Читать книгу La Casa Perfetta - Блейк Пирс - Страница 7

CAPITOLO DUE

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Jessie Hunt si svegliò di soprassalto, per un momento incerta su dove si trovasse. Le ci volle qualche secondo per ricordare che era lunedì mattina e si trovava su un volo di ritorno da Washington DC a Los Angeles. Guardò l’orologio e vide che le mancavano ancora due ore prima di atterrare.

Cercando di non appisolarsi di nuovo, prese un sorso d’acqua dalla bottiglietta che teneva nella tasca del sedile davanti a lei. Fece girare l’acqua in bocca nel tentativo di eliminare quella strana sensazione di torpore che le avvolgeva la lingua.

Aveva delle buone ragioni per aver preso sonno. Le ultime dieci settimane erano state tra le più stancanti di tutta la sua vita. Aveva appena concluso l’Accademia Nazionale dell’FBI, un intenso programma di addestramento per personale del corpo di polizia locale, mirato a far prendere loro confidenza con le tecniche investigative dell’FBI.

Il programma era esclusivo e disponibile solo per coloro che venivano scelti dai loro supervisori per frequentarlo. A meno che non accettasse di andare a Quantico per diventare formalmente un agente dell’FBI, questo corso intensivo era la seconda migliore opzione.

In circostanze normali, Jessie non sarebbe stata ritenuta idonea. Fino a poco tempo fa era stata una semplice consulente junior provvisoria di profiling criminale per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Ma dopo aver risolto un caso importante, le sue quotazioni erano rapidamente cresciute.

Col senno di poi, Jessie capiva perché l’accademia preferisse agenti più esperti. Per le prime due settimane di corso, si era sentita completamente travolta dal volume di informazioni che le erano state gettate addosso. Aveva seguito lezioni di scienza forense, legge, mentalità terroristica, oltre che della sua sfera di interesse – la scienza comportamentale – che enfatizzava l’addentrarsi nelle menti degli assassini per comprendere meglio i loro moventi. E niente di tutto questo comprendeva l’irrefrenabile allenamento fisico che le rendeva tutti i muscoli doloranti.

Alla fine si era adeguata. I corsi, che le ricordavano il suo recente lavoro universitario in psicologia criminale, iniziarono ad avere senso. Dopo circa un mese, il suo corpo non era più dilaniato dal dolore quando si alzava la mattina. E meglio di tutto, tutto il tempo che passava nell’Unità di Scienze Comportamentali le permetteva di interagire con i migliori esperti al mondo di omicidi seriali. Sperava di diventare un giorno una di loro.

Oltre a tutto ciò, c’era un altro beneficio. Dato che lavorava sodo, sia fisicamente che mentalmente, in quasi ogni momento di veglia, non aveva quasi mai sognato. O almeno non aveva avuto incubi.

Quando stava a casa si era spesso svegliata gridando e madida di sudore, perseguitata dai ricordi della sua infanzia o dei più recenti traumi che si riproponevano nel suo inconscio. Ricordava ancora la sua più recente fonte di ansia. Era stata la sua ultima conversazione con il serial killer detenuto Bolton Crutchfield, quando lui le aveva detto che avrebbe presto fatto una chiacchierata con il padre di Jessie, lui stesso un assassino ancora in libertà.

Se nelle ultime dieci settimane fosse stata a Los Angeles, avrebbe passato la maggior parte del tempo ad ossessionarsi e arrovellarsi nel decidere se Crutchfield avesse detto la verità o stesse solo cercando di farla andare di matto. E se fosse stato effettivamente onesto, come sarebbe riuscito a coordinare una discussione con un killer in fuga, mentre lui stesso era sotto custodia in un ospedale mentale di assoluta sicurezza?

Ma dato che si era trovata a migliaia di chilometri di distanza, concentrata senza tregua su compiti impegnativi per quasi ogni secondo di veglia, non aveva avuto la possibilità di fissarsi sulle affermazioni di Crutchfield. Probabilmente l’avrebbe fatto presto, ma non ancora. In quel momento era semplicemente troppo stanca perché il suo cervello potesse essere in grado di darle problemi.

Sistemandosi comoda sul suo sedile, mentre permetteva al sonno di avvolgerla di nuovo, le venne in mente un altro pensiero.

Quindi tutto quello che devo fare per poter dormire bene per il resto della mia vita è passare tutte le mattine a fare allenamento fino al punto di vomitare, per poi proseguire con dieci ore ininterrotte di istruzioni professionali. Mi pare un buon piano.

Prima di poter sorridere della propria battuta, si era già addormentata.

*

Quel senso di piacevole agio scomparve nel preciso momento in cui mise piede fuori dal LAX subito dopo mezzogiorno. Da quell’istante in poi avrebbe dovuto stare costantemente allerta. Dopotutto, prima di partire per Quantico era venuta a sapere che un serial killer mai catturato era sulle sue tracce. Xander Thurman la cercava da mesi. E si dava il caso che Thurman fosse anche suo padre.

Prese un car pooling dall’aeroporto al lavoro, che era la Stazione Centrale della Polizia di Prossimità nel centro di Los Angeles. Non avrebbe ricominciato formalmente a lavorare fino al giorno dopo, e non era dell’umore giusto per chiacchierare, quindi non entrò neanche nell’ufficio principale della stazione.

Andò invece alla sua cassetta assegnata e raccolse la posta, che era stata inoltrata lì da una casella postale. Nessuno – né colleghi, né amici e neppure i suoi genitori adottivi – sapeva quale fosse il suo effettivo indirizzo. Aveva affittato l’appartamento tramite una società di leasing, il suo nome non era presente da nessuna parte sul contratto e non c’era nessun documento che la riconducesse a quell’edificio.

Una volta presa la posta, percorse un corridoio laterale che portava al parco macchine, dove c’erano sempre dei taxi in attesa nei vicoli collegati. Salì in uno di questi e lo indirizzò verso il centro commerciale che si trovava vicino al complesso in cui viveva, a circa tre chilometri di distanza.

Uno dei motivi per cui aveva scelto di andare a vivere in questo posto, dopo che la sua amica Lacy aveva insistito perché se ne andasse, era che era difficile da trovare, e risultava ancora più difficile accedervi senza permesso. Prima di tutto, la sua struttura di parcheggio era sotto l’adiacente centro commerciale nel medesimo edificio, quindi chiunque l’avesse seguita avrebbe avuto difficoltà a capire dove stesse andando.

E anche se qualcuno l’avesse intuito, l’edificio aveva un portiere e una guardia di sicurezza. La porta d’accesso e gli ascensori richiedevano carte d’accesso. E nessuno degli appartamenti aveva numeri civici riportati all’esterno. I residenti dovevano solo ricordare qual era la loro porta.

Ad ogni modo Jessie aveva comunque preso delle precauzioni in più. Quando scese dal taxi – che pagò in contanti – andò dritta al centro commerciale. Prima passò rapidamente per una caffetteria, girovagando tra la folla prima di prendere un’uscita secondaria.

Poi, tirandosi il cappuccio della maglietta sulla testa e coprendo i capelli castani che le arrivavano alle spalle, passò attraverso una zona ristoranti arrivando a un corridoio che aveva dei bagni vicino a una porta contrassegnata dalla scritta “Riservato al personale”. Spinse la porta del bagno delle donne in modo che chiunque la stesse potenzialmente seguendo la vedesse chiudersi e pensasse che lei vi era entrata. Invece, senza guardarsi alle spalle, passò per l’ingresso dipendenti, che era un lungo corridoio con ingressi secondari per ciascun esercizio commerciale.

Percorse in leggera corsa il corridoio curvo fino a che trovò la rampa di scale contrassegnata dalla scritta “Manutenzione”. Scendendo di corsa i gradini il più silenziosamente possibile, usò la carta che le aveva dato il direttore dell’edificio per aprire anche quella porta. Aveva negoziato un’autorizzazione speciale per accedere a quell’area sulla base del suo collegamento con il Dipartimento di Polizia di Los Angeles, piuttosto che tentando di spiegare che le sue precauzioni erano dovute al fatto che suo padre era un serial killer a piede libero.

La porta della manutenzione si chiuse a chiave alle sue spalle mentre lei già percorreva uno stretto passaggio con tubi in vista che spuntavano da tutti gli angoli e griglie di metallo che contenevano attrezzature che lei non conosceva. Dopo diversi minuti di intricato percorso a ostacoli, raggiunse una piccola nicchia vicino a un grosso boiler.

A metà strada lungo il passaggio, l’area era poco illuminata e facile da non notare. Avevano dovuto indicargliela la prima volta che erano scesi là sotto. Entrò nella nicchia mentre tirava fuori la vecchia chiave che le avevano dato. La serratura della porta era quella classica, alla vecchia maniera. Jessie la aprì e spinse la pesante porta, che poi richiuse rapidamente a chiave alle sue spalle.

Ora si trovava nella stanza magazzino del piano interrato del suo edificio ed era quindi passata ufficialmente dalla proprietà del centro commerciale al complesso di appartamenti. Attraversò rapidamente la stanza buia, quasi inciampando su un flacone di candeggina che era stato abbandonato sul pavimento. Aprì la porta, passò attraverso l’ufficio vuoto del direttore della manutenzione e salì la stretta scala che si apriva su un corridoio di servizio del piano principale del condominio.

Svoltò l’angolo dell’atrio dove si trovava il blocco di ascensori, dove poté sentire il portinaio Jimmy e la guardia per la sicurezza Fred che chiacchieravano amabilmente con un residente nella lobby d’ingresso. Non aveva tempo per fermarsi a fare due chiacchiere con loro adesso, ma si promise di farlo in un secondo momento.

Erano entrambi dei tipi simpatici. Fred era un ex poliziotto stradale che era andato in pensione in anticipo dopo un brutto incidente in motocicletta durante il turno di lavoro. Era rimasto con un’evidente zoppia e una grossa cicatrice sulla guancia sinistra, ma questo non gli aveva impedito di essere sempre scherzoso e di buon umore. Jimmy, un ragazzo sui venticinque anni, era un ragazzo dolce e sincero che usava quel lavoro per mantenersi al college.

Jessie passò oltre l’atrio portandosi all’ascensore di servizio, che non era visibile dalla lobby. Strisciò la carta e aspettò con ansia di vedere se qualcuno l’aveva seguita. Sapeva che non c’erano molte possibilità, ma questo non le impedì di spostarsi nervosamente da un piede all’altro mentre aspettava l’arrivo dell’ascensore.

Quando l’ascensore arrivò, Jessie vi entrò, premette il pulsante per il quarto piano e poi quello per chiudere la porta. Una volta riaperte le porte, si lanciò rapida nel corridoio e arrivò al suo appartamento. Si concesse un momento per prendere fiato e osservò la porta.

A primo colpo d’occhio, sembrava una comunissima porta come tutte le altre del piano. Ma lei aveva fatto aggiungere diverse ulteriori misure di sicurezza quando si era trasferita. Prima si fece indietro in modo da trovarsi a circa tre passi di distanza dall’uscio e direttamente in linea con lo spioncino. Dal bordo del forellino si vedeva un leggero bagliore verde invisibile da ogni altra angolazione, un indicatore che l’unità non aveva subito nessun accesso forzato. Se fosse successo, il bordo attorno allo spioncino sarebbe stato rosso.

In aggiunta al campanello con videocamera Nest che aveva fatto installare, c’erano anche numerose videocamere nascoste nel corridoio. Una di esse era puntata direttamente sulla porta. Un’altra mirava il corridoio, rivolta verso l’ascensore e l’attigua rampa di scale. Una terza era puntata verso la direzione opposta, mirando alla seconda scala. Le aveva controllate tutte mentre era in taxi e non aveva individuato nessun movimento sospetto nel corso di quella giornata.

Il passo successivo era l’ingresso. Usò una chiave tradizionale per aprire un lucchetto, poi strisciò la carta e sentì aprirsi anche l’altra serratura. Entrò mentre l’allarme a sensore di movimento si spegneva, lasciò cadere lo zaino sul pavimento e ignorò l’allarme mentre richiudeva entrambe le porte e faceva scorrere anche la sbarra di sicurezza. Solo a quel punto inserì il codice a otto cifre.

Dopodiché prese il manganello che teneva vicino alla porta e andò diretta verso la camera da letto. Sollevò la cornice rimovibile accanto all’interruttore della luce, mettendo in mostra il pannello di sicurezza e digitò il codice a quattro cifre per il secondo allarme silenzioso, quello che andava dritto alla stazione di polizia se non l’avesse disattivato nel giro di quaranta secondi.

Solo allora si concesse di respirare. Mentre inspirava ed espirava lentamente, camminò per il piccolo appartamento, manganello alla mano, pronta a qualsiasi cosa. Per perquisire l’intero appartamento, inclusi gli armadi, la doccia e il ripostiglio le ci volle meno di un minuto.

Quando fu certa di essere da sola e al sicuro, controllò la mezza dozzina di piccole videocamere che aveva disposto nell’appartamento. Poi valutò i lucchetti alle finestre. Tutto era in perfetta funzione. Le restava solo un posto da controllare.

Entrò nel bagno e aprì lo stretto armadietto con all’interno mensole per scorte come carta igienica, uno sturalavandino, alcune saponette, spugne e detergente per specchi. C’era un piccolo gancio sul lato sinistro dell’armadietto, quasi invisibile, a meno che uno non sapesse dove guardare. La piegò e tirò, sentendo la piccola molla nascosta.

La paretina si aprì, rivelando una sbarra estremamente stretta dietro ad essa, con una scala di corda attaccata al muro di mattoni. Il tubo e la scala scendevano dal quarto piano fino allo spazio della lavanderia al piano interrato. Era stata progettata come uscita di emergenza estrema se tutte le altre misure di sicurezza avessero fallito. Jessie sperava di non doverne mai fare uso.

Rimise a posto la mensola e stava per tornare in salotto quando scorse la propria immagine riflessa nello specchio del bagno. Era la prima volta che si guardava davvero da vicino da quando era partita. Quello che vide le piacque.

In superficie non sembrava poi tanto diversa da prima. Aveva compiuto gli anni mentre si trovava all’FBI e ora aveva ventinove anni, ma non le sembrava di avere un aspetto più vecchio. A dirla tutta, le pareva di essere meglio di quando era partita.

I capelli erano ancora castani, ma in qualche modo sembravano più elastici, meno flosci rispetto a quando era stata a Los Angeles tutte quelle settimane fa. Nonostante i lunghi giorni passati all’FBI, i suoi occhi verdi sprizzavano energia e non avevano più quelle ombre scure sotto, che le erano diventate tanto familiari prima. Era sempre alta quasi un metro e ottanta, ma si sentiva più forte e salda di prima. Le braccia erano più toniche e il busto era sodo per gli innumerevoli addominali e flessioni. Si sentiva… preparata.

Portandosi in salotto, finalmente accese le luci. Le ci vollero un paio di secondi per ricordare che tutti i mobili in quello spazio erano suoi. Ne aveva comprati la maggior parte subito prima di partire per Quantico. Non aveva avuto molta scelta. Aveva venduto tutta la roba della casa di cui era stata proprietaria insieme al suo ex marito Kyle, sociopatico e attualmente incarcerato. Per un poco era rimasta nell’appartamento della vecchia amica del college Lacy Cartwright, ma dopo che qualcuno vi aveva fatto irruzione inviando a Jessie un messaggio per conto di Bolton Crutchfield, Lacy aveva giustamente preferito che lei se ne andasse.

Quindi lei aveva fatto proprio così, abitando in un hotel per un poco, fino a che aveva trovato un posto – questo posto – che fosse adatto per le sue necessità di sicurezza. Ma non era arredato, quindi aveva bruciato una parte del capitale che aveva ottenuto dal divorzio per arredamento ed elettrodomestici. Dato che era dovuta partire per l’Accademia Nazionale subito dopo l’acquisto, non aveva avuto la possibilità di apprezzare per bene il tutto.

Ora sperava di poterlo fare. Si sedette sulla poltroncina e si appoggiò allo schienale mettendosi il più comoda possibile. C’era una scatola di cartone con scritto “roba da controllare” sul pavimento accanto a lei. La raccolse e iniziò a rovistarci dentro. Per lo più erano scartoffie che non aveva voglia di guardare adesso. In fondo alla scatola c’era una foto 8x10 del matrimonio di lei e Kyle.

La fissò quasi senza capire, stupita che la persona che aveva avuto quella vita fosse la stessa donna seduta lì desso. Quasi dieci anni prima, durante il loro ultimo anno alla USC, Jessie aveva iniziato a uscire con Kyle Voss. Erano andati a vivere insieme subito dopo la laurea e si erano sposati tre anni fa.

Per un lungo periodo le cose erano sembrate fantastiche. Vivevano in un bell’appartamento poco distante da lì, nel centro di Los Angeles, o Downtown, come veniva spesso chiamato. Kyle aveva un lavoro nella finanza e Jessie stava prendendo la laurea specialistica. Avevano una vita agiata. Andavano spesso a provare nuovi ristoranti e nei migliori bar. Lei era felice e probabilmente sarebbe potuta rimanere in quella condizione per parecchio tempo.

Ma poi Kyle aveva avuto una promozione ed era stato trasferito nell’ufficio che la sua società aveva nella Contea di Orange, e aveva insistito perché si trasferissero in una mega villa lì. Jessie aveva acconsentito, nonostante la sua apprensione. Solo allora la vera natura di Kyle era venuta in superficie. Era diventato ossessionato dall’idea di diventare membro di un club segreto che si era rivelato essere la facciata di copertura per una cerchia legata alla prostituzione. Aveva intrapreso una relazione con una delle donne del posto, e quando le cose erano andate storte, l’aveva uccisa cercando di far ricadere la colpa su Jessie. Ciliegina sulla torta: quando Jessie aveva scoperto il suo intrigo, aveva tentato di uccidere anche lei.

Ma anche adesso, mentre osservava attentamente la foto del matrimonio, non c’era traccia di ciò che suo marito era capace di fare. Sembrava un uomo bello e amabile, pronto a diventare il padrone dell’universo. Jessie accartocciò la foto e la gettò verso il cestino dell’immondizia in cucina. Cadde dritta al centro, dandole un inaspettato senso di catartica soddisfazione.

Canestro! Deve pur significare qualcosa.

C’era un qualcosa di liberatorio in questo posto. Tutto – l’arredamento nuovo, la mancanza di ricordi personali, addirittura le misure di sicurezza al limite della paranoia – appartenevano a lei. Era davvero un nuovo inizio.

Jessie si stiracchiò, permettendo ai suoi muscoli di rilassarsi dopo il lungo volo sull’aereo pieno zeppo di gente. Questo appartamento era suo, il primo posto dopo cinque o sei anni che poteva definire veramente tale. Poteva mangiare pizza sul divano e lasciare lì l’incarto senza doversi preoccupare che qualcuno se ne lamentasse. Non che fosse il tipo da fare una cosa così. Il punto era che poteva.

Il pensiero della pizza le fece venire improvvisamente fame. Si alzò e andò a dare un’occhiata al frigorifero. Non solo era vuoto, ma non era neppure acceso. Solo allora si ricordò di averlo lasciato così, non vedendo alcun motivo per dover pagare l’elettricità dato sarebbe mancata di casa per due mesi e mezzo.

Lo collegò e, sentendosi inquieta, decise di fare un salto al supermercato. Poi le venne un’altra idea. Dato che non avrebbe iniziato a lavorare fino al giorno dopo, e non era troppo tardi nel pomeriggio, c’era un’altra fermata che poteva fare: un posto – e una persona – che conosceva e che alla fine doveva andare a trovare.

Era riuscita a levarsela dalla testa per la maggior parte del tempo a Quantico, ma c’era ancora la questione di Bolton Crutchfield. Sapeva che avrebbe dovuto lasciar perdere e che lui durante il loro ultimo incontro aveva tentato di adescarla.

Eppure doveva sapere: Crutchfield aveva davvero trovato un modo per incontrare suo padre, Xander Thurman, il Boia dell’Ozarks? Aveva trovato un modo per mettersi in contatto con l’assassino di innumerevoli persone, inclusa sua madre, l’uomo che l’aveva lasciata, quando aveva sei anni, legata vicino al suo cadavere, dove sarebbe di certo morta congelata in un isolato capanno?

Aveva intenzione di scoprirlo.

La Casa Perfetta

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