputato esercitò là dentro, senza pretensione, la sua vena oratoria; qualche scrittore ci trovò l'argomento di un dramma, fischiato più tardi; un futuro ministro vagliava colà le ragioni di un trattato internazionale; io, poveretto, non ci ho pescato nient'altro che gli elementi per questa novella, che verrò fedelmente narrando.