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II.

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— È pure un noioso mestiere! — esclamò Tiberino, siccome ho già detto, sbadigliando e stiracchiandosi le membra sul divano.

— Qual mestiere? — dimandò Tito, giovinotto dagli occhi vivaci, dalla bruna carnagione e dal piglio di elegante mollezza, che aveva ereditato dall'Egitto natale.

— Quello di non far nulla; — seguitò a dir l'altro. — Sono due ore dacchè stiamo qui raggomitolati, e, se la noia dura, vi prometto io che do un calcio al galateo e mi metto qui sul divano a dormir della grossa.

— Non hai ragione a parlar così, o Tiberino! — dissi io. — Intendo benissimo che queste ore meridiane sono le più fastidiose del mondo, e che si potrebbe toglierle dalla vita dell'uomo....

— E della donna! — interruppe Tiberino.

— Sicuro, e della donna, senza che facesse sconcio la loro mancanza. Ma poichè Dio, nella sua alta sapienza, ha voluto che ci fossero, rispettiamo i suoi arcani disegni e cerchiamo di passarle il meno male ci venga fatto, in questa valle di lagrime.

— Ah! e tu chiami passarle meno male, — gridò Tiberino, — a star qui in bottega da caffè a rinvoltar sigarette di carta, come fa Tito, a contarsi i peli sulle guance, come fa Battista, ad abbozzare sul marmo il naso del tavoleggiante, come fa qui Fabrizio, a guardare in aria, come fai tu, a sbadigliar maledettamente, come fo io? —

A questa tirata di Tiberino tennero bordone, coi loro atteggiamenti diversi, i compagni. Tito lasciò di rinvoltare la carta da sigari, e il latakiè gli restò sospeso in tenui fili tra le dita e la scatola; Battista rimase inerte col pollice e il medio appuntati sulla guancia; Fabrizio depose la matita e alzò il naso dal naso abbozzato; e tutti si volsero a me, per chiedermi che cosa avrei saputo rispondere.

— Io? vi rispondo, — dissi allora, — che non vedo la necessità di rispondere. Vi annoiate? Io non meno di voi. Mettiamoci la via tra le gambe, e andiamocene all'università; sentiremo da qualcheduno che cosa hanno detto i professori, nelle lezioni di quest'oggi. —

Tiberino mi rispose con uno sbadiglio più lungo degli altri. — È gaia la pensata! — soggiunse Fabrizio, a mo' di commento.

— Orbene, — ripigliai, — se non vi talenta, andiamo a fare una passeggiata sui terrapieni, a veder l'erba novellina.

Sento un soave odor di fieno fresco — mormorò Battista. — Cercane un'altra.

— Eccola qui. Andiamo a passeggio tra Campetto, le Vigne e San Siro, a veder passare le belle signore che vanno attorno per fare incetta di nastri e di occhiate.

Passa la bella donna e par che dorma — mormorò Tito a sua volta. — Cercane un'altra.

— Orvia, signori, vi contento subito e vo a cercarla. Chi mi vuol bene mi segua. — E così dicendo, mi alzai. Gli altri, per un tratto, volevano menare in lungo lo scherzo, e sapere, prima di alzarsi, che cosa si sarebbe fatto; ma, veduto che io ero già presso l'uscio, ed anche perchè si annoiavano a star seduti, borbottando un pochettino contro la prepotenza, la tirannia, e simiglianti, si alzarono anch'essi.

Così, senza por tempo in mezzo, tutti e cinque ce ne andammo via dal Gran Corso, con molta soddisfazione di due colonnelli a riposo, i quali stavano ad un tavolino lì presso, aguzzandosi l'appetito con due sorsate di vermutte e una discussione strategica. Le nostre chiacchiere impedivano a quei due bravi veterani di far muovere i loro battaglioni; impacciavano la strada agli squadroni di cavalleria che essi scagliavano sull'inimico, con tutta la balda fierezza delle loro ricordanze.

A noi, per contro, il passo fu impedito, appena usciti che fummo sulla piazza, da una calca di gente, la quale si stringeva, sghignazzando ed urlando, intorno ad una macchina di forma insolita, che andava saltelloni su d'una carretta, tirata da un uomo; vi prego a crederlo, tirata da un uomo.

In quella che noi, afferrando pel ciuffo l'occasione di fermarci, stavamo a pensare che diamine fosse quel cassone sgangherato, l'uomo si fermò, si tolse la cinghia di sopra il petto, e fece per sedersi su d'uno sgabello che aveva portato tra mani, salutando dapprima, con grandi inchini, una frotta di monelli che gli si eran ficcati d'attorno, ai primi posti.

Le vesti del pover'uomo attestavano il passaggio di un numero sterminato d'inverni, tanto erano gualcite e in più luoghi malamente rattoppate. Il giubbone doveva essere stato di panno nero, ma era tutto una macchia tra il giallo, il verde e il lionato, senz'altra interruzione che quella degli stracci e delle toppe già dette. Un cappello alto di feltro, sebbene pieno di ammaccature e col pelo arruffato e rossiccio, una cravatta nera annodata a mo' di corda intorno a due solini di colore ambiguo, e un occhialino col cerchietto di corno, che gli pendeva dal collo, lo dimostravano un uomo d'assai, una specie di professore di greco, o di poeta estemporaneo in aspettativa. Aveva inoltre i capegli lunghi e rabbuffati come la tempesta, e, a giudicarne così alla grossa dalle rughe del volto, gli si sarebbe dato un cinquant'anni, quantunque fosse anche agevole argomentare che molti di quei solchi li avessero segnati i patimenti di una vita desolata e randagia.

Era bello o brutto? Dimanda alla quale io non saprei rispondere così sui due piedi, se mi venisse fatta dal benigno lettore. I lineamenti di quel volto erano guasti dalle rughe che ho detto, e da quella crosta arsiccia che il sole, la pioggia e gli altri malanni del firmamento appiccicano, in cambio della pelle consueta, sulla faccia dei poveri diavoli, per i quali non sono state inventate le abitazioni, nè i legni di posta, nè le strade ferrate. Cionondimeno, a guardarlo per bene, si notava una certa regolarità di contorni, con un paio d'occhi spaziosi e giustamente infossati. La barba aveva rada, breve ed incolta, e, per farla finita col ritratto, dirò che una bella elegante, di quelle che so io, avrebbe raccapricciato a vederselo tra i piedi, e un cagnolino di buon gusto, come sono in generale tutti i cagnolini da salotto, gli avrebbe abbaiato ai fianchi, e, tra il ribrezzo e la paura, non gli sarebbe parso disdicevole ai suoi natali, nè alle delicate consuetudini del suo muso, addentargli le gambe.

Non dico già questo per dar biasimo alle belle eleganti che so io, e ai cagnolini da salotto. Anche i cani da pagliaio e la gente dozzinale, solo che piglino l'uso delle città e si avvezzino agli splendori della vita, abbaiano dietro alla povertà; raccapricciano alla vista dei cenci, e non vogliono neppur aprir l'uscio di casa, quando i cenci sono per le scale. Questa è legge di equilibrio sociale; laonde, ad un volgo che sta in alto, risponde un volgo che sta sotto, e per contro la nobiltà del sentire, il culto del bello e del buono, il dispregio dei fronzoli e del princisbecco nelle usanze del vivere, si rinvengono in tutti gli ordini dell'umano consorzio.

Alcuni di questi pensieri, che mi vengono ora sotto la penna a farsi tingere d'inchiostro, mi giravano per la testa nel contemplare quel poveretto seduto davanti al suo cassone ambulante e fatto segno agli scherni dell'uditorio piazzesco.

— Largo al maestro! largo al Rossini! — gridavano, con quanto fiato s'avevano in corpo, certi garzoncelli in maniche di camicia, mentre con piglio burlesco facevano stare indietro i loro compagni della prima fila.

— Come c'entra il Rossini? — chiese Tiberino. E spinto dalla sua artistica curiosità, si ficcò dentro la calca, e noi dietro a lui, con aiuto di «la mi scusi» e di gomitate, fino a tanto che ci mettemmo in secondo ordine, per assistere al cominciamento dello spettacolo.

La carretta sosteneva, come dissi, un cassone di forma quadrilunga e irregolare, rivestito di assicelle di pino, fesse in molte parti, e tutte plasmate all'intorno di quella tinta cenerognola che suol darsi alle imposte e agli scurini delle finestre. Il pover uomo, che io pure chiamerò Rossini, sulla fede della moltitudine, lo diceva il suo pianoforte a coda; e di fatto, come l'ebbe aperto da un lato, apparve una sudicia tastiera, corrosa tanto dall'uso da poter raffigurare assai fedelmente una scala del Monte di Pietà.

Su quella tastiera il nostro Rossini pose allora due mani forse pulite un tempo e delicate, ma guaste oramai dalla fatica e dal gelo; poi, sollevando alle nuvole due occhi stralunati, come in atto di aspettare l'ispirazione del biondo Iddio, e componendo le labbra ad un grottesco sorriso, fe' scorrere quelle mani sui tasti, i quali sprigionarono un subisso di stonature, da raggrinzare i nervi di un bue.

Povero Rossini! Mentre egli si lasciava ire a quel suo preludio di arcana dolcezza, gli si facevano intorno le più grandi pazzie, i ragionamenti più beffardi del mondo. Chi si appigliava alla coda del suo cembalo come al capo di una leva, e faceva balzar la tastiera sulla sua testa; chi gli facea ruzzolar la carretta sei palmi discosto sul selciato, tra le risa degli astanti, che davano indietro per non averla a pigliar nelle gambe; chi gli mandava addosso una gragnuola di bucce e torsi di cavolo; chi infine gli faceva scivolar la musica, squadernata a rovescio sul leggìo; e tutte queste innocentissime burle erano accompagnate da risa, fischi, grida e strepiti di ogni maniera.

Ma il povero maestro non perdeva per così poco la tramontana. Le sue dita seguitavano ostinatamente la tastiera, come l'ago calamitato la direzione del polo, e ne facevano balzare suoni discordi e incomposti, ch'egli accompagnava col suo canto, del quale Tiberino, buon intendente di musica, non ebbe modo di indovinare la chiave. Mai cigno d'Eurota, o d'altro fiume classico, cantò più sgraziatamente di lui, e l'uditorio, che non pareva andasse in brodo di succiole, si faceva beffe del suono e del motto.

— Scusino! — disse allora il maestro. — Ho qui un notturno di mia fattura, e se vogliono udirlo....

— Certo! certissimo! la si figuri se non vogliamo udirlo! — gridarono a gara molte voci nella folla.

— Ella suona come una campana; — disse uno degli astanti, facendo un inchino.

— Canta come un uscio sugli arpioni; — soggiunse un altro.

E la gente a ridere e gridargli: — Suoni, maestro, suoni il notturno! — mentre i monelli seguitavano a far viaggiare il cassone.

Il poveretto, senza punto scomporsi e come non accorgendosi di tutte quelle irriverenze, dopo aver ringraziato con un comico accennar del capo tutti i suoi lodatori, diè principio alla cantilena. Noi ne capimmo assai meno di prima: agli altri bastò che avesse incominciato a suonare, perchè i fischi ripigliassero l'accompagnamento, le bucce volassero da capo e le scosse al cembalo diventassero più frequenti e più forti.

Vi fu allora un momento in cui il suonatore mi parve concentrarsi in sè medesimo, quasi per rispondere ad una voce del suo cuore, e la sua faccia abbrustolita fu come trasfigurata da un senso di arcana mestizia. Egli si ristette dal suonare; chiuse il cembalo, si alzò, e, preso con una mano il cappello, e postasi l'altra sul petto, andò attorno a chiedere la buona grazia dell'uditorio.

Ma l'uditorio avea sgomberato in quel frattempo. Doveva essere quella una consuetudine, dappoichè tanto solleciti si erano allontanati gli astanti, non sì tosto lo avevano veduto alzarsi e dar di piglio al cappello.

Non erano rimasti intorno al suonatore che dieci o dodici ragazzacci, i quali, come abbonati a tutta la stagione, non davano un soldo, e noi cinque, ma un po' in disparte, come eravamo fino dal cominciar della scena.

Come rimanesse egli allora, lascio che vel pensiate, o lettori. Col cappello in mano e il braccio disteso, la manca rattrappita sul petto, gli occhi sbarrati e la bocca mezzo aperta, smemorato, confuso, stette alcuni secondi in quella postura.

Le due ore, che in quel punto suonavano, lo scossero un poco. Si fe' scorrere la manca lungo lo stomaco, quasi per consolarlo del digiuno a cui lo astringeva; poi andò coll'indice a cercare una lagrima che gli inumidiva le ciglia, si mise il cappello, e voltosi a noi, che fino a quel punto non aveva cercati, ci disse con aria malinconica:

— Andrò a pranzare con santa Cecilia, quest'oggi. —

A qualcheduno di noi, che eravamo rimasti confusi allo scantonare di tutti gli astanti, a qualcheduno di noi, dico, le mani erano già corse nel taschino della sottoveste. Ma Tiberino fu il più pronto di tutti, e cavato fuori uno scudo d'argento si accostò al pover'uomo e glielo ficcò quasi a forza nelle mani, imperocchè l'altro, veduta luccicar la moneta, credette sulle prime fosse una celia, e una celia di tanto più cattivo conio, quanto migliore era quello del metallo.

— Prendete, maestro! — gli disse Tiberino, senza che in quella parola maestro ci fosse ombra di sarcasmo. — Questo vi servirà per i giorni che l'arte vostra non vi darà da campare. Oggi intanto, se non vi duole, venite, non a pranzo (che non siamo ricchi abbastanza), ma a desinare con noi.

— Ben detto! — esclamò Tito. — Bravo Tiberino, qua la mano. E voi, maestro, venite con noi, com'egli vi ha detto. —

Le prime parole che forse da gran pezza il tapinello si sentisse a dire sul sodo, non parve gli entrassero molto. Lo scudo lo aveva in mano, ma a vederlo gli pareva di sognare; e sebbene Tiberino gli avesse ripetuto l'invito, egli rideva come un melenso, alzava e chinava gli occhi, nè poteva aprir bocca. Dio sa che ghiaccio lo scherno degli uomini gli avesse ammonticchiato sul cuore, e che improvviso raggio di sole gli fossero le nostre cortesie!

— Ma.... io.... — balbettò egli finalmente — loro signori sono giovanotti allegri, e vogliono scherzare....

— No, maestro! — ripigliò Tiberino. — Avete parlato di santa Cecilia, della quale sono molto divoto, che io e gli amici miei vi facciamo questa offerta.

— Voi? Oh, ma voi altri non la conoscete, santa Cecilia! — disse con semplice schiettezza il pezzente, a cui le parole di Tiberino e i nostri sorrisi amichevoli incominciavano a squagliare il ghiaccio sul cuore. — Voi non la conoscete, la santa: essa non appare più ad altri, fuor che a me, a me solo! —

È un pazzo? ci chiedemmo noi con gli occhi, guardandoci in viso. E nello stesso linguaggio ci rispondemmo: che importa? ragione di più per venirgli in aiuto. Allora io presi la parola a mia volta.

— Venite ad ogni modo, maestro, e dopo il desinare parleremo di santa Cecilia. Noi la veneriamo senza conoscerla, e udiremo volentieri quello che vi piacerà raccontarne.

— Ma.... — disse egli allora, già quasi vinto dalle nostre istanze — e il mio cembalo?...

— Il vostro cembalo portatelo prima a casa. E voi altri signorini della piazza, che state qui con le mani in tasca, aiutate questo brav'uomo a portare il suo cembalo. —

I dieci o dodici monelli che erano rimasti là intorno a vedere la scena, si guardarono un tratto fra loro; poi due o tre ci risero con molta impertinenza sul muso, diedero una volta sulle calcagna, come tanti soldati al comando del caporale, e scantonarono alla lesta. La più parte seguitarono il buon esempio, e non rimasero che due, dei più piccini, per aiutare il maestro a tirar la carretta, che noi seguivamo da lungi.

Così egli, dopo aver trascinato il suo arnese di viottolo in viottolo fino al suo umile albergo da due soldi al giorno, o, per meglio dire, da due soldi alla notte, se ne venne con noi in una delle più riposte sale di quella beata osteria di Sant'Elena, nel vicolo della Casana, dove ai tempi nostri abbiamo mandato giù tanti bicchieri e tanto meditato sulla fragilità dei troni della terra, in quella che il cuoco repubblicano c'imbandiva costolette di tiranni.

Stordito com'era dalla gioia e dallo stupore, il buon maestro mandava giù più lagrime che bocconi. Finì tuttavia col pigliare un po' di domestichezza con noi e ragionò anche molto assennatamente di musica con Tiberino, il quale ne fu molto ammirato.

Ma Fabrizio, che era il più curioso di noi cinque, ricordando il negozio di santa Cecilia, non istette molto a domandargliene. Il discorso si voltò allora su quell'argomento.

— Loro signori mi chiedono se io la conosca davvero, e se ella mi apparisce in sogno? Viva e palpitante mi appare ella; poichè, con tutto ciò che possono dirvi in contrario i malevoli, io sono il suo pensiero assiduo, l'unico argomento delle sue cure. — E preso di questa guisa lo andare, il nostro convitato ci raccontò la sua storia.

Noi si stette maravigliati a sentirlo, tanto egli parlava con scioltezza e con più eletta proprietà di parole che la sua apparenza non promettesse. Egli poteva essere paragonato ad una di quelle bottiglie, le quali si traggono dalla cantina coperte di polvere e di ragnatele, e tuttavia tengono in corpo il migliore.

Santa Cecilia

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