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Al cortese che mi legge,

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Bologna, 1.º decembre '93.

Dimorando in Roma, dove passo i migliori mesi dell'anno, ho assistito, in questa fine di secolo, a molte tragiche vicende; ma nessuna di esse ha tanto commosso la mia fantasia, quanto lo sfasciarsi delle colossali fortune delle principesche famiglie romane.

Qual immensa rovina: qual crollo formidabile di tutto un passato storicamente importante: quale sfacelo doloroso e terribile delle maggiori glorie avite, delle più nobili tradizioni, delle più colossali ricchezze, della vetusta opera di tanti secoli!

Chi, or sono pochi mesi, con la mente e il cuore pieni degli storici ricordi delle maggiori famiglie del superbo Patriziato romano, si raggirava – muto e silenzioso – per le sale ampie e solenni de' lor palazzi, un giorno così sfolgoreggianti di una folle ricchezza, non dubbia testimonianza di un fasto, ch'ebbe i più grandi splendori; e, oggi, deserti d'ogni arazzo, d'ogni tappeto, d'ogni mobile, d'ogni oggetto di lusso, d'ogni quadro, d'ogni vaso antico, d'ogni stemma nobiliare, d'ogni segno della grandezza di un tempo; non isfuggiva, certo, a un senso di sacro terrore e d'incommensurabile pietà.

Perchè si può essere, fin che si vuole, figli di questi giorni, così densi di nobili aspirazioni verso un presente più umano, più civile, più sociale, più vicino alla religione predicata da Cristo, e riaccostantesi assai più a' veri fini della natura e del consorzio civile; ma non è possibile, per chi serbi almeno la scorza d'uomo, non sentirsi profondamente commosso dinanzi alla maestosa rovina di tanti secoli di nobiltà, di ricchezza e di gloria!

Certo la caduta del grande Patriziato romano è uno de' più benefici effetti del tempo che è il nostro. Quando una casta – sia pur storicamente gloriosa – ha percorso il ciclo assegnatole nel tempo, è legge salutare e naturale che si consumi e perisca; rinnovellandosi sotto altra forma, con altri aspetti; dando vita a nuove usanze, a nuove idee, a nuovo e assai più confacente decoro.

Il crollo di tutto un passato di dispotismo, d'ingiustizia, di sfida a ogni benessere umano e civile, di prepotenza, di assolutismo, d'ignoranza e di superstizione volgare, non può non riempire di giubilo ogni anima assetata dell'eterno Vero: ogni cuore anelante a quella morale e sociale rigenerazione della impoverita e sofferente Umanità. Ma, ripeto, l'artista e l'uomo di cuore non possono, al tempo stesso, vedere sparire, senza un senso di dolorosa mestizia e di sincero rimpianto, tutti i tesori artistici che, per tanti secoli, formarono il maggiore e miglior ornamento di tanta gente secolarmente grande e superba.

Portare sulla scena una di queste storiche famiglie romane: mettere i Vecchi di fronte a' Giovani: colpire gli uni e gli altri in ciò che era, sino a poco tempo fa, il lor più nobile retaggio; e in pieno petto: rappresentarli ne' loro stessi vizj: dipingerli, qual sono, per la maggior parte ignoranti, giocatori, scavezzacolli, sfaccendati, filibustieri: coglierli nelle non possedute virtù pubbliche e private: mostrare come i Giovani siano stati travolti dalla Borghesia, dalla quale si fecero afferrare senza preparazione di sorta alcuna: mettere a nudo la miseria intellettuale, la fastosa prosopopea, le meretricie debolezze, i vizj delle lor dame: fare, in una parola, che si distruggano per forza propria, anzichè per il nuovo impulso de' tempi novissimi; e non isfuggire insieme a quel giusto senso di commiserazione che pur devono e non possono non destare, parve a me, confesso, argomento de' più importanti per un commediografo moderno.

Innamorato di un tal argomento: raccolti in Roma tutti i documenti necessarj: studiate, da vicino, le cagioni di tanta aristocratica e imperversante rovina, m'accinsi animoso all'opera; non senza dubitare – confesso qui candidamente – delle povere mie forze e dell'ingegno poverissimo.

Il lavoro, da quando nacque nella mia mente, e si tradusse sulla carta, andò soggetto a innumerevoli trasformazioni. A mano a mano che davo vita a' personaggi da me studiati nella vita, m'imbattevo in difficoltà tecniche, non facilmente superabili. Si può voler essere veristi fin che si vuole sulla scena; e dichiarar guerra aperta a ogni convenzione, a ogni mezzuccio volgare: si può essere, come io sono, sacerdote della dea Verità; tendere al Vero umano semplicemente; ma non è possibile sfuggire del tutto alle dure pretensioni e alle fatali strettoje sceniche: di qui, solo di qui, difficoltà senza numero, che solo coloro i quali hanno scritto almeno una volta per il teatro, possono intender di leggieri.

In tanto, il mio ottimo Cesare Rossi – che, dopo il successo delle mie Rozeno, da Lui e da' bravi attori della sua Compagnia portate trionfalmente per i maggiori teatri d'Italia, aveva riposto in me e nell'arte mia la più cieca fiducia – non mi dava tregua; e mi tempestava di lettere e di amichevoli sollecitazioni. E, come lui, così i suoi attori, miei carissimi amici, interpreti assai degni delle mie povere, ma sincere, commedie. Io, afflitto anche da una grave malattia d'occhi, cagionata dal soverchio lavoro notturno, facevo orecchi di mercante; e non cessavo, in tanto, dall'accarezzare e fermar meglio nella mente i personaggi, cui vagheggiavo toglier dalla vita per trasportare, senza ipocrisia e non senza coraggio civile, sopra la scena.

Io promisi, almeno per quanto è consentito alla volontà umana, di consegnare all'illustre Attore la mia Danza macàbra perchè la rappresentasse, nel mese di ottobre, al teatro Alfieri di Torino. E, detto fatto, mantenni la parola data.

Questa volta – grazie al cielo e al buon successo continuato delle Rozeno – non ebbi a soffrir davvero, nè ad aspettare più d'un anno, per vedere questa mia Danza brillare, od oscurarsi, all'incerto lume della ribalta.

Uso a mantenere la mia parola, da Bologna, dov'era in cura de' miei poveri occhi, mandai il copione della Danza a Torino: e una cara lettera di Cesare Rossi m'avvertì che la commedia sarebbe stata messa subito in prova e studiata con gran diligenza e infinito amore.

«Il tuo lavoro – mi scriveva l'illustre Attore – pare a me, e a' miei Compagni, superiore per tecnica e pensiero alle Rozeno: resta solo a vedere se avrà, per il pubblico, la stessa teatralità. Te lo metto subito in prova, e ti aspetto a Torino.»

Non avevo fatto leggere a nessun amico, e a nessun critico, la mia Danza: e ciò non per sentimento d'immodestia o soverchia fiducia nelle mie forze; sì bene perchè intimamente persuaso che qualunque suggerimento, o consiglio, se da me trovato giusto, m'avrebbe costretto a mancare alla parola data, e alla andata in iscena a Torino; che i giornali avevano già annunziata.

Ebbi solo la ventura d'incontrare a Bologna, di passaggio, un amico carissimo, l'egregio prof. Zuliani, il ben noto e stimato critico dell'Italie e del Diritto; che già tanto conforto mi aveva dato quando scrissi le Rozeno. Lo pregai di volermi dare un'ora sola del suo tempo: ciò ch'egli fece con la solita tradizionale bontà. Udita che ebbe la mia Danza, m'abbracciò e confortò a spedirla, senz'altro, a Cesare Rossi. E io, lieto e rassicurato, conoscendo il grande valore e la sincerità dell'amico mio, feci così com'egli mi disse.1

Dopo quindici giorni di prove intelligenti e assidue sul vasto palcoscenico dell'Alfieri – prove che, se pur ce ne fosse stato bisogno, mi fecero capir meglio di quanta bontà e di quanto zelo siano animati i nostri Attori – andammo in iscena, dinanzi al pubblico delle grandi occasioni, la sera del 14 ottobre.

L'aspettativa era molta; perchè il fine e spassionato pubblico torinese, non che la critica, che in quella città è maestra di cortesia e di sapere, aspettavano da me, se non certo un capolavoro (ben altro ingegno e ben altra coltura ci vorrebbero!), un lavoro almeno dagl'intendimenti moderni e sociali.

La mia buona stella, e la squisita bontà del gran pubblico torinese, accorso in folla al teatro Alfieri, non che la somma valentia de' miei interpreti, fecero sì che il successo si determinasse sino dal primo atto; e si accalorasse a mano a mano che l'azione, negli atti seguenti, si disegnava nettamente.

Il secondo atto piacque; e, come il primo, mi procacciò varie chiamate al proscenio. Ma il grande successo, quello che fa venire le lacrime agli occhi e ti fa benedire al pubblico e all'arte, si determinò al calare della tela sull'atto terzo.

Non dimenticherò mai di aver visto quella folla, che poche ore prima paventavo tanto, sollevarsi in piedi e applaudirmi con tale assordante rumore e tale scrosciar di battimani, da commuovermi sino alle lacrime.

Come fu benedetta per me quell'ora, quel momento indimenticabile! Come mi sentii, in quell'istante, felice, pienamente felice! Come avrei voluto ringraziare tutti quegli spettatori a uno a uno, e dir loro quanto mi sentivo grato e commosso!

Il quarto atto coronò il lieto successo di tutto il lavoro, e mi procacciò altre numerose chiamate alla ribalta.

La battaglia era, dunque, vinta; interamente vinta. Il pubblico di Torino aveva, d'un tratto, afferrato l'intimo intendimento del mio lavoro; e aveva, con maravigliosa prontezza, colmato le lacune e riempiti i vuoti.

Io era, ripeto, come poche volte m'avvenne nella vita, felice, interamente felice!

La mattina di poi, i valorosi Cauda, della Gazzetta di Torino; Abbate, della Gazzetta del Popolo; Vittorio Banzatti, della Gazzetta Piemontese; Domenico Lanza, della Gazzetta della domenica confermavano, non solo il successo completo, ma lo ravvaloravano con le loro buone osservazioni critiche, mettendo in rilievo così i pregj, come i difetti dell'opera.

Le repliche furono nove, e sempre più liete.

Ma avrebbe un altro gran pubblico italiano apposto il suggello della propria firma al successo torinese? Ecco il dubbio che mi travagliava, e sminuiva la mia legittima contentezza.

Alla distanza di un sol mese, venne il giudizio de' Veneziani: un altro gran pubblico, noto per la severità e imparzialità sua: che giudica a teatro secondo il proprio sentire, e non si lascia dominare, nè persuadere, da' successi teatrali delle altre città; antico e fedele custode della gloriosa tradizione goldoniana. E fu un giudizio anche più entusiastico di quello datomi da' Torinesi. M'ebbi, al Goldoni, numerosissime chiamate, e ricordo ancora lo scrosciare degli applausi unanimi che echeggiarono e risonarono per ben otto volte nell'ampia sala dello storico teatro.

Le repliche, anche a Venezia, si seguirono con crescente successo; e, ciò che più giova, con piena e sincera soddisfazione de' Veneziani.

Gli egregj critici Toni (Munaro) della Venezia, Ricchetti dell'Adriatico, Mazzacolin dell'Arte drammatica, scrissero, sulla mia Danza, articoli magistrali, assai lusinghieri per la commedia, per l'autore, e per gl'interpreti.

A giudizio così de' critici di Torino, come di Venezia, io, senza far torto agli altri nostri Attori, non troverò, facilmente, chi possa e sappia incarnare il mio Principe Lanfranchi, come Cesare Rossi. E, di vero, sin dal primo comparire in sulla scena del magnifico Attore, il pubblico capì di avere dinanzi a sè un Principe romano autentico. L'atteggiamento aristocratico della persona; l'abito elegante e severo; la truccatura felicissima, nell'aristocratica semplicità sua; il modo tutto signorile di porgere; la misurata e non istudiata commozione nelle scene capitali del terzo e del quarto atto, arrivarono a ciò che, in gergo teatrale, dicesi una vera e propria creazione.

Anche questa volta, dunque, come per le Rozeno, m'ebbi nel sommo nostro Attore, non già un interprete, sì bene un vero e proprio collaboratore.

Teresina Mariani, che m'ha sempre portato fortuna, e condotto sempre con l'arte sua alla vittoria – ricordo, a chi nol sappia, che l'ebbi a prima interprete nel Matrimonio d'Alberto, ne' Cugini, ne' Tordi e fringuelli, e, da ultimo, nelle Rozeno, da lei a dirittura create – fu una Duchessa Silvia quale non avrei certo potuto sperare nè più efficace, nè più calda, nè più vera. Ebbe – specie nelle due scene finali del secondo e del terzo atto, e nella gran-scena del quarto col vecchio Principe – slanci, inflessioni di voce, impeti di sincerità e di passione, da trascinare il difficile pubblico veneziano e torinese a un applauso caldo, sincero, spontaneo.

Anche questa volta vado dunque debitore a questa Gentile, che in pochi anni ha percorso luminosamente sì grande cammino nella spinosa via dell'arte sua, le maggiori e più durevoli soddisfazioni.

Devo anche – è giustizia riconoscere – buona parte degli unanimi applausi avuti, all'arte semplice, sobria, efficace, corretta di Carlo Rosaspina; che incarnò l'Ingegnere Salvetti con quelle doti che fanno di lui uno de' nostri primissimi attori. Nelle scene finali del primo e secondo atto, e in tutto l'atto terzo – fatica speciale del primo attore – ebbe momenti d'impeto, di passione, di sincerità da meritarsi gli applausi più entusiastici.

Vittorio Zampieri fu, come sempre, efficacissimo, e – ciò che più giova nella Danza – singolarmente efficace. Il Tombari; N. Masi; U. Piperno; la gentile coppia Guasti; le brave signorine Annita Bergonzio e Maria Volante; gli egregj Mugnaini e Cantinelli; il sempre misurato e valoroso Colombari, recitarono da que' bravi attori che sono, e diedero non piccolo rilievo alle mie scene.

Difficilmente, confesso, troverò degl'interpreti più coscienziosi e più amici dell'Autore.

A tutti i miei affettuosi e sinceri ringraziamenti.

E, ora, alla mia Danza un augurio paterno: – possa essa, con simili o con altri non meno valorosi interpreti, danzare, per lunghi anni, sulle maggiori o minori scene d'Italia! —

Sia anche questo il tuo augurio, o caro amico lettore!

Camillo Antona-Traversi

1

Una seconda lettura della mia Danza, feci, a dir vero, pochi giorni dopo, ad alcuni amici e a diversi attori delle Compagnie Emanuel e Vitaliani nello storico caffè dell'Arena del Sole. Il mio bravo Pompeo Sansoni così ne parla in una corrispondenza da lui mandata allo Scaramuccia (Firenze, 27 novembre, anno XXV, n.º 13):

«Il caffè dell'Arena del Sole, accoglie in ogni tempo, personalità drammatiche. Comici, artisti critici, qui convengono tutti; e non c'è attore o autore che, giungendo a Bologna, non si senta attirato verso l'antico ritrovo intellettuale. Si discute d'arte, di commedie nuove, di attrici; e si maligna qualche volta anche un poco!

«Volete trovare il simpatico autore delle Rozeno? Cercatelo al Caffè dell'Arena, e lo vedrete subito fra un monte di lettere e giornali – lavoratore infaticabile. Alcuni lo guardano trepidanti. Sono impiegati postali, che veggono crescere smisuratamente il monte delle lettere e de' giornali, sul tavolo del Professore.

«Fu in una saletta di questo Caffè, che, poche sere prima della rappresentazione, il Traversi lesse, a un nucleo di amici, attori e giornalisti, la sua Danza Macàbra.

«La lettura di una commedia riesce molte volte nojosa, spesso insopportabile. L'autore legge male, o mette troppo calore ne' momenti culminanti, o riesce monotono nelle scene d'assieme, che non vengono in tutto comprese. Ma letto il primo atto di Danza Macàbra, impostato maestrevolmente, con mano sicura da chi conosce tutte le esigenze della scena e del pubblico; breve, efficace; con una esposizione di caratteri studiati e cólti nella vita; que' pochi che ascoltavano la lettura – fra cui ricordo Pasqualino Ruta, Cesare Dondini, G. C. Galvani, E. Baccani, Ausilio Levi, A. Colonnello, A. Colarelli, la intelligentissima Maria Rosa Guidantonj – cominciarono a prestare quella intensa attenzione, che solo può essere destata da una vera opera d'arte. E tutti ci convincemmo che la commedia del Traversi non era delle solite a base di effetti volgari; ma lavoro fortemente pensato, che presentava in tutte le sue parti un insieme armonico, dal quale scaturivano potentissime le scene drammatiche salienti e i caratteri si svolgevano umanamente veri, senza incertezze; animando il quadro che l'autore ci aveva messo dinanzi con vivacità di coloriti e potenza di aziono.

«E così, uditane la lettura, a Danza Macàbra pronosticammo un successo.»

Danza macàbra

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