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FATTO COMPIUTO

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ROMA, 2, notte

Il trattato di pacificazione fra i Fasci italiani di Combattimento e le rappresentanze della direzione del Partito Socialista Italiano e della Confederazione Generale del Lavoro è stato firmato. È dunque un fatto compiuto.

A tale risultato si è giunti dopo moltissime difficoltà. La navigazione verso il porto, che la coscienza nazionale nel suo intimo sospirava ardentemente, è stata continuamente osteggiata da scogli e da foschie.

Dichiaro qui, in prima persona, assumendomi tutte le responsabilità morali e materiali della mia dichiarazione, che io vi ho messo tutta la mia buona volontà e che quando ho visto accettato l’essenziale, ho buttato in mare taluni dei dettagli che appartenevano all’accessorio. Aggiungo anche che difenderò con tutte le mie forze questo trattato di pace, il quale, a mio avviso, assurge all’importanza d’un avvenimento storico, anche per la sua singolarità senza precedenti; e che metterò in pratica un vecchio, saggio proverbio, che dice: «Chi non usa le verghe odia suo figlio».

Ora, se il fascismo è mio figlio — come è stato fin qui universalmente riconosciuto in migliaia di manifestazioni, che devo, fino a prova contraria, ritenere sincere — io, con le verghe della mia fede, del mio coraggio, della mia passione, o lo correggerò o gli renderò impossibile la vita.

È necessario, prima di passare ad altro ordine di considerazioni, rilevare che in questi ultimi tempi la coscienza nazionale aveva sempre più chiaramente manifestato il suo desiderio di pace. Le dimostrazioni dei mutilati a Napoli ed a Roma, col comizio Delcroix all’Augusteo, i voti dei reduci e delle madri dei caduti sono fatti «morali» che un movimento come il nostro non poteva ignorare, se è vero, come è vero, che intendiamo ricollegarci a Vittorio Veneto ed al significato di questo nome nella storia italiana.

Il trattato di pace era stato preceduto, proprio nella giornata di domenica, da due pacificazioni locali, avvenute in due centri operai popolosi ed importanti come Terni e Sestri Ponente. Nessuno di noi, ed io meno di tutti gli altri, voleva assumersi, data la situazione, la responsabilità di una rottura definitiva delle trattative, eccettuato il caso di clausole assolutamente inaccettabili. Ma chiunque esamina, con mente snebbiata dagli egoismi provincialisti intessuti di frasi fatte e sciupate come quelle che si leggono contro Roma, che sarebbe una specie di «vituperio delle genti» e contro il Parlamento e contro i deputati fascisti (oh, finalmente, una testa di turco!); chiunque sappia astrarsi un momento dalla contingenza immediata, non potrà a meno di riconoscere che questo trattato di pace è la consacrazione solenne, inoppugnabile, storica della nostra vittoria.

Sì, anche i protocolli sono necessari a fissare i caratteri di situazioni nuove, a stabilire il quantum di mutato nel corso degli avvenimenti.

È superfluo procedere ad un’illustrazione analitica delle clausole. Gli intelligenti comprendono a volo l’ampiezza di quanto abbiamo ottenuto e le conseguenze politiche di questo trattato di pacificazione non tarderanno a farsi sentire.

Nell’attesa di ciò, e non sarà lunga, qui bisogna affermare che questo trattato di pacificazione serve egregiamente e nobilmente la causa dell’umanità, la causa della nazione, la causa del fascismo. La causa dell’umanità in primo luogo, e quando parliamo di «umanità» nessuno deve credere che intendiamo ricascare nel vacuo internazionalismo umanitario dei socialisti, dei democratici o dei tolstoiani.

Tutto ciò esula dalle nostre concezioni realistiche. Ma se l’umanità vaga, che comprende tutti e nessuno, ci lascia indifferenti, c’è una umanità italiana della quale siamo ansiosi e pensosi. È l’umanità delle nostre magnifiche schiere, che di tanto generosissimo sangue hanno invermigliato le contrade d’Italia. Ora se c’è qualcuno che porta allegramente il fardello dei morti, questo qualcuno non può essere che un irresponsabile o un incosciente; ma un «capo» ha il dovere supremo di risparmiare anche una sola goccia di sangue quando non sia palese che il versarla è strettamente necessario ai fini della causa.

La causa della nazione è salvaguardata da questo trattato, perché la nazione attraversa una crisi gravissima, che poteva e potrebbe ancora diventare mortale.

Ma dunque: la nazione, anche per taluni fascisti, sarebbe quella cosa di cui tutti si riempiono la bocca, salvo poi a strainfischiarsene quando c’è da rinunziare agli interessi della fazione? La formula fascista sarebbe dunque: prima la fazione e poi la nazione? Io ho sempre ritenuto e creduto il contrario. Il fascismo vede la nazione e poi tutto il resto. Il fascismo è per la guerra civile quando è per l’interesse della nazione, e lo fu nei due anni trascorsi; il fascista è pronto alla pace quando è nell’interesse della nazione.

Con questa bussola il fascista può navigare ed orientarsi; senza di questa si perde o naufraga.

Ora la nazione ha bisogno di pace per riprendere, per rifarsi, per selezionarsi, per avviarsi, in una parola, ai suoi migliori destini.

Finalmente questo trattato di pace serve ai fini ed alla espansione ulteriore del fascismo. Ecco un partito, quello socialista, che fu per lunghi anni il dominatore quasi incontrastato della politica italiana; ecco un partito, quello socialista, che, fino a pochi mesi addietro, ci parlava di Sovièts, di dittatura del proletariato e di altre tali fantasie moscovite. Questo partito pareva dovesse trionfare e sommergere tutti gli altri. La sua barca procedeva innanzi coi venti di tutte le fortune! Ecco il siluro fascista! E col siluro la crisi di autorità e di coraggio fra gli stati maggiori, di sbandamento fra le ciurme. Questo partito scende oggi a patti, li consacra in un atto solenne e quindi aggrava la sua posizione nei rapporti futuri con questi terribili e temibili concorrenti ai favori e — ahimè! — ai voti delle masse e si dichiara estraneo agli arditi del popolo, i quali, oramai sconfessati da repubblicani, da comunisti e da socialisti, dovranno rapidamente concludere la loro breve ed ingloriosa carriera.

Non c’è bisogno di aggiungere che questo trattato sposta i piani dell’azione fascista, ma non disarma la nostra opposizione spirituale e politica al complesso delle dottrine e delle realizzazioni socialiste. Anzi, qui «si parrà la nobilitade» del fascismo, il quale, dopo avere esercitato i muscoli, dovrà esercitare i cervelli e muoversi nel campo delle idee e delle competizioni civili con quella stupenda elasticità con la quale si è mosso durante la nostra guerra all’interno, nelle strade e nelle piazze.

La battaglia è vinta. Potremo cantare vittoria. Ma io sono l’uomo perennemente inquieto del domani. Non so fermarmi. La vittoria è un fatto; ora mi travaglia il modo col quale la vittoria potrà essere utilizzata. Comincia un nuovo periodo nella storia del fascismo italiano e non sarà meno aspro e difficile del precedente: è il periodo della rielaborazione spirituale e delle applicazioni pratiche. Bisogna smentire i nostri nemici, i quali ci hanno detto a sazietà: «Voi sapete distruggere, ma non sapete costruire! Siete ottimi sul terreno della negazione, ma, portati sul terreno positivo, vi rivelate nella vostra impotenza». Tutto ciò è falso, ma bisogna dimostrare il falso con la nostra opera di domani.

Infiniti sono i campi nei quali possiamo applicare le nostre energie! Certi dissidi e certi atti di indisciplina individuale non mi preoccupano eccessivamente, anche se non sfruttati dalla stampa antifascista.

Dal mio punto di vista personale, la situazione è di una semplicità lapalissiana: se il fascismo non mi segue, nessuno potrà obbligarmi a seguire il fascismo. Io comprendo, e compiango un poco, quei fascisti delle molte Peretole italiane, i quali non sanno astrarre dai loro ambienti; vi si inchiodano e non vedono altro, e non credono alla esistenza di un più vasto e complesso e formidabile mondo. Sono i riflessi del campanilismo, riflessi che sono estranei a noi, che vogliamo sprovincializzare l’Italia e proiettarla, come «entità nazionale», come blocco fuso oltre i mari ed oltre le Alpi.

Ma l’uomo che ha fondato e diretto un movimento e gli ha dato fior fiore di energia, ha il diritto di prescindere dalle analisi di mille elementi locali per vedere il panorama politico e morale nella sua sintesi; ha il diritto di vedere dall’alto di una montagna, cioè da un più ampio orizzonte, il panorama, che non è di Bologna o di Venezia o di Cuneo, ma è italiano, ma è europeo, ma è mondiale.

Chi non è capace di questa sintesi, può avere le attitudini per comandare una squadra di venti uomini, non certo può rivendicare il privilegio di guidare le vaste masse nei momenti più turbinosi della sua storia, quando le responsabilità si addensano e schiacciano, quando è necessario sfidare le effimere impopolarità tardigrade e andare oltre, a qualunque costo, contro chiunque, nella certezza che proviene dalle sensibilità intime e dalla intima fede.

Fascisti italiani! Questo è il fascismo! E vorrei aggiungere: il fascismo, nella sua immanenza, nel suo spirito profondo, e non soltanto nella sua lettera superficiale. Per questo io grido ancora: Evviva il fascismo!

MUSSOLINI

Da Il Popolo d’Italia, N. 184, 3 agosto 1921, VIII.

La Marcia su Roma

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