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L'OPERA IN ITALIA
IV.
Mascagni nella musica europea

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Forse in nessun tempo la tenuità d'un compositore italiano non profondo, ma sincero, non sapiente, ma astuto, fu più discussa, anzi talvolta neppure onorata della discussione – molti critici si arrestano dinanzi alla volgarità di Mascagni e non osano progredire più in là – , come oggi accade per Mascagni. E se ne comprende facilmente il perchè. Ai tempi di Rossini, per es., nonostante che il grandissimo e allora ignoto (o quasi) Beethoven impersonasse e superasse le grandi correnti letterarie e umane del romanticismo, l'Europa era solcata da larghi soffi di leggerezza un po' scettica, e, sebbene l'opera buffa e l'opera seria avessero trovato dei compositori molto più eletti e, a loro modo, più profondi di Rossini (ad es.: Cherubini), fu però Rossini che con il fuoco indiavolato del suo brio di gaudente li superò tutti, vellicando in modo insuperabile quella voglia matta di divertirsi, e creando un capolavoro magnifico d'opera comica, il Barbiere di Siviglia, e un capolavoro altrettanto magnifico d'opera seria, il Guglielmo Tell. Se non che erano dei capolavori sì, ma dei capolavori relativi alla superficialità del tempo. Tempo nel quale pareva quasi che la vera grandezza fosse riserbata ai poeti e ai filosofi, i quali accettavano la piccolezza dell'opera musicale, dandole chissà quale interpretazione fantastica. Così Schopenhauer, complessa natura di pensatore d'artista e di viveur, s'estasiava davanti alla volontà di vivere del ridente Rossini, al modo stesso che il suo figlio spirituale Nietzsche perdeva la testa davanti alla musica «dai piè leggeri come il vento» della Carmen, la quale per lui simboleggiava nientemeno, che l'astutissima flessibile adorabile musica mediterranea. E si sa quanto oro, quanto tepore, quanto profumo meridionale contenesse per il poeta del Riso questo vocabolo di «mediterraneo».

Comunque, era sempre la poesia (o la critica poetica: se più piace) che dava un'arbitraria grandezza alla musica. La vera grandezza, ripeto, era riserbata soltanto ai poeti e ai filosofi.

Il grazioso e un po' affettato Mozart, il gaio adolescente settecentesco, dal sorriso malizioso e dai languori affettuosi e delicati, aveva creato un'opera buffa imperitura, figlia e nipote dei gloriosi modelli italiani, e il cui tipo aveva incontrato le grazie di tutti i compositori italiani. Più che a tutti piacque a Rossini, che soleva chiamar Mozart il «Dio della musica»; la quale opinione perdura ancora nella coscienza di alcuni, tanto che, se non erro, in un manuale di musica moderno, ebbi a leggere con un certo stupore, come Mozart fosse il più gran genio che della musica sia mai esistito, un uomo così sbalorditivamente musicista che trasformava in musica tutto quello che toccava. Non so la paternità di questa frase, ma se la sapessi, domanderei a chi la disse per il primo, che cosa faceva Wagner di quello che toccava: forse dei tromboni? Ad ogni modo Mozart è un caro fanciullo gaio e sereno, ma niente più di questo. Alcuni, tra i quali un grande conoscitore di musica, Romain Rolland, vogliono trovare in lui una saggezza profonda. Ma io sarei più propenso a credere che, intessuta d'una più delicata e gentile sentimentalità tedesca, anche in Mozart sia la consueta leggera retorica settecentesca del mite Metastasio, e di tutti i suoi fratelli letterati, amanti dei grandi nomi eroici e degli intrecci da teatro di burattini.

Beethoven fu il primo che rialzò la musica all'altezza della grande poesia; e potendo, anzi forse dovendo dire della grande arte, dico volentieri della poesia, pensando a Goethe, del quale Beethoven fu l'unico fratello, da alcuni creduto anche maggiore. Con Beethoven la musica potè aspirare ai più alti destini. Anche Bach, Händel, Palestrina, Orlando di Lasso, Monteverdi, etc., furono grandi; ma nessuno di loro è degno di esser messo tra i più alti spiriti intuitivi, la cui apparizione segna come una nuova tappa nel lungo cammino dell'umanità. Poichè con Beethoven per la prima volta la musica passa dal valore di arte decorativa, di arte di abbellimento, di «inclita arte a raddolcir la vita», al valore di arte intima, quasi direi di arte di coscienza, rispecchiante tutto un momento storico dello spirito umano in tutti i suoi meandri, in tutte le sue contradizioni, in tutte le sue aspirazioni più significative. Beethoven è il primo musicista universale; la civiltà ellenica ebbe Fidia, la civiltà medioevale ebbe Dante, la civiltà del rinascimento ebbe Shakespeare, la civiltà modernissima, che è ancora la nostra, ha Beethoven. Con lui anche i musicisti sentirono con orgoglio che a loro non toccava più d'imbandire con le briciole cadute dal banchetto dei grandi il loro modesto banchetto di servitori. Così si ebbe una nuova musica di nuovi musicisti, nuovi d'anima d'arte di valore storico; Wagner, Berlioz, Schumann, Chopin, con diversa fortuna e con diversa bontà d'intendimenti, furono i veri poeti dell'Europa nell'800. Come dice Romain Rolland nella sua splendida prefazione ai Musiciens d'autrefois: «la lumiére (dell'arte) ne cesse pas de brûler; seulement elle se déplace, elle va d'un art à l'autre, comme d'un peuple à l'autre.» Dopo Goethe, grandissimi poeti dovemmo aspettar molto ad averne. Ma quali musicisti non fiorirono, profondissimi poeti del loro tempo che è, in gran parte, sempre il nostro! La musica divenne un linguaggio meravigliosamente eloquente, pieghevole, policromo, atto a rendere tutte le più mutevoli sfumature della psiche, la quale sembrava fino ad allora ribelle alle forme troppo dure e incerte dell'armonia, simili quasi all'intirizzimento delle statue prefidiache. Beethoven, sopratutti, poi Wagner Berlioz Schumann Chopin empirono la storia di opere d'arte in cui i suoni raggiunsero la potenza espressiva della lingua multisecolare della poesia. Soltanto forse nella Grecia armoniosa, nel trecento eroico dell'Italia, s'incontra un periodo d'arte da paragonare a questa immensa ricchezza musicale dell'800.

Ma, ohimè, quell'immenso fremito d'armonia oggi si è spento. L'arte no, non si è spenta, chè è riapparsa per es., in Italia sotto le spoglie gloriose della poesia. Nessuno forse infatti ha mai pensato a scoprire le infinite somiglianze che i musicisti dell'800 collegano con i nostri poeti del 900. L'arte di Riccardo Wagner e l'arte di Gabriele d'Annunzio hanno delle relazioni che nessuno s'è mai ancora proposto d'indagare. Ma la musica è moribonda. A Riccardo I è succeduto Riccardo II, lo Strauss, il musicista che nonostante il suo contenuto decadente, e il suo stile barocco, mostra per certa sua robustezza, di esser sempre d'una gloriosissima razza di musicisti. A Berlioz, è succeduto (sebbene non spiritualmente) il piccolo Debussy wagneriano a rovescio, che tenta d'imbastardire la grande musica francese obbedendo a dei falsi canoni estetici (il discorso continuo, la guerra alla cadenza come simbolo della rotondità perfetta della forma musicale, il crepuscolo armonico, e finalmente l'impressionismo rubato alla pittura), e con dei gusti letterarii ormai stantii (Mallarmé, Verlaine, Baudelaire, etc).

Ora queste anime raffinatissime, malate di dilettantismo estetico e di un infecondo criticismo, se con i loro sforzi, impotenti ancora a generare una grande êra musicale, conservano accesa la lampada semispenta della grande musica e accumulano le faticose e talvolta oziose esperienze che serviranno a far più possente il futuro linguaggio della musica3; esagerano però la posizione di dispregio che verso la popolaresca opera italiana tennero i loro grandi padri. Ma quanto più melanconica è questa loro posizione di quella d'un Wagner verso, per es. un Giuseppe Verdi! Il popolo ha sempre tradito i grandi. Ma se oggi il pubblico diserta i teatri ove si eseguisca Strauss o Debussy, per andare ad ascoltare L'Amico Fritz o la Cavalleria Rusticana, la critica non può dar assolutamente torto al pubblico.

Poichè, è vero, Riccardo Strauss e Claudio Debussy e i loro minori compagni, sopra il nostro Mascagni hanno una superiorità di cultura di pensiero di nobiltà d'aspirazioni. Ma si può poi dire che essi cantino all'Europa un contenuto nuovo e necessario? La nuova generazione che vien su ora, o che deve necessariamente venir su ora, non travolgerà essi pure nella sua ribellione contro tutti i sofismi moralistici e tutte le falsificazioni del sentimento dei Verlaine, dei Wilde, dei D'Annunzio? Chi è Salomè od Elettra se non una Basiliola e una Fedra più che mai inferocite nella loro libidine monotona dal macabro ritmo d'una musica di barbaro degenerato? E che cosa significa la coppia bamboleggiante di Pelléas e Melisanda se non un tentativo della stanca anima europea a ritornare a una semplicità sublime che essa non sa più concepire (avendone da tempo perduta la strada), che come una adolescenza di bambini tardivi? No; la musica europea è in decadenza. I suoi rappresentanti maggiori si esauriscono in sforzi formali vuoti di contenuto, o pieni d'un sì ridicolo contenuto, che il buon popolo sano e ribelle alle corruzioni senili delle così dette classi superiori, quando non sia sbalordito dal fragore, o dal terrore del silenzio, disapprova ed irride del suo meglio.

E davanti allo Strauss e al Debussy il piccolo Mascagni, a cui la musica scoppia nel cuore come una polla irruente, a volte un po' torba, ma spesso tersa, pulita e chiara, è quasi l'incarnazione, per chi sa leggere l'infinito linguaggio della storia e trovarvi la rivelazione di quella storia metafisica su cui essa eternamente corre e ricorre, d'una profonda verità estetica. È vero che è il valore del contenuto che fa grande l'arte; ma esso è soltanto relativo, e non fa che piccola o immensa l'opera d'arte, insignificante o luminosa nei secoli la visione dell'artista. Ciò che fa davvero che l'arte sia arte, è la forma; senza di questa il contenuto (o il desiderio, il presentimento del contenuto) non raggiunge l'esistenza estetica, ed è inutile che se ne parli come di arte. Che importa se Debussy è uno spirito più eletto più colto più sottile più profondo di Pietro Mascagni? La sua forma è per ora uno sforzo, un atto volontario, non spontaneo del suo spirito; mentre la musica di Mascagni spesso raggiunge nel suo piccolo la perfezione; anzi, talvolta, come negli intermezzi della Cavalleria e dell'Amico Fritz, nella romanza dell'Iris, nella Monferrina dell'Amica sembra rievocare più cosciente e più profonda, la candida melanconia d'un Paisiello o d'un Pergolesi e quel loro gaio sorriso così calmo e così refrigerante.

Certo è triste dover rassegnarsi a cercare la musica; non la preparazione alla musica futura, ma la musica veramente viva, nei piccoli. Ma meglio dei grandi che non esistono i piccoli che esistono. Nè voglio dire che, tra i piccoli, Pietro Mascagni sia solo; voglio soltanto dire che, dinanzi alla terribile crisi che fa agonizzare la grande musica europea, l'Italia trova in Mascagni un puro rappresentante della sua vecchia opera popolaresca4.

3

Se gli increduli volessero per prova di ciò che affermo un'analogia nella storia della musica, pensino alle costruzioni architettonico-contrappuntistiche dei sec. XIII e XIV, dalle cui aberrazioni armoniche doveva nascere la moderna armonia.

4

Non è accennato in questo mio rapido quadro delle condizioni della musica europea disegnato a scopo di inquadrarvi Mascagni, alla musica russa. Giacchè essa nella sua forma più genuina (cioè non nelle sue imitazioni italiane del 700 e tedesche dell'800) ha un cammino e uno spirito assolutamente diversi dallo spirito e dal cammino della musica europea. Oserei quasi dire che essa è quasi una musica asiatica. Lo stesso Chopin non è fratello ai nostri compositori.

Pietro Mascagni

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