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L'OPERA DI PIETRO MASCAGNI
I.
Cavalleria rusticana

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Cavalleria rusticana, il bel dramma musicale in un atto, che il Mascagni scrisse tra i 25 e i 27 anni, e che fu la sua prima opera rappresentata in pubblico, è forse, per ora, l'opera più completa che ci abbia dato il compositore livornese. Non che nelle opere posteriori egli, come molti pensano, non abbia più dato alla nostra musica dei brani di bellezza paragonabile a questa freschissima Cavalleria. Però, oltre al fatto che il maestro, dopo quest'opera curata in tutte le sue parti, ha pur egli ripreso il vecchio andazzo dagli operisti italiani di abborracciar spartiti ammassando alla rinfusa bellezze e sciatterie, lampi di genio e volgarità inaudite; a impedire al Mascagni di ridarci un'altra opera interamente bella – se dalla condanna si eccettui in parte l'ispiratissima Iris – sta l'altro fatto che egli non ha saputo svolgere in sè alcun germe fecondo di coltura. La qual cosa gli ha fatto accettare, come musicabili, libretti o difettosi o affatto incompatibili con la sua natura musicale. Giacchè coltura non vuol dire aver letto, sia pure con accesa passione, altissimi scrittori, come, ad es. aveva fatto indubbiamente Giuseppe Verdi. Che quest'ultimo non avesse capito Shakespeare – che pare egli avesse letto assai estesamente – ce lo dicono quelle cattive riduzioni melodrammatiche vittorughiane dei due capolavori shakespeariani: il Macbeth e l'Otello. Del quale Otello, musicalmente non solo superiore al Macbeth, ma a quasi tutta l'opera verdiana, il Boito e il Verdi compierono una vera e propria traduzione ad uso dei vanagloriosi cantanti del barocco teatro melodrammatico; sicchè il disgraziato eroe orientale, nel testo inglese gentiluomo nobilissimo qual s'addiceva essere a un figlio della razza più squisitamente signorile che esista, la razza moresca, diventa nell'opera verdiana un villano tenore che non sa esprimere la propria ira che urlando come un ossesso. Non parlo poi di quello che diventa Iago, la creatura ambigua tortuosa oscura dell'immenso poeta del cinquecento.

Ora, a dire il vero, io non so la quantità e la qualità delle letture con le quali è supponibile abbia adornato il proprio spirito il nostro Mascagni. So però con certezza che se esiste, la sua coltura è ben lontana dal raggiungere quel grado di ricchezza, armonia, solidità e signorilità, che permetteva al Wagner di emulare in questo i più grandi poeti e di permettersi il lusso di ricreare con tanto sapore storico e con tanta precisione di particolari scenici poetici e musicali l'ambiente della barocca e gentile Norimberga della metà del cinquecento. Se un nostro compositore tentasse di risuscitare, p. es., la Firenze del 400 o la Roma del 600 o la Venezia del 700, chissà a quali orribili gare di cattivo gusto e d'incredibile ignoranza ci toccherebbe ad assistere!

Comunque, il caso offrì al Mascagni un ottimo libretto nella Cavalleria Rusticana dei sigg. Targioni-Tozzetti e Menasci, breve poema drammatico tolto dalla omonima notissima novella di Giovanni Verga. Io non pretendo dire che l'aggiunta del fallo di Santa (Santuzza nel libretto) col fidanzato Turiddu e la trasformazione dei «vicini» in un coro assai melodrammaticamente risibile, abbiano abbellito la primitiva concezione del Verga. Questo nostro grande novelliere-poeta, non accennando ad alcun fallo di Santuzza accresce, a parer mio, la naturalezza del suo racconto, naturalezza così impreveduta nella nostra quasi sempre inverosimile novellistica, per altre ragioni che la possibilità dell'azione, pregevole. Certo però, questo fallo di Santuzza se sciupa un po' la semplicità della concezione drammatica, porse al Mascagni, acuendo la ferocia dell'azione fulminea, una ragione di più per impiegare le tinte più calde dello sua violenta tavolozza musicale. È vero altresì che rimproverare ai librettisti di aver falsata la concezione verghiana, è dimenticarsi che la Cavalleria di Mascagni non ha ormai più alcun legame estetico con la Cavalleria del Verga, trattandosi di due intuizioni diverse.

Il Mascagni trovò dunque nel disegno offertogli dai due librettisti, tutti gli stimoli necessari per esplicare la sua personalità. Difficilmente nella storia delle arti troviamo un fatto simile. Il Mascagni delle opere successive non ha aggiunto nulla di veramente nuovo al mondo espresso nella Cavalleria, se se ne eccettua il rinnovamento puramente tecnico dell'Iris, che può essere anche una presa di possesso più chiara e più audace della propria personalità. E non perchè egli dopo non si sia più svolto, come troppo leggermente si dice; sibbene perchè una fortunatissima concordanza di fattori storici ed estetici condussero il Mascagni a raggiungere nella Cavalleria, che è come una prefazione fremente di entusiasmo e di fede a tutta l'opera futura, l'intera sua capacità. Chè se egli in essa si fosse esaurito, com'è opinione di molti, non avrebbe potuto empire le opere posteriori di bellezze che, se per una parte riescono vane, non essendo nate a formare un organismo compatto, per un'altra attestano che la fantasia di quest'uomo non s'è spenta, ma aspetta solo di non essere contrariata da soggetti che le sono alieni e indifferenti per espandersi nell'armonia d'un capolavoro.

Analizziamo dunque questa bella e fresca prefazione.

La Cavalleria, a differenza delle opere successive del Mascagni nelle quali viene usato, almeno nell'intenzione, un sistema analogo a quello wagneriano della melodia continua; – dico analogo, giacchè, se il discorso musicale del Mascagni è, come dicono oggi, continuo, la sua concezione è per sua intima natura, opposta alla volubile fluenza del polifonismo wagneriano – è divisa in tanti pezzi staccati secondo l'antico sistema prewagneriano. E questo sistema dei pezzi formanti un tutto da loro stessi, è un vero peccato sia poi stato abbandonato dal Mascagni. Il genio latino, generalmente, non ha potente in sè, come il tedesco, il senso dello svolgimento ininterrotto della Storia, del divenire inarrestabile e irrivertibile delle cose. Egli ha ereditato dal mondo ellenico la classica oggettività, il bisogno del ciclo simmetrico della strofe, invece della prosa flessibile e asimmetrica. Così al posto degli interminabili svolgimenti aritmici e simili al pesante e indeterminato flusso della materia, così cari a Riccardo Wagner e ai seguaci Riccardo Strauss e Claudio Debussy5, egli ama le brevi forme nitide, i contenuti ben serrati dai solidi argini del ritmo. Così le cadenze che chiudono ogni pezzo mascagnano, sieno pure abilmente mascherate e dissimulate, generano in noi il senso della perfezione, poichè quei motivi e quelle melodie, che si avvolgono e si svolgono in periodi regolari come strofi della lirica greca o degli inni sillabici del canto gregoriano, non son fatte per essere contorte e concatenate secondo i dogmi, a loro estranei, del sistema wagneriano o dei sistemi da quello nati. La guerra alle cadenze che oggi infierisce nella musica, è errata per Mascagni e starei per dire per la musica italiana; sarebbe come fare in nome del verso aritmico dei verslibristes una guerra alla rima nella nostra poesia rimasta tuttavia a strofa ritmicamente obbligata. E il Mascagni laddove tenta di obbedire ai canoni del discorso libero o simile alla prosa del romanzo e della commedia in prosa, non ha fatto che generare un malinteso puramente grafico, malinteso che si dissipa all'audizione, se pure l'intento non sia stato davvero raggiunto a scapito della musica stessa.

L'opera è preceduta da un preludio di carattere più lirico che descrittivo sebbene d'una certa descrittività. A un breve episodio religioso che ci avverte di essere in un giorno festivo (la Pasqua), tracciando così un poco la cornice del quadro passionale che a poco a poco ci vedremo svolgere dinanzi, segue un motivo che potrebbe chiamarsi: il pianto di Santuzza; chè, infatti, esso e gli incisi che lo seguono, son tratti dal duetto tra Santuzza e Turiddu. A questo episodio, che subito c'immerge in quell'atmosfera di calda sensualità disperata, caratteristica vibrante dell'anima del Mascagni, succede una cadenza delle arpe preludiante alla Siciliana – una canzone cantata a sipario calato da Turiddu sotto le finestre di Lola. Ecco così che i personaggi sono già evocati tutti e quasi lineati dal preludio. La Siciliana è una melodia bellissima, serena sebbene languida di passione. È come una stasi intima e profonda nel terribile dramma che ha già cominciato a scatenarsi. Non è detto se sia una mattinata o una serenata; ma noi sentiamo in essa quella indefinibile aspirazione quasi a superare i limiti dei corpi e gli argini delle azioni, che trema nelle popolari canzoni d'amore, cantate nei due crepuscoli, in alcune nostre provincie, a cui la civiltà s'è appena avvicinata. Non so se la musica della Siciliana sia originale oppur ripresa da un vero e proprio motivo popolare. Il fatto è che Mascagni ha qui avuto una stupenda intuizione del sentimento che doveva avere una canzone popolare.

Ma improvvisamente l'incanto vien spezzato dal dramma feroce che prorompe di nuovo e con maggior foga. Il fascino lascivo della canzone vien come affogato nell'onda furiosa dell'orchestra, dove nuovi impeti di passione balzano alternati da murmuri sordi come di collera e da echi lontani di melodie umili come di preghiera. Finchè comincia a svolgersi maestoso e doloroso il motivo esprimente l'urto tragico tra l'amor vano di Santa per Turiddu e la noncuranza satura di rimorsi di quest'ultimo, motivo a cui, dopo un fortissimo spasimante, s'attacca il pianto di Santuzza, così pieno di disperazione rassegnata. E il preludio si chiude con una lunga cadenza sacra che riprende e compie la cornice sacra con cui esso si era aperto.

A proposito della descrittività di questo preludio mi si potrebbe obbiettare che il significato che io dò ad esso può anche dipendere da una retroproiezione del significato del dramma su di esso. In altre parole: se questo preludio fosse eseguito separatamente, esso non potrebbe parlarci di Santuzza e del suo dolore. Ma la questione è che questo preludio non dev'essere eseguito separatamente, per la semplice ragione che esso è stato concepito insiem col dramma. Nè, parimente, è vero che tutte le parti d'un'opera debbano, se staccate da essa, dirci da loro sole a qual causa, per dir così, sono votate. Se la Cappella Sistina fosse per ipotesi scancellata dal tempo di sul muro dov'è dipinta e dalla memoria umana, colui che ne venisse a scoprire un frammento, ad es: una delle Sibille, si troverebbe, credo, ben'imbrogliato a ricostruire il tutto, risalendo ad esso da quella parte frammentaria. Lo stesso si dica di uno dei frammenti scampati al naufragio del teatro greco. Una frase, un motivo, una figura prendono il loro significato dal testo al quale sono concreate. È il tutto che dà il valore delle parti, o, meglio, è l'intuizione, per dir così, centrale, che s'è espanta armoniosamente nelle più estreme ramificazioni del tutto. Le parole, le frasi, i periodi; le note, gli accordi, i motivi, gli svolgimenti, etc. etc., non sono che forme del linguaggio, il quale è composto di simboli vuoti e, per dir così, non solo empibili di sempre mutevole contenuto, ma trasportabili in quella di tutte le posizioni rispetto al tutto, che possa contribuire maggiormente a raggiungere l'intuizione madre, a esprimerne la vita, almeno approssimativamente. L'essere scettici riguardo alla descrittività della musica, o meglio al suo valore determinativo, è essere scettici del potere rappresentativo del linguaggio umano; e se tale scetticismo spesso non ha luogo di esercitarsi sul linguaggio parlato, ciò dipende dalla lunga abitudine, che ha soffocato lo stupore del miracolo.

Il sipario si alza davanti alla piazzetta d'un paese in festa. È mattina. Le campane suonano e dal loro ritmo vien generato, con un'intuizione geniale, il motivo gaio e esuberante di trilli di colore e di squilli di luce, che descrive la pasqua. Son frasi gaie, lanciate con un brio rossiniano di danza, alle quali si unisce a poco a poco il doppio coro, quello femminile cantante una fresca e delicata melodia primaverile, quello maschile, rude, un po' sgarbato nella sua allegria contadinesca. La scena è indovinatissima. Potrà forse sembrare triviale a certi critici di palato ipersensibile, ma chi conosce bene le pasque gioconde delle nostre città italiane col loro bel sole d'aprile, con quel brulichio d'abiti femminili dai colori accesi che formano colle luci e con le ombre accordi policromi sempre cangianti; chi ha provato quel senso tutto caratteristico di allegria spensierata e di facile felicità che effondono lo scampanio incessante e il clamore della folla, diverso, non so perchè, da quello delle altre domeniche, riconoscerà che Pietro Mascagni ha mirabilmente rappresentato in questa scena introduttiva il mattino della pasqua popolare italiana.

E il dramma comincia.

Un motivo tortuoso e cupo, il motivo della gelosia di Santa, apre il recitativo di questa con mamma Lucia. Fermiamoci un istante su questo tipo di recitativo. Esso non è il vecchio recitativo monotono dell'opera buffa, o il recitativo eroico e starei per dire marmoreo delle opere wagneriane della prima e seconda maniera. Neppur si riattacca al melanconico e sentimentale recitativo del 500-600. Deriva, se mai, dal recitativo bizettiano (da quello per es., dell'ultima scena della Carmen, chè i veri recitativi secchi di quest'opera non furono scritti dal Bizet, come ognun sa, ma dal suo amico Guiraud), recitativo drammatico, duttile, pieghevole a esprimere con naturalezza i più diversi sentimenti. Ma, in realtà, è una specie di recitativo nuovo, anzi più un canto libero ogni tanto solcato da esclamazioni liriche dell'orchestra, che un vero e proprio recitativo. In opere posteriori il Mascagni ha pur troppo tentato di abbandonare questo suo bel tipo di recitativo per riprendere anch'egli il recitativo svenevole e civettuolo della scuola massenettiana. Ma non avendo il Mascagni le pessime doti di leggerezza melliflua che ci vogliono per parlar musicalmente con tale leziosaggine melensa, ne è venuto fuori un linguaggio ibrido, che non contenta nessuno con la sua goffaggine provinciale, che vuol sembrare disinvoltura da viveur.

La canzone di Alfio, che segue l'incontro delle due donne, è uno dei pezzi più scadenti dell'opera. In esso appare, la prima volta in Mascagni, il vizio dell'enfatica eloquenza inutile, vizio inoculato nella musica moderna dal dittatore a vita di essa musica: Riccardo Wagner. Lo spunto della canzone, un triviale motivuccio da operetta, è scelto arbitrariamente dall'autore a reggere un grandioso edificio corale e strumentale di nessun valore musicale, salvo che musica non diventi sinonimo di fragore. L'origine di questo vizio va ricercata, come ho detto, nello smodato fervore con cui finora è stato studiato il sistema d'orchestrazione wagneriano. Il Wagner, scopritore di meravigliosi e impreveduti impasti strumentali, lasciò pur troppo una specie di ricetta, usando la quale i musicisti sono pressochè sicuri di ottenere un frenetico applauso. Comunque questo pezzo, che sembra descriva il fragore di rotolanti carri guerreschi e non l'umile treppichio dei poveri barrocci siciliani, ha pur nel disegno errato qualcosa di fresco e di giovanile che fa pensare a certi selvaggi e un po' triviali ritmi tschaikowskyani. Quasi a fare il pendant a questo coro segue l'inno popolare della resurrezione. Anche questo pezzo è condotto con un po' di tronfiezza ed esagerazione. Ma la spontaneità della melodia, l'impeto delle modulazioni, alcuni effetti irresistibili di sonorità, vibranti quasi d'un empito di gioventù e di passione, finiscono per far perdonare il fragore, pur questa volta sproporzionato a un'azione che esigerebbe maggior semplicità e forse un tono tra l'agreste e il pastorale; insomma un canto più umile e meno meyerbeeriano nella condotta.

Ma ecco due scene in cui il Mascagni può abbandonarsi tutto al suo frenetico lirismo erotico. Il racconto che Santuzza fa del tradimento di Turiddu, e il duetto tra questi e Santuzza, interrotto per un istante da una breve entrata di Lola, un po' curiosa a dire il vero. Giacchè donne che vadano alla messa per una piazza pubblica cantando a squarciagola stornelli d'amore, sono, anche sul teatro melodrammatico, e con buona pace dei librettisti, inverosimili. Infatti i librettisti italiani sembrano un po' troppo convinti che l'arte, sia lirica, sia drammatica, è immagine, sì del reale, ma del reale trasformazione fantastica. In fondo in fondo, sotto la libertà dell'arte, si trova – la schiavitù della scena. E questo mi si conceda che è alquanto ridicolo trattandosi specialmente di un dramma… veristico. O la bella e schietta verisimiglianza della novella del Verga! Ad ogni modo queste due scene sono tra le parti più belle dell'opera; onde occupiamoci sopratutto del carattere personalissimo di questa musica. Ho già detto altrove che il Mascagni sente più di ogni altro sentimento l'amor sensuale e un po' brutale del popolo; questi due pezzi ne sono una conferma lampante. Il primo di essi, la romanza di Santuzza, narra il dolore della giovinetta tradita, il ribrezzo della sua carne martoriata dalle immagini del desiderio e della gelosia, sempre rinascenti come un incubo infaticabile. La musica si colora mirabilmente delle immagini poetiche espresse dalle parole, anzi sembra essere di queste immagini narrative-verbali quella confusa frangia di nuove immagini e sentimenti che suole circondare come un alone sfumato e inafferrabile l'immagine centrale di una poesia. Già l'introduzione orchestrale simile alle iniziali miniate, con cui, nei libri antichi, si preludiava pittoricamente alla narrazione di poi scritta, ci fa entrare nella pienezza della situazione. Il pudore e lo spasimo carnale, che impediscono alla giovinetta di parlare; la rassegnazione al destino, sotto la quale però cova l'odio mortale alla donna che ha sedotto Turiddu, per invidia a lei, Santuzza, non per vero amore a Turiddu; tutte queste fluttuazioni di passioni tra di loro intrecciate e contrastanti, e di cui la potenza sta per prorompere nella povera fanciulla con un'intensità tutta propria dell'anime popolari più istintive che riflessive; sono bene espresse in quei due versi

5

Sebbene il recitativo debussysta non sia più maestoso come quello wagneriano, nè di Wagner il presente dittatore della musica francese accetti il sistema polifonico, Debussy è forse più wagneriano dello stesso Strauss. Il perchè della mia affermazione non potrei dire in due parole. Su ciò vedi, nel giornale La Voce di Firenze, i miei tre articoli: Claude Debussy, Impressionismo musicale, Ciò che ci può insegnar Beethoven.

Pietro Mascagni

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