Читать книгу Ammaliando Il Suo Furfante - Dawn Brower - Страница 6
CAPITOLO DUE
ОглавлениеL'appartamento che Asher Rossington, il Conte di Carrick, si era assicurato per il suo periodo a Parigi, aveva poco da offrire. La sua casa in Inghilterra aveva uno stile più lussuoso, ma non ci si poteva aspettare nient'altro da Seabrook. Suo padre – l'attuale Marchese di Seabrook – aveva pensato gli servisse esplorare un po' il mondo. Con fondi limitati a sua disposizione, Asher non vedeva il motivo di affittare qualcosa di più elaborato. Tutto ciò di cui aveva bisogno era un posto dove dormire in relativa pace e conforto.
Ciò che suo padre non sapeva era che Asher era impegnato attivamente in una missione segreta con il Conte di Derby, che lavorava a stretto contatto con il Sottosegretario di Stato per la Guerra. Per qualche ragione, la vecchia capra non si fidava di suo cugino, Sir Benjamin Villiers, che attualmente lavorava per l'Ambasciatore del Regno Unito in Francia. La posizione dava a Sir Benjamin l'accesso a una certo numero di funzionari stranieri. Asher non sapeva cosa avesse fatto per far sì che suo cugino diffidasse di lui a quel modo, ma non vedeva alcuna ragione per non poter fare un piccolo lavoro di spionaggio mentre era in viaggio alla ricerca di sé stesso. Era una cosa di famiglia, dopotutto. Il suo bis-bisnonno – Dominic Rossington, il decimo Marchese di Seabrook – era stato una spia durante le guerre napoleoniche. Gli piaceva l'idea di seguire le sue orme.
Un bussare echeggiò attraverso la stanza. Asher fissò la porta come se fosse stata una sostanza estranea. Chi diavolo poteva mai esserci dall'altra parte? Certo, aprire gli avrebbe dato la risposta a quella domanda, ma non aveva voglia di fare lo sforzo. Se avesse ignorato la cosa abbastanza a lungo, sarebbero andati via e lui sarebbe riuscito a farsi lasciare in pace. La persona bussò di nuovo. Asher sospirò, poi si alzò e si avvicinò. Quando raggiunse la porta, la spalancò.
"Telegramma, monsieur" disse un ragazzo e gli porse una busta, poi se ne andò.
La parte anteriore della busta era indirizzata al Marchese di Seabrook. "Aspetta, non è per me." Non poteva essere per lui. Suo padre era il marchese. Non avrebbe avuto quel titolo fino a quando…
Asher deglutì a fatica. L'unico modo in cui l'avrebbe ereditato era se suo padre fosse morto.
"Io le consegno solo" il ragazzo si fermò per un attimo e disse da sopra la spalla "Sta a voi quello che ci farete."
Proseguì, senza guardarsi indietro nemmeno una volta. Non capiva cosa significava quella sua consegna? La sua intera vita era stata capovolta da una busta, e non aveva nemmeno rotto il sigillo. Suo padre non era in Francia. Avrebbe dovuto essere a casa a Seabrook – sano e salvo. Asher deglutì a fatica e lentamente aprì la busta. Tirò fuori la missiva, e poi cadde in ginocchio. Suo padre… Dio, non poteva nemmeno pensarci. Perché aveva insistito perché Asher facesse un maledetto tour mondiale? Le parole si fecero sfocate davanti a lui e capì perché. Le lacrime scorrevano… Le asciugò furiosamente, ma non fu d'aiuto.
Ora era il Marchese di Seabrook.
Il telegramma diceva che suo padre era morto mesi fa, ma non sapevano dove trovare Asher. Quindi non era nemmeno stato in grado di assistere al funerale di suo padre. Era stato a Parigi per tre settimane; prima di allora, era stato su una barca che navigava in giro per la Grecia, e poi aveva preso un treno attraverso buona parte dell'Europa finché non aveva deciso di lavorare con il Conte di Derby. Lo aveva incontrato per caso mentre si trovava nel sud della Francia. Ora era a Parigi, a fare i conti con il fatto che suo padre era morto mentre lui bighellonava per vari Paesi.
Doveva andare a casa, anche se il funerale era già stato celebrato. Sua madre avrebbe avuto bisogno del suo sostegno, e le sue sorelle… Anche loro dovevano essere devastate. Asher non poteva credere che suo padre se ne fosse andato… In qualche modo, riuscì a rimettersi in piedi strisciando e ad appoggiare il telegramma su un tavolo vicino. A un certo punto, avrebbe voluto rileggerlo. Doveva uscire dal suo appartamento e camminare per Parigi. Forse sarebbe stato in grado di raccogliere i suoi pensieri e prendere una decisione. C'era ancora del lavoro che doveva fare in città riguardo Sir Benjamin. Non aveva potuto dare un ultimo addio a suo padre, e tornare in Inghilterra adesso sembrava quasi – inutile. Tuttavia, non avrebbe ancora preso quella decisione.
Asher si diresse verso il lavandino per lavare via le lacrime. Dentro di sé era strappato a brandelli e le sue emozioni erano in subbuglio. Ci sarebbe voluto un po' prima che avesse potuto prendere decisioni razionali, e ancora di più prima che il suo dolore diminuisse. Afferrò un panno dallo scaffale e lo inzuppò in acqua tiepida, poi si strofinò la faccia, probabilmente più a lungo del necessario, ma questo lo calmò. Lo allontanò e lo appoggiò sul retro del lavandino, poi fissò il suo riflesso nello specchio. I suoi occhi erano arrossati, e i suoi capelli biondi erano rimasti un po' umidi per via del panno. Con un po' di fortuna, nessuno avrebbe notato quanto fosse distrutto. Diavolo, non gli importava davvero se l'avrebbero fatto, a patto che non si preoccupassero di chiedere cosa c'era che non andava in lui. A quella domanda non voleva rispondere. In parte perché non aveva idea di come fare.
"Bene" disse a se stesso. "Almeno non sono un duca – quello sarebbe peggio. Tutti quei "vostra grazia" mi farebbero impazzire." Poteva essere di grado più alto, ma era ancora un Lord. Alcune persone avrebbero potuto prestargli maggiore attenzione però. Un marchese aveva più influenza nel governo e nella società. Suo padre era stato una grande influenza nella Camera dei Lord. Anche quella era una cosa che Asher avrebbe dovuto prendere in considerazione. Quanto voleva partecipare alla politica?
Si avvicinò e afferrò la giacca. L'aria fresca gli avrebbe fatto bene, e non era ancora troppo caldo per giugno. Forse avrebbe fatto un giro turistico. Non aveva avuto tempo da quando era arrivato. Sinceramente, stava cercando qualcosa a cui pensare che non fossero le notizie che avevano mandato in frantumi il suo mondo. Pregò che una distrazione di qualche tipo trovasse la sua strada fino a lui.
Lady Catherine passeggiava lungo il lato del Pont d'Iéna, dirigendosi verso la Torre Eiffel. Era uscita di soppiatto dall'ambasciata per esplorare la zona da sola. Sir Benjamin avrebbe insistito affinché portasse qualcuno con sé. Credeva che Parigi fosse un posto pericoloso per una giovane donna. Catherine voleva un po' di pace e tranquillità. Passeggiare lungo la Senna sembrava una buona idea. Qualcosa nell'acqua calmava la sua anima. Si fermò e fissò il fiume sottostante.
"Non ditemi che state considerando qualcosa di drastico" disse un uomo.
Si riscosse dalle sue fantasticherie e guardò nei suoi occhi verdi. Erano passati due giorni da quando l'aveva incontrato all'ambasciata. Era rimasto nei suoi pensieri da allora. Qualcosa che avrebbe voluto non ammettere, anche se solo a se stessa. Catherine ancora non conosceva il suo nome, e la irritava che non si fosse presentato. Chiedere al suo tutore avrebbe risolto il problema; tuttavia, ne avrebbe causato uno nuovo.
A Sir Benjamin sarebbe piaciuto che si fosse interessata a un uomo. Lui voleva che lei si sposasse e si sistemasse, e qualcosa le diceva che lo avrebbe voluto ancora di più quando avesse scoperto a chi era interessata. Poteva non sapere il suo nome, ma era sicura avesse un bel titolo che lo accompagnava. Catherine lo fulminò con lo sguardo. "Dipende da ciò che considerate drastico."
"Saltare verso la morte nel fiume sottostante."
Lei fissò l'acqua in basso e scrollò le spalle. "Non sembra così male laggiù. Il salto non è così alto – sopravviverei."
Sollevò un sopracciglio. "Lo stavate davvero prendendo in considerazione."
Una nuotata nella Senna non era in cima alla sua lista di cose da fare. C'erano cose molto migliori in cui poteva impiegare il suo tempo. Ma non glielo avrebbe detto. Erano a malapena conoscenti e lei non gli doveva nulla. "Se lo facessi, saltereste dopo di me?"
"Come gentiluomo, mi sarebbe richiesto" disse quasi con rammarico. "Per favore, non costringetemi. Ho già avuto una brutta giornata, e sarei grato se non peggioraste la situazione."
"Potrei considerare di avere pietà di voi" lo stuzzicò. "Per il giusto prezzo." Iniziò a sorridere, ma quando lo guardò, la tristezza la colpì. Il lato empatico del suo dono di solito non si manifestava in modo così duro. Lui soffriva, e molto… Non aveva mentito quando aveva detto che aveva avuto una brutta giornata. Cosa gli aveva causato così tanto dolore?
"Ditelo" rispose. "Potrei essere disposto a pagarlo." Curvò le labbra verso l'alto, ma non vi era felicità. I suoi occhi mostravano anche un po' di rosso intorno come se avesse pianto. Quest'uomo aveva davvero versato lacrime – Catherine non riuscì a trattenere la sorpresa. La sua bocca si aprì, ma non uscì nessuna parola. "Il gatto vi ha morso la lingua?" Il successivo sorrisetto le fece desiderare di toglierglielo dalla faccia. Si era dispiaciuta per lui…
"No" rispose. "Riflettevo su ciò che voglio."
"Una donna come voi necessariamente è costosa." Strizzò l'occhio. "Prometto che sono un uomo di parola."
Lo faceva sembrare così allusivo. Le guance di Catherine bruciavano, ma lei non riusciva a distogliere lo sguardo. Quando aveva lasciato l'ambasciata non si aspettava che la sua giornata coinvolgesse lui. L'uomo misterioso di cui voleva sapere di più – l'enigma che non riusciva a risolvere. "Forse c'è qualcosa che potete fare per me."
"Oh?" Incrociò le braccia sul petto. "Pensavo che fosse il punto di questa conversazione. Devo pagare qualunque prezzo voi riteniate accettabile, così non vi tufferete verso la morte nel fiume sottostante." Lanciò un'occhiata oltre la ringhiera. "Per favore ditemi che ci avete ripensato. Non voglio bagnarmi oggi."
Lei alzò gli occhi al cielo. "Non dovete preoccuparvi. Non ho alcun desiderio di morire in questo momento." Catherine gli tese il braccio. "Camminereste con me?"
Cercava di nasconderlo, ma il dolore non era sparito. Ogni secondo che passava in sua compagnia, quella tristezza la colpiva. Doveva aiutarlo, o essa sarebbe cresciuta. "Se insistete" fu d'accordo. "Non ho particolarmente voglia di tornare nel mio appartamento."
Catherine avvolse il braccio intorno al suo. "Ho sentito che la Torre Eiffel è bella."
"Non saprei" disse lui. "Mai stato lì."
"È difficile non vederla." Catherine rise leggermente e la indicò. "È piuttosto grande."
Era silenzioso e non diede segno di notare ciò a cui lei faceva cenno. Catherine non era sicura di quanto avrebbe potuto sopportare oltre. Doveva trovare un modo per farlo aprire. Sarebbero stati vicino alla torre presto, e poi? "Avete intenzione di presentarvi prima o poi?"
Questo gli fece aggrottare la fronte ancora di più. Che cosa aveva detto? Perché il suo nome lo rendeva più triste di prima? Raggiunsero la fine del ponte e lui si staccò da lei. Si voltò verso il fiume e lo fissò. "Forse ero io a voler saltare e voi quella che mi ha salvato."
"Non può essere così male." Allungò la mano e gli toccò il braccio. "Che c'è?"
"La vita è buffa" iniziò. "Pensi di avere così tanto tempo, ma in realtà è piuttosto limitato. Ogni giorno potrebbe essere l'ultimo, eppure continuiamo ad andare avanti."
Aveva perso qualcuno. Ecco perché diffondeva tristezza. "Questo è anche ciò che rende bella la vita. Quando trovi la gioia, dovrebbe essere abbracciata, e anche i momenti difficili ci insegnano qualcosa. Ci danno una ragione per apprezzare la felicità quando ce l'abbiamo."
La loro vicinanza le rendeva più facile raggiungerlo. Questo lato del suo dono non sempre funzionava quando lei lo voleva. Se lo avesse fatto, avrebbe potuto essere in grado di alleviare alcune delle sue sofferenze e rendere più facile sopportare il dolore. Un tocco di felicità e una spolverata di speranza – e poi il suo atteggiamento sarebbe migliorato. Lui sbatté le palpebre diverse volte e scosse la testa. "L'avete sentito?"
"Cosa?" chiese Catherine con tono innocente. Normalmente la gente non se ne accorgeva quando li aiutava con la sua abilità empatica. Forse aveva un legame più profondo con quell'uomo più di quanto non si rendesse conto. Non era sicura di cosa significasse, ma avrebbe riflettuto su tutte le possibilità dopo – quando fosse stata sola.
"Quella scossa…" Corrugò le sopracciglia. "Davvero non l'avete sentita?"
Catherine non avrebbe mai potuto ammettere di aver usato qualcosa di fuori dell'ordinario per guarirlo. Nessuno capiva i suoi doni. La sua famiglia era stata maledetta a causa loro a sufficienza nel corso degli anni, e lei non voleva che lui la vedesse in modo diverso. Per qualche ragione, le piaceva. "Temo di non sapere di cosa stiate parlando."
Lui scosse di nuovo la testa. "Suppongo che non sia niente." Le sue labbra si inclinarono verso l'alto in un sorriso peccaminoso. Il genere di sorriso che le aveva concesso per la prima volta all'ambasciata. Sembrava già essere più sé stesso. "Mi avete chiesto se mi sarei mai presentato. Sarebbe troppo per voi chiamarmi Ash? Non mi piacciono le formalità."
"Se insistete – Ash" rispose lei. Perché non voleva che lei sapesse chi era? Cosa poteva mai nascondere? Aveva già ammesso di essere un Lord. Dal momento che era consapevole delle sue relazioni familiari, sicuramente doveva rendersi conto che non le importava del suo status tra la massa. "Allora dovete chiamarmi Cat. Tutti i miei amici lo fanno." Non che ne avesse molti, ma lui non aveva bisogno di saperlo.
"Sono piuttosto contento di avervi incontrato." Ash le scostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. "Penso che avessi bisogno di trovare la mia gattina-Cat per farmi sentire meglio. Grazie per qualsiasi cosa sia che avete fatto."
"Non ho fatto nulla…" L'ultima cosa che si aspettava suggerendo di usare il suo soprannome era che lui ne inventasse uno suo. Catherine non era sicura di come sentirsi a riguardo. Nessuno si era mai preso la briga di prendersi tante confidenze con lei prima. A una parte di lei piaceva, l'altra parte di lei era terrorizzata da ciò che poteva significare.
"Non ho bisogno di saperlo" la interruppe. "Sappiate solo che l'ho apprezzato. Ora venite con me. Conosco un piccolo cafè con un caffè eccezionale e mi piacerebbe passare il pomeriggio con voi."
Catherine non insistette, e nemmeno lui. Lasciò che la conducesse al bar e al pomeriggio di risate che seguì. Forse aveva bisogno di Ash quanto lui aveva bisogno di lei. Il destino aveva un strano modo di intromettersi nelle cose.