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CAPITOLO UNO

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4 settembre 2005

5:15 p.m. Ora legale in Alaska (9:15 p.m. Ora legale orientale)

Martin Frobisher Oil Platform

Nove chilometri a nord dell’Arctic National Wildlife Refuge

Mare di Beaufort

Mar Glaciale Artico

Nessuno era pronto quando iniziò il massacro.

Qualche istante prima, l’uomo chiamato Big Dog era fuori sul parapetto. Portava una tuta da lavoro foderata, stivali dalla punta di ferro, grossi guanti di cuoio e uno sbiadito cappellino da baseball giallo su cui spiccava la scritta Hunt Hard.

Fuori faceva freddo, ma Big Dog non ci faceva più caso. E la temperatura non era ancora scesa fino ai minimi livelli. Intorno a lui si estendeva la vastità dell’Artico. Cieli grigi e acqua scura spezzata dal ghiaccio candido a perdita d’occhio.

Fumava una sigaretta e guardava una nave per il trasporto del personale a doppio scafo che avanzava tra i banchi di ghiaccio nella luce tetra del tardo pomeriggio. Non si potevano definire raggi solari. La coltre di nubi ormai incombeva sempre come una pesante coperta, e Big Dog non vedeva traccia di sole da almeno una settimana. Era facile dimenticarselo. Era facile dimenticarsi di qualsiasi cosa.

“Sono arrivati presto,” disse tra sé e sé.

C’era qualcosa che non gli tornava in quell’imbarcazione. Gli dava una brutta sensazione. Somigliava molto al tipo di barca usato per portare gli operai sulla piattaforma petrolifera per il loro turno di lavoro. In effetti, da dov’era lui riusciva a distinguere almeno una dozzina di uomini sul ponte, pronti a sbarcare non appena avessero raggiunto il molo.

Ma i cambi turno non arrivavano mai in anticipo, e le barche non apparivano mai senza preavviso o comunicazioni. Non là fuori. Cercò di pensare a qualche possibile spiegazione per l’apparizione di quell’imbarcazione. Ma aveva di nuovo i postumi di una sbornia e il dolore martellante alla testa, insieme con la confusione mentale data della mancanza di sonno, gli rendeva difficile riflettere.

Ma che importava? Sarebbe diventato tutto chiaro una volta che fosse arrivata. C’era anche la minuscola possibilità che qualcuno avesse fatto un errore. Molta gente nell’Artico non aveva idea di che giorno fosse. Non si parlava di lunedì, martedì, mercoledì o giovedì. Che senso avrebbe avuto? Ogni dodici ore si ripeteva sempre la stessa routine, lavoro e sonno, lavoro e sonno. Il tempo si fondeva insieme, si confondeva, assorbito nel duro acciaio e nel gelido oblio candido.

Chiunque fossero gli uomini sulla barca, a prescindere dai loro scopi, avrebbero dovuto parlare con Big Dog. Lui non era più cattivo come una volta. Era cresciuto in una riserva, per metà un indiano della tribù dei Piedi Neri, e per metà ‘americano’. E un tempo era stato il più cattivo di tutti.

Era alto due metri per centodieci chili di peso quando era in forma, e centoventi quando era gonfio di birra e rabbia; ma ormai aveva superato la cinquantina, ed era più rilassato, meno irascibile, forse persino un po’ misericordioso. In ogni caso era l’uomo più grosso da quelle parti, e forse persino di tutto l’Artico, e quella era la sua piattaforma petrolifera.

Big Dog aveva preso parte ai lavori di costruzione dell’impianto. Da cinque anni era il caposquadra. Non era un geologo, né un trivellatore, e nemmeno un impiegato della compagnia con tanto di laurea, ma non aveva importanza. C’erano più di novanta uomini in qualsiasi momento su quella piattaforma, e ognuno di loro, persino i capi, facevano rapporto a lui.

L’impianto era un ammasso d’acciaio da mezzo miliardo di dollari. Era la Martin Frobisher, o ‘la Bish’, come tendevano a chiamarla gli operai che ci lavoravano e vivevano sopra con turni di due settimane. La Bish era una torre blu e gialla, una pila di macchinari su una piattaforma sospesa sopra un buco. Di lì la trivella affondava nel fondale oceanico. Si ergeva a più di cento metri sopra l’acqua e si trovava a circa quattrocento chilometri dal circolo polare artico, su un’isola artificiale di due ettari e mezzo appena davanti alle coste dell’Arctic National Wildlife Refuge.

La Bish era di proprietà di una piccola compagnia chiamata Innovate Natural Resources. La Innovate aveva contratti con tutte le maggiori ditte — BP, ExxonMobil, ConocoPhillips — ma quella era la sua piattaforma privata. Spesso Big Dog pensava che i pesci grossi la lasciassero operare là fuori perché così avrebbero avuto modo di negare l’evidenza se qualcuno avesse indagato su cosa stavano facendo. La Innovate faceva il lavoro sporco per loro, e se qualcuno l’avesse scoperto, si sarebbe anche presa tutta la colpa.

L’isola era raggiungibile per quasi tutto l’anno da una strada di ghiaccio formata sopra il mare. Ma non in estate, e nemmeno a settembre. Non più. Il ghiaccio permanente era svanito, sciolto, e nei mesi più caldi rimaneva solo acqua. Con l’arrivo della brutta stagione, tornava il ghiaccio stagionale.

Sotto lo sguardo di Big Dog, la barca superò l’ultimo tratto e si fermò al molo. Un paio degli scaricatori di porto della Bish stavano iniziando a legare le sue cime quando successe una cosa strana. Fu tanto inaspettata che passò qualche secondo prima che la mente di Big Dog riuscisse a comprenderla.

Gli uomini scesero dalla barca e spararono agli operatori portuali.

BANG! Esplose il rumore secco degli spari, riecheggiando in lontananza nell’aria fredda e immobile. Nella luce morente, le sagome lontane degli uomini cadevano a terra con ogni colpo.

BANG!

BANG!

Poi Big Dog prese a correre. Con fragore di passi sulle passerelle metalliche del porto, raggiunse in fretta il centro di comando. Era simile alla cabina di una nave, solo che invece di dare sul mare aperto, aveva una ‘bella’ vista sulla trivella. A quell’ora c’erano dentro tre uomini. Quando entrò, gli altri operai erano già in movimento. Stavano aprendo l’armadietto dove conservavano i fucili. Quelle armi dovevano servire per gli orsi polari, non le incursioni.

“Che diavolo sta succedendo?” esclamò.

Un uomo robusto con gli occhiali, Aaron, un dipendente della compagnia, gli gettò un fucile di grosso calibro. Aveva un caricatore ricurvo che spuntava dal fondo, e un mirino sopra.

Big Dog mise un colpo in canna.

Stava soffrendo. Gli faceva male il cuore. E lo faceva infuriare. Quella era la sua piattaforma, e quelli là fuori erano i suoi uomini che venivano uccisi. Nei suoi dieci anni di servizio nell’industria del petrolio dell’Artico, non era mai successo niente del genere. C’erano state risse? Certo. Scazzottate, accoltellamenti, scontri a suon di stecche da biliardo e tubi di ferro. Persino sparatorie. In effetti, anche se di rado, qualcuno estraeva una pistola.

Ma un attacco del genere?

Assolutamente no.

E non poteva sopportarlo.

Gli uomini nella sala comando lo fissarono.

Quando aveva lasciato la riserva all’età di diciassette anni si era unito al Corpo dei Marine. Nell’esercito avevano notato la sua mira e lo avevano subito addestrato per diventare un cecchino.

“Quei figli di puttana.”

Non gli importava chi fossero e che cosa credessero di fare, non ci sarebbero riusciti. Tornò fuori sul molo, con l’arma stretta tra le mani possenti.

Sotto di lui, gli aggressori avevano ormai invaso tutta la struttura, diretti verso i capanni Quonsets che facevano da alloggi, sala ricreativa e mensa. Gli allarmi stridevano e gli operai iniziavano a emergere da ogni dove, in preda al panico. Regnavano confusione e paura.

Per Big Dog sparare era facile. Ognuno aveva le proprie capacità e abilità. Quella era la sua. Guardò nel mirino, prendendo la mira su uno degli invasori alla giacca nera nel bel mezzo del gruppo. Ce l’aveva lì, tanto vicino che avrebbe potuto tendersi e toccarlo. Premette il grilletto. Il fucile gli scalciò tra le mani e gli spinse contro una spalla.

BANG!

Il suono riecheggiò in lontananza, sul ghiaccio e sull’acqua.

Fu un colpo diretto al corpo, all’altezza del petto. L’uomo agitò scompostamente le braccia e lasciò cadere la pistola. Fu sbalzato all’indietro e sollevato in aria, per poi ricadere sulla terra gelata come una bambola di pezza.

Non era un buon segno. Dalla sua reazione Big Dog capì che l’uomo indossava un giubbotto antiproiettile. La pallottola non lo aveva trapassato, lo aveva solo fatto cadere all’indietro. Lo avrebbe sentito per un po’, e il giorno successivo sarebbe stato terribilmente dolorante, ma non sarebbe morto.

Non ancora, per lo meno.

Espulse la cartuccia esausta del fucile e mise un altro colpo in canna. Prese di nuovo la mira sull’uomo che stava strisciando per terra.

Si concentrò sulla sua testa.

BANG.

L’eco si perse nelle vaste distese vuote. Al posto del cranio si allargò un cerchio di sangue. In automatico, senza pensare, Big Dog espulse la cartuccia e mise in canna un altro colpo.

Il prossimo.

Un altro bastardo vestito di nero si era inginocchiato vicino all’uomo morto. Sembrava che stesse controllando i suoi segni vitali. Ma a che scopo? Non aveva più metà della testa.

Big Dog sorrise e puntò il mirino sulla sua testa. Il tizio era un idiota.

BANG.

Ma non più.

La testa del secondo uomo esplose proprio come era successo al primo, in uno spruzzo di rosso nell’aria, come lo soffio dallo sfiatatoio di una balena appena sotto la superficie del mare. I due cadaveri finirono uno sopra l’altro, un ammasso nero sulla terra bianca.

Big Dog abbassò il fucile per avere una visuale più ampia del campo. Si era scatenato il caos. Gli uomini correvano da tutte le parti. Sparavano. Cadevano morti a terra.

Troppo tardi, vide due aggressori inginocchiarsi. Gli puntarono contro le armi. Da quella distanza lui non riusciva a capire che cosa stessero imbracciando. Erano piccole mitragliatrici, compatte, forse Uzi, o magari MP5.

Passò meno di un secondo.

Big Dog si spinse via dalla ringhiera proprio quando la prima sventagliata di pallottole lo raggiunse. Lo attraversarono e lui si sentì il corpo sconvolto da uno scatto convulso. Poi arrivò il dolore, come in differita.

Gli scivolarono i piedi all’indietro, facendogli perdere l’equilibrio, e Big Dog cadde in avanti sulla ringhiera. Rischiò di dar di stomaco sotto di sé.

Ma la sua altezza e l’impeto lo spinsero al di là del parapetto. Ci fu un momento assurdo in cui parve appollaiato sulla sbarra di metallo, con tutto il peso sulla pancia. Poi cadde. Cercò disperatamente di afferrare il ferro dietro di lui, ma fu tutto inutile.

Passarono un paio di secondi. Poi l’IMPATTO.

Il tempo si fermò. Lui fluttuò. Quando aprì di nuovo gli occhi, si ritrovò a fissare un cielo che pareva buio. Era finita quella giornata maledetta, e le fredde stelle stavano iniziando a riempire la volta celeste a milioni, giocando a nascondino tra le nuvole in movimento. Batté le palpebre e tornò giorno.

Capì subito che cosa era successo. Era caduto sul pontile di ferro, due piani più sotto rispetto al livello del centro di comando. Era stato un brutto atterraggio. Doveva essersi fratturato tutte le ossa. Aveva il cranio spaccato.

E poi, quando ricordò gli eventi, fu come se i proiettili lo colpissero di nuovo. Fu colto dalle convulsioni. Gli avevano sparato con le mitragliatrici.

Era impossibile dire quanto tempo fosse passato. Forse pochi minuti. Forse ore. Cercò di muoversi. Era doloroso qualsiasi gesto. Ma era una cosa positiva, significava che aveva ancora la sensibilità. C’era un liquido scuro attorno a lui sul pontile. Il suo sangue. Ansimava con ogni respiro, come un sollevatore idraulico danneggiato, e gli gorgogliava del fluido in bocca.

Da qualche parte, poco distante, si udivano ancora spari. C’erano grida, urla di dolore, o forse di panico.

Un’ombra calò su di lui.

Due uomini gli si erano avvicinati, per controllarlo. Entrambi indossavano pesanti giacche nere con delle toppe bianche. Sopra sembrava esserci l’immagine di un aquila o di qualche rapace. Portavano pantaloni verde mimetico, come quelli usati dai soldati nelle missioni a terra, nelle zone del mondo non coperte di neve. E ai piedi avevano pesanti stivali neri.

I loro volti erano nascosti da passamontagna neri. Si vedevano solo gli occhi, duri e privi di compassione.

Che cosa credevano di fare?

“Chi…?” chiese Big Dog.

Era difficile parlare. Stava morendo e lo sapeva. Ma non era tipo da gettare la spugna. Non lo era mai stato e non sarebbe ancora successo.

“Chi siete?” riuscì a domandare.

Uno degli uomini disse qualcosa in un linguaggio che non capì.

L’invasore sollevò l’arma e la puntò su di lui. Il foro all’estremità della canna sembrava guardarlo, nero come una caverna. Incombeva sempre più grande.

L’altro aggiunse una frase. Doveva essere qualcosa di serio perché nessuno dei due rise. Le loro espressioni piatte non cambiarono. Probabilmente pensavano di fargli un favore, dandogli il colpo di grazia.

A Big Dog il dolore non faceva paura. Non credeva nel paradiso o nell’inferno. Da giovane aveva pregato i suoi antenati, ma se anche erano stati là fuori, non avevano ritenuto opportuno rispondergli.

Forse c’era una vita dopo la morte, e forse no.

Lui preferiva godersi l’esistenza lì sulla terra. Il dottore della piattaforma avrebbe potuto rimetterlo in sesto. Se fosse arrivato l’elisoccorso avrebbe potuto portarlo al piccolo centro traumatologico a Deadhorse. Un elicottero Apache avrebbe potuto attaccare e sgominare quei tizi.

Poteva succedere di tutto. Finché continuava a respirare era ancora in gioco. Alzò una mano insanguinata. Incredibile che potesse ancora muovere il braccio.

“Aspetta,” chiese.

Non voglio morire adesso.

Big Dog. Per decenni, era stato così che lo avevano chiamato tutti. Per la sua ex moglie lui era Big Dog, e così anche per i suoi capi. Una volta il presidente della compagnia era stato lì in visita, gli aveva stretto la mano e lo aveva chiamato Big Dog. Grugnì ripensandoci. Il suo vero nome era Warren.

Un piccolo lampo di luce e una fiammata parvero illuminare le fauci nere del fucile di fronte a lui. L’oscurità lo raggiunse e Big Dog non seppe mai se aveva davvero visto quella luce o se era stato tutto un sogno.

Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3

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