Читать книгу Arrigo il savio - Barrili Anton Giulio - Страница 2
II
ОглавлениеL'uscio si era aperto, la portiera alzata, ed entrava nello studio un giovane elegantemente vestito da mattina, non molto alto di statura, ma ben fatto e assai sciolto della persona, biondo, un po' pallido, dai lineamenti finissimi, dagli occhi perlati sfavillanti, sebbene per vezzo tenesse le palpebre socchiuse, e dalle labbra sottili, leggermente colorate, che sporgevano un tantino, in atto tra cortese ed ironico, come quelle di un principe, di un piccolo potente della terra, che è consapevole della propria grandezza, e vuole mostrarsi benevolo, sì, ma in un certo modo e fino ad una certa misura.
Cesare Gonzaga non badò a queste inezie. Vide il giovanotto gentile e gli bastò di aver riconosciute le sembianze di Cecilia, della sua amata sorella. Ahimè, povera Cecilia! Cesare Gonzaga, nel 1849, abbattuto dalle sventure della patria e percosso da un altro dolore tutto suo (Ugo Foscolo li ha descritti, questi due sentimenti, associati nella persona del suo Ortis), si era allontanato, non che da Roma, dai confini della penisola. A Mantova, intanto, sotto il dominio dell'Austria, dopo la parte ch'egli aveva presa nelle cospirazioni e nelle guerre recenti, non poteva tornare; perciò, dopo la caduta di Roma, e dopo aver seguito il generale Garibaldi nella sua marcia memorabile in mezzo a tante forze nemiche, disperando oramai delle sorti italiane, si era rifugiato in Grecia, donde, proseguendo la sua triste odissèa di fuoruscito, era andato a cercare, non già la fortuna, ma la pace del cuore, sui lidi estremi dell'Oriente. Solo alcuni anni dopo la sua partenza, Cecilia Gonzaga era andata sposa alla Mirandola; e colà era vissuta nella oscurità d'una famiglia non ricca nè povera, colà era rimasta vedova dopo dieci anni di matrimonio, colà era morta dopo altri dieci o dodici di vedovanza, lontana dal suo unico figlio, che studiava leggi a Bologna, e senza aver potuto rivedere il fratello, di cui troppo scarse erano giunte le notizie in famiglia. Cesare Gonzaga non era nato per la mercatura; soldato, aveva fatto il soldato. Da principio si diceva che col grado di colonnello tra i ribelli indiani avesse partecipato alla epica impresa di Nana Sahib; più tardi, e dopo un mondo di notizie contradittorie, si era venuto a sapere che militasse ai servigi di un principe indipendente, nel centro dell'India. Una lettera sua era venuta a confermare l'annunzio, e a rassicurare la famiglia (triste avanzo di famiglia, poichè i vecchi erano morti da un pezzo) intorno alla sorte del profugo. Uno scambio di notizie aveva potuto stabilirsi tra fratello e sorella, e per tal modo Cesare Gonzaga, rais e gemadar del gran signore di Revah, nel Bogelcund, seppe un giorno di avere un nipote, Arrigo Valenti, avviato allo studio della giurisprudenza nella università di Bologna. Qualche anno dopo, preso dal desiderio della patria, era ritornato in Europa, ricco di una bella sostanza che gli avevano fruttata i suoi lunghi servigi; da Brindisi era corso a Mantova, per risalutare il suo duomo, da Mantova alla Mirandola, per abbracciar la sorella, ma ohimè, per piangere invece sulla sua tomba. Aveva chiesto notizie di Arrigo, e gli era stato detto che Arrigo, compiuti gli studi legali, viveva a Roma, ove certamente a quell'ora aveva finite le pratiche. Ora, di tutti i luoghi che Arrigo poteva scegliere per sua residenza, Roma era l'unico in cui Cesare Gonzaga non sarebbe andato volentieri a cercarlo.
Pensate ai dolori che lo avevano mandato esule volontario della patria, e indovinerete la cagione di quella ripugnanza di Cesare. Arrigo, dal canto suo, doveva pur sapere, per lettere dei Mirandolesi, che uno zio, il suo unico zio materno, gli era ritornato dal centro dell'India; ma sul principio pareva non averne fatto caso, lasciando che quello zio, triste della solitudine che il tempo e l'assenza avevano fatto intorno a lui, andasse a rinchiudersi, rovina d'uomo, tra i monti del Reggiano, daccanto alla rovina di un antico castello della contessa Matilde. Da tre mesi era il Gonzaga in Italia, da due spartiva il suo tempo tra Reggio e la tenuta delle Carpinete, dove il freddo era rigido e dove bisognava portare quasi tutto il necessario per allogarsi decentemente, allorquando giunse la lettera di Arrigo. Era in singolar modo affettuosa, chiedeva notizie, accennava al desiderio, che quel povero giovanotto, rimasto solo della sua casa, aveva vivissimo nel cuore di vedere il fratello di sua madre; e non pure accennava al desiderio, ma all'urgente bisogno.
Il figlio di Cecilia scriveva; e Cesare Gonzaga, a mala pena collocato nella sua tenuta, dove faceva conto di morire tra le sue memorie e con gli occhi alla santa natura, amica e consolatrice di chi ha molto sofferto, Cesare Gonzaga, dico, si era spiccato dal suo nido per andare dal nipote, vincendo la ripugnanza che lo teneva lontano da Roma, dalla eterna città che egli non aveva più veduta dopo l'eroica difesa del Vascello, dopo la dolorosa morte di tanti compagni d'armi, e la vergogna, più dolorosa a gran pezza, di nuovi stranieri entro le mura di Camillo. Ed era là, il tardo reduce, era là, in quello studio, appoggiato a quella poltrona, col cuore trepidante e gli occhi gonfi di lagrime, davanti al giovanotto sorridente, che nei lineamenti gentili del viso e più nei vividi occhi perlati gli ricordava la sua povera e cara sorella. Come si sentiva destinato ad amarlo! Come disposto a sacrificargli tutto sè stesso! E frattanto, quel biondo ragazzo che gli aveva scritto con tanta premura: “Venite, ho gran bisogno di voi„ era un milionario, in apparenza, e, secondo l'opinione dei più, anche nella sostanza, un felice. Ma allora, che bisogno aveva Arrigo di lui? Certo era il bisogno di un parente, di un amico vero, di un consolatore. Si è tanto poveri, quando si è soli!
Orazio Ceprani si era fatto avanti, per stringere la mano di Arrigo.
– Veramente, – diss'egli, – non dovrei essere io il primo, quest'oggi. Eccoti lo zio tanto aspettato. —
Arrigo Valenti si volse a guardare verso il fondo della camera, e un lampo di gioia gli balenò dagli occhi, che, manco male, aveva finalmente aperti e spalancati. Guardò un istante quel vecchio alto e severo, che si faceva forza per vincere la sua commozione, e gli andò incontro col sorriso sulle labbra.
– Zio, come ti son grato! – esclamò quindi, cadendogli nelle braccia.
Quell'altro non seppe più reggere alla piena degli affetti, e diede in uno scoppio di pianto.
– Come son sciocco, non è vero? – diss'egli, con voce rotta dai singhiozzi. – Per un soldato, è veramente troppo. Ma vedi, ragazzo mio, tu somigli a tua madre… come una stella somiglia ad un'altra. Lasciati abbracciare, Arrigo! Lasciami piangere! Sono i baci e le lagrime che non ha avuto tua madre. —
E lo abbracciava ancora, e lo guardava e piangeva. Arrigo lasciava fare e sorrideva, anch'egli intenerito da quella semplice e quasi epica dimostrazione di affetto.
Finalmente, chetato un poco quell'ardore di abbracci, Arrigo provò di avviare il discorso.
– Zio, – diss'egli, – che cosa avrai pensato di me, che ho fatto tanto a fidanza col tuo buon cuore? Senza esser neanche conosciuto da te, ho ardito pregarti…
– Che! che! – interruppe il Gonzaga. – Era naturale. C'era forse bisogno di conoscerti, per accorrere alla tua chiamata? Infine, eccomi qua.
– Era di Cesare il venire, come il vedere ed il vincere; – osservò modestamente Orazio Ceprani.
Arrigo ricordò allora il suo debito di padrone di casa.
– Permetti, – incominciò, – che io ti presenti il nostro Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, poichè è sopratutto un compitissimo cavaliere.
– Ah, ci conosciamo da mezz'ora; – rispose il Gonzaga. – Ed io l'ho già per amico, perchè egli mi ha detto un gran bene di te, mentre stavamo aspettandoti.
– Perdonami, zio! Avevo un colloquio d'affari… Non ti aspettavo, con la corsa del mattino. Ier sera non eri giunto…
– Che vuoi? Appena ricevuta la tua lettera avrei fatto le valigie; – rispose il Gonzaga. – Ma avevo anche un mondo di piccole faccende da sbrigare laggiù. Speravo, veramente, di averti alle Carpinete; ma già, con quel freddo!
– Oh, zio, il freddo mi avrebbe dato poca noia. Pensa piuttosto che mi era impossibile di muovermi.
– Te lo credo, ora; ma laggiù, vedi, mi pareva che tu avresti dovuto correre. Basta, non ne parliamo più a lungo. Ho fatto il miracolo di Maometto. La montagna non volle venire a me; io venni alla montagna.
– Come si fa? – disse Arrigo, sospirando. – Tu eri anche il più libero dei due. Per ciò sei venuto… e perciò rimarrai.
– Non correr tanto! Vedremo, penseremo. Tu per ora fa i fatti tuoi. Avrai forse da parlare col signor Ceprani. —
Il Ceprani, tirato in mezzo, cominciò con accento perplesso:
– Sì, ero venuto da te. Arrigo… Ma ora che c'è tuo zio…
– Non badi a me; – interruppe il vecchio. – Io mi ritiro in buon ordine. —
Orazio Ceprani era lì per lasciarlo andare; ma tosto cambiò di proposito. Per quello che aveva da dire e da ottenere, la presenza di un terzo non doveva guastare; che anzi!
– No, finalmente, perchè? – diss'egli, trattenendo il Gonzaga col gesto. – Con lei si può parlare. Arrigo, – proseguì, rivolgendosi all'amico, – ero venuto a chiederti un servizio. Oggi dovrei ritirare quelle duecento Ausonie…
– E ci perdi ottomila lire; – notò Arrigo Valenti. – Te lo avevo pur detto!
– Che vuoi? Promettevano così bene! Il Governo doveva assumere egli, da un momento all'altro… Insomma, che farci? Tu hai veduto più lontano e più giusto di me. Io m'inchino, e ti chieggo cinquemila lire in prestito, per completare le mie differenze di questo mese.
– Ah! mi duole davvero! – esclamò Arrigo, levando i suoi begli occhi al cielo. – Mi duole nel profondo dell'anima. Oggi è un cattivo giorno, per gli affari. Non ne ho. —
Orazio Ceprani aveva chinato la testa, con un gesto tra incredulo e rassegnato. Perchè, infine, non poteva credere che ad Arrigo Valenti mancassero cinquemila lire da render servizio a un amico in un cattivo quarto d'ora, e non poteva neanche, per le buone creanze, aver l'aria di non crederlo.
Per altro, se Orazio Ceprani aveva chinata la testa, l'aveva in sua vece rizzata il signor Cesare Gonzaga.
– Ma le ho io! – diss'egli, entrando terzo nella conversazione, e facendo dare un balzo di maraviglia ai due giovani. – Non si sa mai, ho detto tra me e me, nel partire da Reggio. Anzi, vedi, Arrigo mio, è stata questa la ragione vera per cui ho ritardato un giorno a venire. Tu mi perdonerai, Arrigo; – soggiunse, mentre metteva mano al suo portafoglio, gonfio di biglietti di Banca e sprovveduto di biglietti di visita; – credevo di aver a fare con un nipote… d'altra specie, e perciò ero venuto con molta munizione. Ho ventimila lire qua dentro, e il resto in una tratta sul banco Manfredi. Eccole dunque, signor Ceprani carissimo; questi son cinque da mille. —
Orazio Ceprani era rimasto interdetto; non sapeva se dovesse prender subito, o rifiutare, almeno per cerimonia: intanto abbozzava un “ma io, veramente…„ di un effetto assai comico.
– Non faccia complimenti, la prego; – ripigliò il Gonzaga. – Ella è amico di mio nipote, e gli amici di mio nipote sono i miei. Alle corte, non mi vuole per creditore?
– Oh, che dice ella mai? – mormorò il Ceprani, commosso. – La ringrazio, ed accetto, perchè il bisogno era urgente, e sono ottantamila lire che mi costerà questa liquidazione di gennaio. Grazie anche a te, Arrigo, – soggiunse, mentre intascava i cinque biglietti, – perchè in casa tua ho ricevuto il benefizio. Vado dunque a raccogliere tutte le mie forze, i miei ottantamila franchi, ed ahimè non per condurli alla riscossa. Si pranza insieme, quest'oggi?
– Perchè no? – disse Arrigo. – Si potrebbe anzi incominciare dalla colazione, se hai tempo.
– Lo troverò. Per che ora?
– Ma, non saprei; bisognerà sentire mio zio.
– Oh, non badare a me; – disse il Gonzaga. – Io son vecchio, e i giovani sentono forse più presto le voci dello stomaco.
– A mezzodì, allora? O alle undici?
– Sia pure per le undici.
– Tra un'ora, dunque; – conchiuse il Ceprani, guardando l'orologio. – Mi diano il tempo di correre alla Borsa, e sono subito di ritorno. Vuoi nulla, tu?
– No, – disse Arrigo, – ci ho il mio agente. A rivederci. E bada, non più Ausonia, per ora! —
Orazio Ceprani rispose con gesto, che voleva dire: “ho capito„ e poi si dileguò, come da corda cocca.
Arrigo fu molto soddisfatto di vederlo partire.
– Finalmente! – mormorò. – Il passo sarà libero, ora. Se permetti, zio, vado a dare libertà a qualcheduno. Con questi amici, che ronzano sempre ne' miei paraggi, bisogna sempre stare in vedetta.
– Fammi almeno sapere dove debbo ritirarmi, per lasciar passare i tuoi misteri, – disse ridendo lo zio.
– Oh, non importa, c'è un'altra scala. Il guaio è che mette in una via troppo vicina all'ingresso principale. Uno che esca di qua e svolti nella strada di fianco… capirai!
– Capisco, può indovinare i tuoi segreti di Stato, o di Banca. Anzi, diciamo addirittura di Banca, per restare nel genere femminile. —
Arrigo fece un gesto di ragazzo contrito, e andò nella camera attigua. Due minuti dopo era di ritorno.
– Del resto, – disse il Gonzaga, tanto per riattaccare il discorso, – un bravo giovanotto, quel Ceprani?
– Ah, sì, lascia che ti sgridi, caro zio! – rispose Arrigo, mettendosi sul grave. – Che prodigalità son queste? Hai le mani bucate, a quanto pare. Sei appena arrivato in Roma, e già ti adatti all'ufficio di vittima. Caleranno i corvi, non dubitare, caleranno a centinaia, per levarti i pezzi. Qui, dopo l'acqua, delle fontane, non c'è altra abbondanza che di corvi.
– Non mi credere troppo stolido, via! – replicò il Gonzaga. – Una volta non conta per uso. Ma non è tuo amico, questo Ceprani?
– Amico, sì, non lo nego. Ma gli amici non hanno da esser mica vampiri, per succhiarci il nostro sangue. Caro zio, ci ho una massima, io: il cielo per tutti, e ognuno per sè. A buon conto, io non ho mai chiesto nulla a nessuno. —
E il viso di Arrigo aveva preso una espressione di durezza, che diede nell'occhio, ma più ancora sui nervi, al vecchio Gonzaga. Non era più quello, perbacco, il viso di sua sorella Cecilia.
– Ne sei ben sicuro? – diss'egli, dopo un istante di pausa. – Ed anche senza ricorrere alla borsa altrui, non ci sono servigi che ci è mestieri qualche volta di fare, o di chiedere? Le amicizie, così belle nel loro disinteresse, in certi momenti, e senza secondi fini, non sono esse un capitale che si sfrutta?
– È un'altra cosa; – rispose Arrigo. – Il Ceprani è mio amico. Spenda la mia amicizia, la faccia valere, ma non tocchi la mia borsa.
– Sei troppo rigoroso; – notò il vecchio. – Ma che uomo è costui?
– Un buon diavolo, ed anche onesto, per quel che fa la piazza; ma di affari s'intende com'io di greco, che n'ho avuta una tintura al Liceo. Aggiungi che ha una mano così disgraziata, da guastare tutto quello che tocca. Ha sempre qualche preziosa notizia, per certe sue attinenze con uomini di governo, ed io ne cavo profitto… facendo tutto il contrario di ciò ch'egli fa.
– Vedi dunque che tu lo spendi; in qualche modo fai capitale di lui.
– Eh, se tu la intendi così, caro zio, tutti avranno diritto ad una parte della mia sostanza, mentre io so di non doverla che a me.
– Ah, sì, parliamone un poco, – disse il vecchio, cui capitava la palla al balzo. – Ti sei dunque fatto uomo di banca?
– Come vedi, lavoro, senza affaticarmi troppo.
– E la giurisprudenza?
– Da banda. Ho compiuti i miei studi; serviranno a tempo opportuno, quando sarà il caso di pensare agli onori. Anche con l'avvocatura si arriva; ma il mondo mormora. Si ha invidia degli avvocati, caro zio, e non c'è politicante da caffè che non tiri la sua sassata ai ciarloni. Per altra via, e più sicura, io fo conto di arrivare.
– Arrivare! E dove?
– Zio! – sclamò Arrigo, guardando il vecchio con aria di stupore. – Sei tu che me lo domandi? Tu, che sei arrivato… dall'India?
– Sì, dall'India a Brindisi, e via discorrendo, – rispose il Gonzaga. – Ma tu, dove diamine vuoi arrivare?
– Alla fortuna, alla potenza, alla felicità.
– Egregiamente, e lo studio ti ci avrebbe condotto, per una via più lunga, lo concedo, ma più sicura, e con miglior compagnia. Perdonami la franchezza.
– È la tua opinione; – rispose Arrigo, inchinandosi, – ma non è egualmente il tuo esempio. Sicuro: che cosa hai fatto tu, mio ottimo zio? È forse lo studio delle leggi, son forse i libri, che ti hanno dato ricchezze e buon nome per giunta?
– Non parliamo di me; io le ho fatte grosse.
– Parliamone, anzi. Ti sei accorto un giorno di avere sprecata la tua giovinezza e le tue sostanze in parecchie follìe…
– Tra le quali un paio di guerre per l'indipendenza del mio paese; ti prego di metterle in conto; – interruppe il Gonzaga.
– Ci venivo dopo, – replicò Arrigo prontamente, – e volevo anche aggiungere una pena di cuore…
– Lascia stare, non frugar nelle ceneri! – gridò il vecchio, turbato.
– Perdonami, zio; me ne aveva fatto cenno mia madre. Infine, ecco qua: io, ammaestrato dagli esempi della tua prima giovinezza e non avendo più nobili follìe da commettere, poichè ho avuta la… disgrazia di nascere troppo tardi, incomincio da dove tu hai cangiato sentiero. So bene quel che vuoi dirmi; le gaie spensieratezze, il vivere conforme alla propria età, l'aspettare la fortuna, facendo versi cattivi e abbaiando alla luna! Il secolo invecchia, caro zio, e non vuol più saperne, di questi perditempi. “Essere o non essere, ecco il punto.„ Vedi? Se tu non ami la prosa, questa è poesia, e di un sommo. Il mondo è di chi se lo piglia; e perchè lo lascerei afferrare da tanti, mentre anch'io sento di avere una mano, che può far servizio come quella degli altri? Ogni cosa a suo tempo, lo capisco; ma chi ha tempo non aspetti tempo. Fare e far subito: e poichè il denaro è il nerbo della guerra, pensiamo al denaro. C'erano degli uomini, sai, i quali si credevano ogni cosa al mondo, solo perchè avevano il denaro, e, mentre gli altri guardavano fidenti all'orizzonte lontano, essi vogavano sodo, alla galeotta, tirando bravamente a sè. Anch'io ho imparato il loro giuoco, e c'est pas plus malin que ça. Non sono io un savio ragazzo? Credevi di dover venire a frenarmi, fors'anche a trattenermi sull'orlo del precipizio, ed ecco, tu trovi invece che io vado di buon passo per la strada maestra. Non avrai che a lodarmi, zio, e mi favorirai più volentieri in ciò che io sono per chiederti. Perchè, vedi, di te ho bisogno davvero; non mi vergogno di ricorrere a te, e sarò lieto di chiamarmi tuo debitore. —
Il discorso era stato brutto, o almeno poco simpatico; ma la chiusa era molto migliore.
– C'è ancora qualche cosa, lì dentro; – pensò lo zio Cesare, che già aveva incominciato a scandalizzarsi, fiutando l'egoista.
E rifacendosi la bocca in quella chiusa più garbata, rispose:
– Sì, per l'appunto, che cosa volevi da me? Se non ti occorrono consigli di saviezza e non hai bisogno ch'io paghi i tuoi debiti, in che altro può esserti utile uno zio? fammi il piacere di dirmelo.
– Ecco, in poche parole ti spiego ogni cosa; – replicò il giovinotto.
Ma proprio in quel punto, un'altra scampanellata all'uscio di casa ruppe il filo del discorso di Arrigo.
– Diamine! – esclamò lo zio Cesare. – Ecco un altro importuno.
La maliziosa figura di Happy comparve poco stante sul limitare.
– Il signor conte Morati di Castelbianco; – disse il servitore, tirandosi da un lato.
Arrigo si era prontamente alzato.
– Perdonami, zio; – diss'egli inquieto; – proseguiremo il nostro discorso più tardi.
– O lo incominceremo; – commentò lo zio; – perchè finora non mi avevi detto nulla. —