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Capitolo V.
Il sogno di Damiano

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È lecito di sorridere delle illusioni di Cristoforo Colombo, partecipate ed accresciute da Martino Alonzo Pinzon; ma non è altrimenti lecito di riderne. Il sorriso è sempre benevolo: significa qualche volta la condiscendenza; qualche altra è un giudizio pietoso che facciamo di noi medesimi, stimandoci pienamente capaci, nelle stesse condizioni, di cadere negli stessi errori. Ridere, per contro, è da orgogliosi che si credono infallibili ed impeccabili; significa l'ironia, il sarcasmo, lo scherno; abbonda di solito nella bocca degli sciocchi, e in quella degli ignoranti, loro amici e compari. Vogliate, di grazia, considerare una cosa, anzi due. Prima di tutto, bene aveva potuto Cristoforo Colombo argomentare l'esistenza di un continente di là dall'Atlantico, avendo egli presupposta la sfericità della terra. Ma posta la fede sua, come quella di tutto il mondo cristiano, nella autorità scientifica delle Sacre Carte, che quasi gli misuravano a palmi la superficie del globo; e ammessa la veracità delle relazioni di Marco Polo e di Ser Giovanni Maundeville intorno alle regioni estreme dell'Asia; di che avrebbe colmato il poco spazio che gli rimaneva ignoto a ponente, se non delle zone ultimissime dell'Asia, che il Veneziano e l'Inglese non avevano intieramente visitate? La vera trovata del navigatore Genovese, quello che si chiamerebbe oggi il lampo del genio, consisteva nel cercare quei confini orientali dell'Asia per la via di ponente. In tutto il resto, lo stringevano d'ogni parte le autorità, lo incatenavano i pregiudizi del volgo.

E poi, e poi, contemporanei dell'anima mia, che avete a buon mercato i manuali e gli atlanti, le carte murali sotto gli occhi e il maestrino in cattedra, pensate che pericoli, che stenti e sopra tutto che costanza c'è voluta, per imbandire a noi un così lauto pasto di dottrina. Possiamo sorridere, non abbiamo il diritto di ridere. Del resto, si è riso tanto a Salamanca, da tutti quei sapientoni, che ben possiamo astenercene noi altri.

Ammettiamo invece, sorridendo, come e perchè i racconti di Marco Polo comandassero allo spirito del grande navigatore Genovese. Lo vediamo ora, alla foce del Rio de los mares, risoluto di trovare quel benedetto Cubanacan, in cui Martino Alonzo, il comandante della Pinta, vedeva una semplice corruzione di Kublai-kan. Ignoravano ambedue una cosa risaputa più tardi: che i naturali di quei luoghi dicevano nacan come noi diciamo il «mezzo»; donde la conseguenza che Cubanacan significasse il mezzo, il centro di Cuba. Il Pinzon, che ci vedeva una corruzione di Kublai-kan, avrebbe potuto con ugual fondamento vederci un Cipang, che era il nome riferito da Marco Polo per il regno insulare del Giappone. Del resto, il desiderio di associare le nuove scoperte ai vecchi nomi, era proprio nel sangue. Cuba, quando si perdette ogni speranza di farne tutt'uno con l'isola di Cipango, fu ascritta all'arcipelago delle Antille; un nome opportunamente svecchiato dalla famosa Antilla di Aristotele, cavata ad orecchio dalla non meno famosa Atlantide di Solone, e del suo pronipote Platone.

Ma è tempo che ritorniamo al racconto. Fuggiti dalla riva i selvaggi al primo entrare dei palischermi nella foce del Rio de los mares, l'almirante lasciò riposare qualche ora la sua marinaresca, volendo anche persuadere a quei sospettosi naturali che egli non aveva alcuna intenzione ostile. Nel pomeriggio mandò solo, nel bargio, uno dei suoi interpetri di Guanahani.

Gli abitanti del villaggio erano ritornati alle loro capanne; ma stavano sempre all'erta, pronti a fuggire da capo. Videro accostarsi il bargio, ravvisarono nel vogatore un selvaggio della loro specie, e stettero ad aspettarlo. L'interpetre, come fu giunto in vicinanza del lido, tanto da poter essere udito da terra, si rizzò sulla prora della piccola barca, e rivolse il discorso a quei popoli, dipingendo loro gli stranieri come esseri sovrumani, venuti dal cielo, bianchi nel volto, amici degli uomini rossi, ai quali facevano molti bei donativi, simili a quello che egli agitava a braccio teso davanti a loro, facendolo risuonare piacevolmente agli orecchi. Finito il suo discorsetto, l'indiano si buttò in acqua risoluto e volse nuotando alla spiaggia.

Era solo; fu accolto senza sospetto. La sua parlata, veramente, era un pochino diversa da quella di Cuba; ma come può essere diversa tra popoli del medesimo sangue, vissuti a lungo divisi. Stentarono alquanto a capirlo, ma lo capirono finalmente, e si persuasero che gli stranieri erano venuti da amici. E poi quel sonaglio che il messaggiero faceva tintinnire al loro orecchio, che musica!

Subito fecero scivolare dalla spiaggia le loro svelte piroghe; ci posero dentro cotone, frutti e cassava; con quei presenti mossero incontro alle navi degli uomini bianchi.

L'almirante li accolse con dimostrazioni di giubilo; gradì i presenti, e li ricambiò, al solito, con piccoli campanelli di bronzo e perline di vetro. Quei naturali non portavano pezzi d'oro nativo sospesi alle nari; ma pezzi d'argento. Metallo anche questo, e di maggior valore che non dovesse averne venti o trent'anni più tardi, quando da Cuba, per l'appunto, e da tutte le altre terre scoperte, se ne rovesciò tanta abbondanza in Europa.

Anche l'argento aveva dunque il suo pregio, e la sua apparizione fu salutata con gioia. Ma più lieta suonò all'orecchio degli uomini bianchi la notizia (così almeno parve loro d'intendere) che nell'interno dell'isola, a quattro giornate di cammino, era il soggiorno di un re potente e ricchissimo. I naturali della costa gli avevano già mandati messaggeri, per avvertirlo dell'arrivo di quelle tre smisurate piroghe con le ali. Se gli uomini bianchi restavano ancora sei giorni, li avrebbero visti ritornare, e molto probabilmente con messaggeri del re.

Cristoforo Colombo poteva aspettare sei giorni, ed anche di più; ma voleva esser sicuro di entrare in relazione con quel re, in cui era lecito di immaginare il gran Cane. Perciò, scambio di aspettare i messaggeri del re, risolse di mandare i suoi nell'interno dell'isola, chiamando per tale Ufficio Rodrigo di Xeres e Luigi di Torres.

Ah, finalmente il grande interpetre avrebbe potuto sfoderare la sua dottrina poliglotta? Egli conosceva e parlava l'ebraico, il caldaico, il siriaco, e cincischiava anche l'arabo. O l'una o l'altra di quelle lingue avrebbe intesa il gran Cane. Ma se non ne avesse intesa nessuna fra tante?

Ad ogni buon fine Cristoforo Colombo mandò compagni all'interpetre poliglotta due naturali, uno di Guanahani, il quale già conosceva quel po' di spagnuolo che si è detto, e un altro della medesima spiaggia di Cuba, il quale, trattandosi di non uscire dall'isola materna, volentieri accettò.

Ma non dovevano andar soli quei quattro. Non lo voleva quello spirito bizzarro di Damiano. Indettatosi brevemente col suo compagno Cosma, si presentò all'almirante per dirgli:

– E due genovesi, per caso, non potrebbero andare a Cubanacan?

– Per che fare? domandò l'almirante.

– Ma che so io! quello che faranno Rodrigo Xeres e Luigi di Torres. Questo bravo Giudeo venuto alla fede, sa la sua lingua madre, la caldaica, la siriaca, e un pochettino anche l'araba; ma poi…

– Orbene? che cosa vorreste voi dire?

– Vorrei dire che non sa il genovese, che è lingua madre, assai più dell'ebraico. —

Sorrise l'almirante, e notò con accento di arguta bontà:

– Voi due, Cosma e Damiano, mi sembrate uomini da conoscere ben altro che la sola lingua madre dei Liguri.

– Metta pure Vostra Eccellenza che conosciamo il latino; – replicò arditamente Damiano. – Se si dovesse incontrare sulla strada il Prete Janni, ci vorrebbe qualcheduno che potesse parlargli in latino, io m'immagino. Come prete, infatti, leggerà il suo breviario ogni giorno. —

A quella trovata del bizzarro Genovese non si poteva che ridere. E ridendo, Cristoforo Colombo diede licenzia ai due concittadini di seguire la spedizione entro terra. Damiano saltò dalla gioia, e subito corse ad avvisare il compagno.

– Si parte, sai? L'almirante manda anche noi a riverire il gran Cane. Mi sa mill'anni di vederlo.

– Chi? – disse Cosma.

– Il gran Cane, perbacco. Mi preme di sapere se è muto anche lui, come tutti i cani che abbiamo trovati finora. —

La mattina seguente, ai primi chiarori del giorno, si pose l'ambasceria in cammino. Apriva la marcia il naturale di Cuba, che aveva pratica dei luoghi; seguiva Rodrigo di Xeres, accompagnato da Luigi di Torres. Chiudevano la marcia i due Genovesi. Il naturale di Guanahani andava un po' avanti, un po' indietro, per servire, nella sua qualità d'interpetre, al bisogno di tutti, quando volevano intendere i discorsi del condottiero, o farsi intendere da lui. Ma molto più spesso era al fianco di Damiano, che diceva di volergli insegnare il genovese, ma nel fatto cercava d'imparare quanto più poteva della lingua selvaggia.

Si erano avviati per un'erta verdeggiante, dove non appariva traccia di sentiero. Felicità dei selvaggi e dei cacciatori, di non conoscere le strade battute. E giunti al colmo dell'erta, penetrarono in una macchia che pareva di lentischi; donde, per vallette e colline alternate, entrarono in una valle più grande, fuor dalla vista del mare. Passarono accanto a certi laghetti d'acqua dolce, i cui margini erano vestiti di borraccina, e su cui gittavano ombre amiche certi grandi alberi di specie ignote, dal largo fogliame, quali vestiti di fiori, quali carichi di frutti, quali ancora di fiori e di frutti ad un tempo: primavera ed autunno associati in una sola verzura. Tutto rideva, in quel paradiso, e tutto anche cinguettava, poichè c'erano gli uccelli a migliaia, svolazzanti di fiore in fiore come i piccolissimi còlibri, rampicanti di ramo in ramo come i pappagalli, trasvolanti da un albero all'altro come le gazze, variopinte e loquaci non meno dei loro parenti rampichini.

La varietà dei frutti, la bellezza dei lor colori, e la stranezza delle loro forme, destavano la curiosità e l'ammirazione degli ambasciatori. E di molti assaggiarono, senza verun timore di avvelenarsi, poichè ne mangiavano ghiottamente gli uccelli, questi primi conoscitori della gastronomia vegetale. Del resto, anche i due naturali intendevano il fatto loro, e andavano essi medesimi a spiccar dai rami i frutti più squisiti, scegliendoli al punto loro di maturità, che gli Europei non avrebbero potuto a tutta prima conoscere.

Era la festa del verde e dell'azzurro; del verde che splendeva con cento gradazioni diverse intorno ai viandanti ammirati, dell'azzurro che si stendeva, profondamente sereno, sulle vette degli alberi giganteschi. Tra il verde e l'azzurro correva un'aria fresca e purissima, aggraziata dall'effluvio di mille fiori, ravvivata dal predominio delle fragranze resinose, che giungevano gradite alle nari, dando un senso di salute alle fibre del cervello, e di vigore alle facoltà dello spirito. Per far l'illusione compiuta, per lasciar credere che fosse quello un altro paradiso terrestre, la creatura umana era assente da quei luoghi. C'erano bensì i viaggiatori; ma è dell'animo nostro, davanti ai grandi spettacoli della natura, il fare astrazione da noi medesimi, non vedendo e non considerando che quelli. Nella gran solitudine erano voce unica i contrasti della luce e dell'ombra; unica varietà i colori del quadro; mancava la nota umana, così spesso stridente, che reca qualche volta l'immagine e il senso della vita, ma guasta sempre la calma e riconduce alla terra il vagabondo pensiero. Ad un certo momento, davanti ad una radura della foresta, dove ad un lago seguiva una lunga e vasta prateria, i nostri messaggeri avevano veduto bensì in lontananza un drappello allineato di uomini, sicuramente guerrieri, immobili al posto loro, e custoditi sul fianco dalle loro sentinelle, pronte a dare il sognale di ogni imminente pericolo. Strana cosa, in terra di uomini ignudi: quei guerrieri apparivano tutti vestiti di rosso. Ma la visione non era durata che il tempo di avvicinarla ad un tiro di balestra. Le sentinelle avevano dato un grido; e guerrieri e sentinelle avevano allargati i rossi mantelli, spiccando il volo verso più lontane regioni. Erano i rossi fenicotteri, allora così numerosi nell'isola di Cuba.

Un altro spettacolo incantevole era la notte; la notte, sempre così bella sotto i tropici, rischiarata dal lume delle stelle scintillanti dalla volta del cielo, mentre al mite chiaror della luna le cose tutte sembrano avvicinarsi a voi nella trasparenza dell'aria, e le stesse ombre della foresta, rotte dal balenio continuo di maravigliosi insetti, simulanti la luce del rubino, dello zaffiro, del diamante, si lasciano penetrare dallo sguardo, recandovi la immagine, quasi la sensazione, di un letto morbido e dolce, su cui, più del dormire, è certo e promettente il sognare.

Non pensò tutte queste cose il nostro Damiano, la prima notte del viaggio a Cubanacan. Gli davano noia, forse, o turbavano la sua dottrina in materia di storia naturale, gli uccelli dell'isola, che seguitavano a cinguettare, a trillare, a gorgheggiare, come se fosse di giorno.

– Ma che hanno questi diavoli? – esclamò. – Non dormono, dunque?

– Sognano; – rispose Cosma, che qualche volta si adattava a parlare.

– Ah sì; e non hanno mica il torto! – riprese Damiano. – In quest'isola benedetta, potrebb'essere un sogno continuo. Io, per me, ti voglio dire quel che ne penso: ci vivrei volentieri per tutto il resto dei miei giorni.

– Tu? – disse Cosma.

– Certamente, io. E nota che il più l'ho da vivere ancora, se la Parca mi fila giustamente la mia parte di lino.

– Ma che faresti tu qui? Dormiresti sempre?

– Oh questo poi no. Vorrei anzi vegliare, vegliar molto, al fianco d'una bella castellana…

– Che non hai pensato a condurre con te.

– Nella speranza di trovarla sulla faccia del luogo; – rispose Damiano. – Che pensi? che ci siano donne solamente nel vecchio mondo?

– Io non pretendo questo.

– Ah, volevo dire! Mi potresti invece osservare, e con più ragione, che non c'è da sperar castellane, in questi luoghi, perchè non ci sono castelli. Ma un castello me lo fabbrico io tutte le volte che mi pare, e una volta sempre meglio dell'altra. Del resto, dove andiamo noi, di questo passo? Cioè, mi spiego, dove ripiglieremo ad andare, quando spunterà l'alba dai lidi Eòi… che per noi sono le acque dell'Oceano? Alla corte del gran Cane, io m'immagino. Il gran Cane, per far che faccia, non sarà così cane da ricusarmi la mano di sua figlia. Mi dirai che potremmo dar del capo alla corte del Prete Janni: la qual cosa mi piacerebbe meno, perchè i preti non fanno famiglia. Ma egli, per bacco, vorrà avere un ministro, dei gran signori, dei principi assistenti al soglio. Vedrai, Cosma; figlia di re, o figlia di principe, la prima bellezza che mi capita tra i piedi paga il tributo del Nuovo Mondo al tuo amico Damiano.

– Uomo volubile! – esclamò Cosma.

– Caro mio, – rispose Damiano, – sai che non voglio morir di crepacuore, io? Se la bella Ca…

– Zitto, Bar… – interruppe Cosma.

– E zitto tu, ora! – interruppe a sua volta Damiano. – Vedo che commettiamo un'imprudenza per uno. Fortuna che qui nessuno capisce la lingua madre; altrimenti, il segreto sarebbe custodito per benino! —

La chiacchiera allegra di Damiano durò ancora un bel pezzo. Ma Cosma, che la inframmezzava di poche parole, diradò anche quelle poche, lasciando tutto il carico della conversazione all'amico.

– Ho capito; – disse ad un certo punto Damiano. – La notte è alta, suadentque cadentia sidera sonnos. Vediamo dunque di dormire. —

E sdraiatosi sul fianco, si tirò sugli occhi il cappuccio della sua veste catalana. Pochi minuti dopo, era profondamente addormentato.

– Felice amico! – mormorò Cosma, che stava ancora appoggiato al gomito, contemplando le stelle. – Egli ha lasciato i tristi pensieri di là dall'Oceano; e i miei frattanto… —

E i suoi frattanto li lasceremo lavorare a lor posta, nel silenzio della notte serena. La gente malinconica, si sa, è amante del proprio dolore, e non vuol essere molestata.

Del resto, anche Cosma si addormentò, un'ora dopo i suoi compagni di viaggio. Per compenso (diciamo così) fu anche il primo a svegliarsi, e balzò in piedi senza farsi pregare, al primo cenno delle guide, che annunziavano il sorger dell'alba.

La comitiva si rimise in cammino; attraversò nuove valli e nuove colline, salutò nuovi orizzonti, ammirò nuove scene pittoresche, e ricevette il saluto di nuovi sciami d'insetti, di nuovi stormi di pappagalli. Finalmente, poco dopo il meriggio, appena fornite dodici leghe di cammino da che aveva lasciata la costa, vide aprirsi davanti a' suoi occhi una gran valle, e nel centro di quella valle apparire una lunga lista di terreni coltivati.

– Cubanacan? – domandò Damiano al selvaggio della costa.

– Cubanacan; – rispose quell'altro.

– Ma le case? dove sono le case? —

A questa domanda, fatta in lingua spagnuola, non poteva rispondere il selvaggio della costa. Per rispondere, gli sarebbe bisognato capir la domanda.

Rispose invece, o parve rispondere per lui, il selvaggio di Guanahani.

– Bohio; – diss'egli, accennando verso il fondo della valle; —Bohio!

– E Bohio sia; – rispose Damiano. – Io speravo che fossimo giunti alla capitale del gran Cane; invece, a quanto pare, non c'è neanche il sobborgo. —

Per altro, seguitando a guardare, incominciò a distinguere qualche cosa. Si vedevano dei tetti di paglia, d'una forma conica, come quelli che già avevano veduti nelle isole dianzi scoperte. E dopo una mezz'ora di cammino, alla svolta di un poggio, si vide un intiero villaggio; non più di cinquanta capanne, ma tutte assai grandi, fatte di legno, esagone, ottagone, tondeggianti, a forma di padiglioni. Non era la capitale del gran Cane, no certo; non risplendeva di metalli preziosi; ma era sempre un villaggio abbastanza pittoresco, ed era dopo tutto il primo centro popoloso un po' fitto, che fosse dato di scoprire, in quelle isole, dal 12 ottobre al 2 novembre dell'anno di grazia 1492.

– Bohio? – domandò Damiano al selvaggio della costa.

– Bohio; – rispose gravemente quell'altro.

– Ed ora, caro mio, – ripigliò Damiano, – ne so come prima. Amo per altro illudermi colla opinione che sia il nome di quella città minuscola, che apparterrà benissimo al gran Cane, ma donde non esce un cane per venirci a ricevere. —

Terra vergine: romanzo colombiano

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