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CAPITOLO IX

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Francesco e i suoi padrini erano giunti i primi al convegno; ma non ebbero ad aspettare di molto che un'altra carrozza soprarrivava al trotto serrato del suo cavallo, e fermandosi ancor essa a capo del viale, dove s'era fermata quella del dottor Quercia, ne scendevano il marchesino, il conte San Luca ed un altro giovane titolato amico di Baldissero.

I due gruppi s'accostarono salutandosi. Quercia, coll'agevolezza d'un uomo praticissimo di queste faccende, cominciò a dire senz'altro:

– Per molte ragioni che è inutile accennare – e fra le altre quella di questo freddo e di questa neve – stimo opportuno sollecitarci il più possibile. Qui dietro il muro del cimitero c'è una stradicciuola per cui a questa stagione, con questo tempo, non passa mai nessuno; se lor piace, possiamo recarci colà.

Tutti annuirono con un chinar del capo. Benda e i suoi due padrini s'avviarono primi; a due passi di distanza vennero dietro loro il marchese e i suoi compagni.

Giunti al luogo accennato da Quercia, i padrini si raccolsero a parlare, mentre Francesco per iscaldarsi i piedi faceva alcuni passi scalpitando sulla neve, lungo il muro del Campo Santo, e il marchesino terminava di fumare un suo sigaro d'Avana guardando la nebbia grigiastra che invadeva la campagna.

– Ho portato una mia cassetta di pistole: disse Gian-Luigi. Giuro loro sul mio onore che esse sono affatto sconosciute all'avvocato Benda, il quale mai non le vide nemmanco.

– Ancor io ho recato meco delle mie pistole: disse a sua volta San Luca; e faccio la stessa affermazione riguardo al marchese, che non le conosce nè punto nè poco.

– Sta bene; tiriamo la sorte quali di queste armi si debbano adoperare.

Il conte San Luca prese dalla sua borsa uno scudo e lo gettò in aria.

– Testa: disse Quercia.

Lo scudo caduto sulla neve mostrava il profilo di Luigi Filippo di Francia.

– Ha vinto: disse il conte inchinandosi. Si adopereranno le loro armi.

Gian-Luigi aprì la sua cassetta e prese a caricare le pistole in presenza degli altri tre padrini; quando ci aveva messo la polvere e il proiettile, passava l'arma al conte San Luca, il quale la innescava col cappellozzo.

– Mi permettano una parola, signori: disse Quercia, poichè le armi furono pronte. Loro sanno che noi siamo gli offesi, e in che modo non occorre rammentare. Il duello adunque, come già ne patteggiammo ier sera il conte San Luca ed io, non avrà termine, finchè da parte nostra non ci dichiareremo soddisfatti.

I padrini del marchese acconsentirono con un cenno di capo; quindi, salutatisi profondamente, Selva e Quercia si accostarono a Benda, mentre gli altri due si dirigevano verso il marchese.

Armato ciascuno d'una pistola, i due avversari furono posti alla distanza di 15 passi l'uno dall'altro.

– L'arma è buona: disse Quercia a Francesco: e non iscarta punto. Mirate giusto a metà corpo; il grilletto non è duro.

– Va bene: rispose freddamente il giovane; e poi stringendo forte la mano a Giovanni, gli susurrò all'orecchio: – In ogni caso ti raccomando sopratutto mia madre, ricordati!

Giovanni corrispose con una stretta di mano forte del pari, che era una promessa ed un solenne impegno.

– Signori: disse ad alta voce il dottore, ponendosi cogli altri padrini a metà della distanza fra i due combattenti: signori, batterò tre colpi colle mani, al primo essi armeranno la loro pistola, al secondo prenderanno la mira, al terzo faranno fuoco.

Egli s'apprestava a battere il primo colpo, quando due carabinieri voltarono correndo la cantonata del muro e comparvero sulla scena gridando:

– Ferma, ferma!

Il marchesino che dava le spalle al luogo onde venivano i carabinieri, si voltò, e viste le monture degli agenti della forza pubblica, la sua faccia espresse la più disgustosa meraviglia.

– Oh, oh! esclamò egli con disdegno: c'è qualcuno che ha saputo informare per bene la polizia del nostro ritrovo e della cagione di esso.

E gettò uno sguardo supremamente sprezzoso sopra Francesco e i suoi padrini che s'erano accostati a gruppo.

– Signor sì: disse con isdegnosa insolenza Gian-Luigi. Tutto sta a vedere da qual parte debba cercarsi questo qualcheduno.

Baldissero arrossì fin sulla fronte.

– Per Dio! Ella oserebbe sospettare di noi?

– Ella osa bene mostrare sospetto sul conto nostro.

A quel punto comparve alla cantonata del muro un uomo studiosamente avviluppato in un mantello, avresti detto più ancora per nascondersi la faccia che per ripararsi dal freddo. Era messer Barnaba che veniva a sopravvegliare l'esecuzione degli ordini ricevuti.

– Qua le armi: disse uno dei carabinieri, e lor signori ci dicano tosto il loro nome.

Scrissero il nome di tutti un per uno sopra un loro taccuino.

– È finita la commedia? Disse il marchesino con isprezzante ironia.

– Finita o non finita; rimbeccò con vivacità Gian-Luigi, non fa punto onore al suo autore; e ciò posso affermare con sicurezza, che simile indegno personaggio non si trova fra noi tre.

– Questa è quistione, rispose superbamente di Baldissero, la quale potrebbe venir sciolta altrove fra di noi, se il modo con cui ha avuto termine la presente non ci levasse del tutto il coraggio e la voglia di siffatte partite con simil gente.

– Tregua agl'insulti! Gridò con imponente accento il dottor Quercia facendo un passo verso il marchesino; ma più innanzi verso codestui si fece Francesco Benda che schizzava fiamme dagli occhi.

– Oh che crede Ella che in questo modo tutto abbia avuto termine fra noi? Non sarà così, per Dio! a niun conto.

L'uomo dal mantello s'accostò d'un passo al gruppo de' nostri personaggi e col capo accennò ai carabinieri la persona di colui che aveva parlato per ultimo.

– È dunque Lei l'avvocato Francesco Benda? Dissero i carabinieri, mettendosi innanzi al giovane e disgiungendolo così dal marchesino.

– Sì.

– Ella avrà la compiacenza di venire con noi sino dal signor Commissario di polizia che molto desidera parlarle.

Tutti gli astanti fecero un moto di spiacevole meraviglia.

– Io? Esclamò Benda. A qual fine?

– Glie lo dirà il signor Commissario.

– E se mi rifiutassi d'andarvi?

– Saremmo costretti di condurvelo colla forza.

– È dunque un arresto il mio?

I carabinieri fecero un cenno affermativo.

L'impressione fu in tutti viva e diversa: Gian-Luigi diede una rapida sguardata all'ingiro, come per vedere se vi fossero probabilità di fuga; Selva si avanzò quasi minaccioso come per opporre la resistenza a quell'atto prepotente; il marchesino ed i suoi compagni mostrarono un orgoglioso disdegno.

– Ecchè? Disse superbamente Baldissero. Avete ordine di arrestarci?

– Lei no, signor marchese, risposero i carabinieri, nè altri qui dall'avv. Benda in fuori.

Selva e Francesco erano un po' impalliditi. La loro mente era corsa alla congiura che paventavano fosse scoperta. Quercia che osservava tutto, s'accorse come vi dovesse essere alcuna ragione da far temere ai due giovani più triste conseguenze da quell'arresto che non quelle cui avrebbe avuto il duello mancato: si rivolse al marchesino e gli disse vivamente:

– Ella vede quanto fossero ingiusti i suoi sospetti. Il suo onore medesimo, signor marchese, non consente che lasci così arrestare il suo avversario.

Baldissero lo interruppe con un gesto vibrato che voleva dire: – Ho capito e so ben io che cosa mi tocca di fare; poi con quell'accento di supremazia che dà la coscienza del proprio grado, disse agli agenti della forza pubblica:

– Io sono il figliuolo del marchese di Baldissero ministro di Stato. Rispondo io per l'avv. Benda.

– Do la mia parola, esclamò vivamente Francesco, che mi presenterò io stesso questa mattina medesima dal signor Commissario: ma prima lasciatemi andare a riabbracciare la mia famiglia.

– Siamo dunque intesi: soggiunse il marchesino con quel tono d'autorità; andate pure, e dite ai vostri superiori che io mi sono reso cauzione di lui.

I carabinieri parvero esitare; ma l'uomo dal mantello fece un altro passo ed un altro cenno.

– Ci rincresce davvero: disse allora uno dei carabinieri; ma non possiamo assecondare il suo desiderio. I nostri ordini sono precisi e formali.

Gian-Luigi, fin dal primo momento che Barnaba era comparso, lo era venuto esaminando con occhio acutamente investigatore.

Hai bel coprirti la faccia, diceva a se stesso, ti riconoscerò quel medesimo ad ogni volta che mi avvenga di vederti.

– Se la è così, disse Francesco, è inutile ogni altro indugio. Andiamo pure, o signori: e tu Giovanni, soggiunse volgendosi a Selva, non tardare a recar di mie notizie a casa mia.

Camminarono verso il luogo dove avevano lasciato le carrozze. Il cocchiere del dottor Quercia aveva gli occhi fissi sul suo pseudo-padrone che si accostava, e questi aveva lo sguardo intento sul suo cocchiere. Fu un cenno leggerissimo di Gian-Luigi, colto a volo da quella faccia furba di cocchiere, o fu veramente che il vivace cavallo attaccato al legno del dottore si spaventasse d'alcuna cosa? Il fatto è che quella stupenda bestia fece un balzo, e, come se avesse tolto la mano al guidatore, prese a correre giù della strada del Parco. Non ci fu più che la carrozza del marchesino di cui si potessero servire i carabinieri per condurre l'arrestato. Vi salirono i militari con Francesco; l'uomo dal mantello salì a cassetta presso il cocchiere e la carrozza partì di trotto serrato.

– Signor marchese; disse Gian-Luigi a Baldissero, il quale si vedeva essere turbato e spiacentissimo di questo fatto: Ella non abbandonerà, ne son persuaso, l'avv. Benda.

– No certo: rispose vivamente il marchesino. Qui è avvenuto non so qual disgradevole equivoco, che mi affretterò a far dileguare. Quanto a difendermi dal sospetto che io possa in alcun modo aver contribuito a questo spiacevole incidente, credo non averne bisogno.

Quercia e Selva s'inchinarono leggermente.

In quella la carrozza del dottore tornava a quel luogo col cavallo affatto ammansato.

– Mi rincresce, disse Gian-Luigi al marchesino ed ai suoi compagni, non poter offrir loro un posto nel mio legnetto. Lo lascierei anzi del tutto a loro servizio, se noi non avessimo il dovere di correre il più sollecitamente possibile in casa Benda.

I nobili avversarii non risposero che con un saluto. Selva si precipitò nella carrozza, e Quercia, salendovi esso pure, diede al cocchiere l'indirizzo dell'officina e soggiunse:

– Di galoppo.

La carrozza partì come una saetta sprigionata dalla cocca.

– Benda avrebbe qualche motivo da temere una perquisizione? Domandò Gian-Luigi al suo compagno, mentre la carrozza andava colla rapidità del vento.

– Pur troppo!

– Bene. Può darsi che arriviamo prima di quelli che verranno a farla. Ella ha tutta la fiducia di Benda e della sua famiglia?

– Sì.

– Ella dunque si affretterà a fare scomparire ciò che possa compromettere il suo amico.

– È quello appunto che pensavo di fare.

Abbiamo veduto come di poco essi avanzassero in casa Benda Barnaba e i carabinieri che venivano a fare la perquisizione.

Ora seguitiamo Francesco, il quale viene condotto alla presenza del terribile signor commissario Tofi.

Il signor Commissario aveva dormito poco e male. Per la mente commossa tutta notte s'erano dimenate le rivelazioni di Barnaba ad eccitarne lo zelo irrequieto, operoso e prepotente. Egli aveva sognato degli arresti a fusone, e la sua fantasia s'era deliziata nella visione d'un reggimento di liberali mandato a impallidire dietro le inferriate del forte di Fenestrelle. S'arrabbiava della impotenza relativa a cui lo condannava la sua condizione di subalterno, e s'angustiava per non essere in grado di tradurre in atto di propria autorità lo splendido disegno della sua poliziesca immaginativa. Avrebbe dato non so che cosa per trovarsi ventiquattr'ore almanco nell'uniforme da generale del conte Barranchi.

Effetto di questa insonnia si fu che, appena il mattino, il signor Tofi era nell'anticamera del suo superiore ad insistere presso un domestico sonnoloso che sbadigliava, affinchè lo introducesse presso il padrone. Il domestico che sapeva bene non trattarsi di giuggiole, quando la faccia scura e il soprabito lungo del Commissario comparivano in quelle soglie, si lasciò vincere dalle imperiose parole di messer Tofi ed osò introdursi nella camera del conte a turbarne i dolci sonni mattutini.

Si ha bell'essere generale dei carabinieri reali e comandante supremo della Polizia, e tuttavia non si va esente da qualche piccolo difettuccio. Ahimè! Non c'è nessuno di perfetto su questa terra. Il conte Barranchi amava supremamente due cose: mangiar molto e bene con ghiottoneria istruita a perfezione nella difficil arte della cucina, e dormire beatamente la grassa mattinata. La sera innanzi egli avea pranzato a Corte, dove i pranzi di Carlo Alberto erano conosciuti per parsimoniosa frugalità; la notte aveva dovuto vegliarla al ballo, ed a sbrigar poi varie faccende, di cui lo aveva intrattenuto il Commissario: e quindi era naturale e necessaria conseguenza di ciò che il suo umore fin dalla sera innanzi non si trovasse nello stadio della sua maggiore amenità, e che massimo fosse in lui il desiderio e il bisogno di dormire tranquillamente sino all'alba dei tafani.

Per dire il vero, affatto affatto ameno l'umore del signor generale non lo era pur mai. Il suo carattere brusco e violento si era di molto rinforzato nell'impertinente disdegno d'altrui mercè la prepotenza concessa al suo grado ed alle sue funzioni. I suoi modi erano aspri come quegli ispidi baffi che gli ombreggiavano il labbro superiore. Avvezzo a parlare a carabinieri che lo ascoltavano in posture di rispetto per obbedirlo ciecamente, ad inferiori e subordinati che s'inchinavano innanzi allo scoppio della sua voce, come le umili erbe del prato al passaggio del vento, a poveri diavoli o timorosi o colpevoli che tremavano alla impettita severità del suo aspetto, il conte Barranchi trattava con tutti ch'ei non credesse suoi pari, come un caporal tamburo tratta con un allievo tamburino. Figuratevi un po' che cosa dovesse essere quest'umore quella mattina in cui il domestico venne a rompergli il più quieto dei sonni per dirgli che il Commissario era lì che voleva parlargli! Il fatto d'essere stato svegliato era già doloroso e grave; ma vi era di più che sotto il soprabitone del Commissario venivano occupazioni e fastidi da non lasciarlo riaddormentar poi, perchè era persuaso che senza una pressante necessità Tofi non l'avrebbe disturbato. Il signor conte, che bestemmiava in francese, quantunque fosse austriaco in cuore, sparò una dozzina di sacrebleu! minacciò di prendere il domestico per il collo, diede un pugno sul tavolino da notte che mandò in aria il verre d'eau di cristallo di Boemia, agitò minacciosamente la ciocca di cotone che si drizzava con superbia in alto del suo berrettino notturno, e finì per dire che quel malaugurato signor Commissario fosse introdotto.

Tofi si avanzò con aspetto umile ma sicuro. La pervicacia della sua natura, la coscienza del suo merito poliziesco, l'essere addentro in tutti i misteri di quell'ufficio e in più a varii degli altri rami dell'amministrazione, gli davano eziandio, appetto al suo bizzarro superiore, una certa sicurezza di sè, che, trattandosi d'altro e per altre attinenze, avrebbe potuto anche dirsi dignità. Ciò non toglieva punto che S. E. il conte Barranchi non lo strapazzasse come un cane.

E fu appunto con una vera bordata d'improperii che il sig. Tofi venne accolto quella fatale mattina. E che gli era insopportabile l'essere perseguitato in quella maniera; e che fastidiosissimo e da sdegnar chicchessia non avere un Commissario che valesse a far da sè e sapesse come governarsi, senza venir a romper la testa e il sonno ad ogni momento a cui la sua alta posizione avrebbe dovuto lasciare più loisirs e meno seccature: parlasse presto e poco e bene, e guai a lui se le comunicazioni che aveva da fargli non fossero di tanta importanza da scusare quell'irriverente procedere.

Il Commissario, dritto nella postura del soldato senz'armi, il suo largo cappello in mano, i suoi occhi infossati, fissi sul generale, la faccia ossea ferma sul cravattino duro, ascoltò impassibile la sfuriata del conte, e poi colla sua voce rauca, bassa, contenuta, disse ordinatamente e laconicamente quanto aveva appreso da Barnaba.

A prima giunta siffatte informazioni non parvero abbastanza di rilievo al bravo signor generale. Gridò sbuffando che gli era un prendersi gabbo di lui il venirlo a sturbare per sì poca cosa. Bel miracolo che quattro arfasatti di liberale si radunassero in casa d'un pitocco per combriccolare; cani che vogliono prender la luna coi denti. Che sì che lo Stato aveva da tremare di que' mascalzoni! I becchi d'un cappello da carabiniere li avrebbe fatti scappar tutti come una legione di diavoli dall'acquasantino. Poi se la prese con questa empia incorreggibil razza dei liberali, stupidi matti che avrebbero potuto mangiar e bere e star tranquilli, e volevano ficcare il becco in ciò che loro non toccava. Gli era tempo di finirla mercè qualche buon provvedimento di rigore con questi paladini del disordine; ecchè eravi egli bisogno di andarlo a disturbare di quella guisa, un Commissario che sapesse secondo conviene il dover suo? Si arrestava, si procedeva, si perquisiva; e poi quando e individui, e carte, e tutto, fosse al sicuro, si aspettava un'ora un po' da cristiano per andarne a romper la testa al proprio superiore.

Tofi sostenne la seconda bordata colla medesima impassibilità colla quale aveva sopportata la prima; quando il conte si tacque, il Commissario fece balenare le sue pupille grifagne nelle occhiaie incavate e chinò leggermente la testa in moto affermativo.

– Va bene, e mi basta: diss'egli. Avevo appunto in animo di far così; ma le sue raccomandazioni di temperanza ultimamente fattemi e ripetutemi erano riuscite a pormene un po' in suggezione. Ora le sue parole mi levano ogni scrupolo ed io non mancherò di fare secondo le mie ispirazioni. Mi rincresce aver disturbata S. E.: non la scomodo oltre e vado a dar gli ordini che mi sembreranno più opportuni.

E girò sui suoi talloni per avviarsi alla porta da cui era entrato.

– Un momento, un momento: gridò il conte levandosi a sedere sul letto, appoggiato al gomito. Diavolo! Come voi ci andate di gamba lesta. Corpo d'uno squadrone! Innanzi a S. M. sono io che porto la responsabilità di tutto.

La risposta di Tofi gli aveva richiamato alla mente le rampogne fattegli dal pallido, severo labbro di Carlo Alberto per alcune maggiori prepotenze commesse da ultimo dalla Polizia, gli avevano ricordato che ancora il giorno prima il Re, fermandosi innanzi a lui a favorirlo di quella mezza dozzina di parole che soleva regalare ad ogni convitato, facendo il giro della sala dopo il pranzo, avevagli detto:

– E la sua Polizia, conte Barranchi?

– Cammina alla perfezione: aveva risposto il generale inchinandosi.

– Va bene: aveva soggiunto il Re. Spero che non sentirò più richiami di sorta per eccessi che ella commetta. Bisogna essere vigilanti, severi, ma nei limiti delle leggi e senza violare i diritti dei cittadini. Si ricordi, conte, che è mia intenzione precisa che la Polizia nei miei Stati cessi d'essere un arbitrio e diventi sempre più una magistratura.

Il generale non aveva saputo far altra risposta che inchinarsi di nuovo ed il Re era passato.

Che cosa precisamente significassero le parole di Carlo Alberto, lo spirito poco arguto del conte Barranchi non lo capiva ben bene. La Polizia una magistratura? Egli non vedeva nessun'attinenza fra queste due cose La Polizia e la sciabola, meno male! Ma il Re da qualche tempo si piaceva a tirar fuori di queste frasi; e il marchese di Villamarina, ministro della guerra, da cui Barranchi dipendeva direttamente, sembrava d'accordo col Re. Ragione di più per acconciarsi a quelle intenzioni, che in fin dei conti erano di mettere la sordina allo zelo degli agenti. Ma il Re aveva pur detto che bisognava essere severi e vigilanti. Fin dove andava la vigilanza e la severità che piacevano al Re, senza cadere in quell'arbitrio ch'ei non voleva più tollerare? La quistione era troppo seria e complicata per i mezzi intellettuali del fiero comandante della Polizia; e questa aggrovigliata quistione gli avevano riposta innanzi in tutta la sua gravità le ultime parole del commissario Tofi.

Questi s'era fermato come un buon fantaccino che abbia udito il comando dell'alt

La plebe, parte II

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