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CAPITOLO SEI

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Maya sbirciò fuori dalla finestra vicino alla porta d'ingresso per la ventesima volta da quando il padre era partito. La strada fuori era deserta. Di tanto in tanto passava una macchina, ma senza rallentare né fermarsi.

La spaventava a morte pensare in che situazione si sarebbe cacciato suo padre questa volta.

Per sicurezza, attraversò l'atrio verso la cucina e controllò di nuovo il telefono di suo padre. Aveva lasciato il suo telefono in silenzioso, ma sullo schermo erano segnalate tre chiamate perse dall'ultima volta che Maya gli aveva parlato.

Probabilmente Maria voleva disperatamente mettersi in contatto con lui. Maya voleva chiamarla, dirle che stava succedendo qualcosa, ma si trattenne. Se suo padre avesse voluto che Maria lo sapesse, l'avrebbe contattata personalmente.

Trovò Sara nella stessa posizione in cui era rimasta nell'ultima mezz'ora, seduta sul divano del soggiorno con le gambe incrociate. C'era una sitcom in TV, ma il volume era così basso che riusciva a malapena a sentirla, e comunque non la stava realmente seguendo.

Maya sapeva che sua sorella aveva sofferto in silenzio da quando erano state prese da Rais e dai trafficanti slavi. Ma Sara non si sarebbe aperta con nessuno, non ne voleva parlare.

“Ehi, topolina, ti andrebbe qualcosa da mangiare?” La chiamò Maya. “Potrei fare del formaggio alla piastra? Con il pomodoro. E pancetta…” Schioccò le labbra, sperando di far sorridere la sorellina.

Ma Sara si limitò a scuotere la testa. “Non ho fame”.

“Ok. Vuoi parlare di qualcosa?”

“No”.

Un'ondata di frustrazione la investì, ma Maya non lo diede a vedere. Doveva essere paziente. Anche lei era rimasta colpita dagli eventi che avevano vissuto, ma la sua reazione era stata rabbia e desiderio di riscatto. Aveva detto a suo padre che il suo piano era quello di diventare lei stessa un agente della CIA, e non era semplicemente enfasi adolescenziale. Era molto seria al riguardo.

“Se ti venisse voglia di parlare”, disse a sua sorella. “io ci sono. Lo sai, vero?”

Sara la guardò. Sulle sue labbra sembrò comparire un lieve sorriso, ma poi i suoi occhi si spalancarono e si alzò di scatto. “Senti?”

Maya ascoltò attentamente. Lei lo sentì; il suono di un potente motore che rombava nelle vicinanze. Quindi si interruppe bruscamente.

“Rimani qui”. Si affrettò a tornare di nuovo nell'atrio e ancora una volta scostò le tende oscuranti. Un SUV argentato era entrato nel loro vialetto. Il suo battito accelerò quando uscirono quattro uomini. Due di loro indossavano completi; gli altri erano vestiti completamente di nero, indossavano giubbotti tattici e stivali da combattimento.

Anche da una certa distanza Maya riuscì a vedere le insegne blasonate sulle maniche. I due uomini vestiti di nero appartenevano alla stessa organizzazione che aveva tentato di rapirle in Svizzera. Watson li aveva chiamati la Divisione.

Maya si precipitò in cucina, infilandosi le calze e tirò fuori un coltello da bistecca dal blocco di bambù sul bancone. Sara si alzò immediatamente dal divano.

“Vai di sotto”. Maya porse il coltello a sua sorella. “Entra nella stanza di emergenza. Ti raggiungo subito”.

Il campanello squillò.

“Non rispondere”, supplicò Sara. “Vieni con me”.

“Non ho intenzione di aprire la porta”, promise Maya. “Voglio solo sapere cosa vogliono. Vai. Chiudi la porta. Non aspettarmi”.

Sara prese il coltello e corse giù per i gradini del seminterrato. Maya si avvicinò con cautela alla porta d'ingresso e sbirciò dallo spioncino. I due uomini in giacca e cravatta erano proprio là fuori.

Dove sono andati gli altri due? si chiese. Alla porta sul retro, molto probabilmente.

Maya sussultò quando uno dei due uomini bussò rapidamente alla porta. Poi parlò. “Maya Lawson?” Sollevò un distintivo in un portadocumenti in pelle mentre lei sbirciava attraverso lo spioncino. “Agente Coulter, FBI. Dobbiamo farti alcune domande su tuo padre”.

La sua mente correva furiosamente. Non avrebbe risposto. Ma avrebbero tentato di entrare con la forza? Avrebbe dovuto dire qualcosa o fingere di non essere in casa?

“Signorina Lawson?” disse di nuovo l'agente. “Preferiremmo davvero concludere tutto nel modo più semplice".

Lunghe ombre danzavano sul pavimento dell'atrio nel sole al tramonto. Maya alzò rapidamente lo sguardo e vide due ombre che passavano dall'ingresso posteriore, facendosi strada attraverso una porta scorrevole in vetro che conduceva a un piccolo patio. Erano gli altri due uomini, quelli della divisione, che si aggiravano dietro la casa.

“Signorina. Lawson”, gridò di nuovo l'uomo. “Questo è l'ultimo avvertimento. Per favore, apra la porta”.

Maya fece un respiro profondo. “Mio padre non è qui”, rispose. “E io sono minorenne. Sarà necessario che torniate”.

Sbirciò di nuovo attraverso lo spioncino per vedere ghignare l'agente dell'FBI. “Signorina. Lawson, penso che lei abbia frainteso la situazione”. Si rivolse al suo compagno, un uomo più alto e più robusto. “Sfonda la porta”.

Maya inspirò a fondo e fece diversi passi indietro. Lo stipite della porta si spezzò, schegge di legno sfrecciarono nell'aria e la porta d'ingresso si aprì.

I due agenti avanzarono nell'atrio. Maya si sentì immobilizzata. Si chiese se sarebbe riuscita a raggiungere il seminterrato e arrivare in tempo alla stanza di emergenza. Ma se Sara aveva fatto come le aveva detto Maya e aveva già chiuso la porta, non sarebbero riuscite a richiuderla prima che gli agenti le raggiungessero.

Il suo sguardo doveva essere volato verso la porta del seminterrato, perché il più vicino dei due agenti sorrise. “Che ne dici di restare lì, signorina?” L'agente che aveva parlato aveva i capelli color sabbia e una faccia che sarebbe sembrata amichevole e fanciullesca se non avessero appena fatto irruzione in casa con la forza. Alzò le mani vuote. “Non siamo armati. Non vogliamo fare del male a te o a tua sorella”.

“Non vi credo”, rispose Maya. Si guardò rapidamente alle spalle, solo per mezzo secondo, per vedere le ombre dei due uomini vestiti di nero che camminavano avanti e indietro sul patio.

All'improvviso una sirena risuonò in tutta la casa e tutti e tre si guardarono attorno sconcertati. Maya impiegò un momento a rendersi conto che si trattava del loro sistema di allarme, che veniva attivato quando la porta si apriva ed era programmato per scattare se entro sessanta secondi non veniva inserito il codice di sicurezza.

La polizia, pensò speranzosa. Arriverà la polizia.

“Spegnilo!” le urlò l'agente. Ma lei non si mosse.

Poi, un vetro si frantumò dietro di lei. Maya sobbalzò e si girò istintivamente mentre la porta scorrevole sul retro veniva frantumata dall'esterno. Uno degli uomini vestiti di nero entrò.

Non si fermò a pensare, ma un ricordo le balenò in testa in un attimo: l'hotel a Engelberg, in Svizzera. L'uomo della divisione si era finto un agente della CIA e aveva sfondato la porta, per attaccarla.

Maya si girò di nuovo rapidamente per affrontare gli agenti dell'FBI. Uno di loro era vicino al pannello, ma era rivolto verso di lei mentre l'allarme continuava a suonare all'impazzata. Gli occhi dell'altro agente, il ragazzo, erano spalancati e le sue mani erano leggermente sollevate. La sua bocca si muoveva, ma le sue parole furono soffocate dall'allarme.

Forti braccia la afferrarono da dietro e lei gemette. Lottò per divincolarsi, ma lui era forte. Sentì il suo odore acre mentre l'uomo la avvolgeva stretta, immobilizzandola.

La sollevò di scatto e la tenne sospesa in aria, con le gambe che scalciavano e il braccio bloccato in una posizione dolorosa. Non era abbastanza forte per liberarsi.

Mantieni la calma, pensò. Non lottare. Aveva preso lezioni di autodifesa all'università con un ex marine che l'aveva messa in questo esatto scenario: un aggressore più grande e più pesante che la afferrava da dietro.

Maya piegò il mento, quasi toccandosi la clavicola.

Quindi sbatté la testa all'indietro il più forte possibile.

L'uomo della divisione che la teneva gridò per il dolore mentre la parte posteriore del cranio di Maya sbatteva contro il suo naso. La sua presa si allentò e i suoi piedi toccarono di nuovo il pavimento. Non appena lo fecero, lei si girò, abbassò la testa per liberarsi dalle sue braccia, quindi si lasciò cadere in una posizione accovacciata.

Pesava solamente 48 chili. Ma mentre lei lasciava cadere, l'uomo venne sbilanciato dal suo peso e perse l'equilibrio, già compromesso dal forte colpo in volto.

Barcollò e cadde sul pavimento dell'atrio. Maya saltò all'indietro, lontano da lui, mentre cadeva. Si guardò alle spalle per vedere il secondo uomo della divisione in piedi sulla porta rotta, apparentemente esitante, fare una mossa rapida ora che lei aveva messo a tappeto il suo compagno.

Era a pochi metri dalla porta del seminterrato. Poteva scappare, arrivare alla stanza di emergenza e chiudersi lì fino all'arrivo della polizia...

Il mercenario sulla soglia tirò fuori una pistola nera. Il respiro di Maya le si bloccò in gola alla vista dell'arma.

Un suono acuto sovrastò l'allarme. Maya e il mercenario si voltarono di nuovo.

L'agente dell'FBI che aveva bussato alla porta, quello più vicino al pannello di allarme, aveva la testa conficcata nel muro dell'atrio. Il suo corpo era inerte.

Una figura balzò in avanti e agitò una chiave inglese, sferrando un solido colpo sulla mascella del secondo agente. Il suono fece accapponare la pelle a Maya, mentre l'agente si accasciava inerte.

Mentre il mercenario della divisione sollevava la pistola puntandola verso la nuova minaccia, l'uomo corpulento indietreggiò e lanciò in aria la chiave inglese. Questa sfiorò Maya e colpì con forza la fronte del mercenario. Emise a malapena un suono mentre il suo corpo cadeva all'indietro attraverso la porta rotta.

Il grande uomo indossava un cappello da camionista e aveva una barba folta. I suoi occhi erano azzurri. Le fece un cenno con la testa e indicò il pannello di allarme.

Maya sentiva le gambe cedere mentre si precipitava a digitare il codice. L'allarme si spense immediatamente.

“Mitch?” disse senza fiato.

“Mm”, borbottò l'uomo. Sul pavimento dell'atrio, il membro della divisione che Maya aveva lasciato cadere tentò di rimettersi in piedi, tenendosi il naso insanguinato. “Me ne occupo io. Chiama il nove-uno-uno. Dì loro che non ci sono problemi”.

Maya ubbidì. Corse in cucina, afferrò il cellulare di suo padre e compose il 911. Nel frattempo, vide il meccanico Mitch avvicinarsi al mercenario della divisione e sollevare un pesante stivale marrone.

Distolse lo sguardo prima che lo lasciasse cadere sul viso dell'uomo.

“Nove-uno-uno, qual è la sua emergenza?”

“Mi chiamo Maya Lawson. Vivo in Spruce Street 814 ad Alessandria. Il nostro sistema di allarme è scattato per sbaglio. Ho lasciato la porta aperta. Non c'è nessuna emergenza”.

“Per favore, attenda in linea, signora Lawson”. Udì per un momento il tintinnio della tastiera, e poi l’operatore le disse: “Una macchina di pattuglia è in arrivo, a circa tre minuti di distanza. Anche se dici che non c'è emergenza, dobbiamo comunque far passare qualcuno a controllare. Lo richiede il protocollo”.

“Davvero, va tutto bene”. Guardò Mitch con disperazione. Con quattro corpi in casa, non potevano certo ricevere dei poliziotti. Non era nemmeno sicura se fossero morti o semplicemente privi di sensi.

“In ogni caso, signora Lawson, manderemo un uomo a controllare. Se non c'è emergenza, non ci sono problemi”.

Mitch mise le mani in una tasca dei suoi jeans macchiati di olio e tirò fuori un telefono che doveva avere quindici anni. Compose un numero e poi grugnì piano qualcosa.

“Um…” L'uomo al telefono esitò. "Signorina. Lawson, è sicura che non ci sia nessuna emergenza?”

“Si, ne sono certa”.

“Va bene. Buona giornata”. L’operatore interruppe bruscamente la chiamata. Da oltre la porta di vetro in frantumi, Maya sentì le sirene esplodere improvvisamente in lontananza, svanendo rapidamente.

“Che hai fatto?” chiese a Mitch.

“Ho segnalato un'altra emergenza”.

“Sono... vivi?”

Mitch si guardò attorno e scrollò le spalle. “Lui no”, grugnì, indicando l'agente con la testa nel muro. Lo stomaco di Maya si agitò quando notò un sottile rivolo di sangue che scorreva lungo il muro in cui era incastrata la testa dell'agente.

Quante persone moriranno in questa casa? non poté fare a meno di chiedersi.

“Vai a prendere tua sorella. E i vostri telefoni. Andiamo via”. Mitch scavalcò il corpo del mercenario della Divisione e si avvicinò al suo collega. Afferrò l'uomo per le caviglie e lo trascinò in casa, poi prese la sua pistola nera.

Maya si affrettò giù per le scale fino al seminterrato. Si fermò davanti alla telecamera installata sopra la porta della stanza di emergenza. “Sono solo io, Sara. Puoi aprire la porta”.

La spessa porta blindata in acciaio si spalancò dall'interno e apparve la faccia impaurita di sua sorella. “Va tutto bene?”

“Per ora. Vieni. Andiamo via”.

Di sopra, Sara osservò la carneficina con gli occhi spalancati, ma non disse nulla. Mitch stava frugando in cucina. “Avete un kit di pronto soccorso?”

“Sì. Eccolo”. Maya aprì un cassetto e tirò fuori una piccola scatola di metallo bianco con un coperchio a cerniera.

“Grazie”. Mitch tirò fuori un panno antisettico e poi tirò fuori un coltello a punta di rasoio. Maya fece un passo indietro nel vederlo. “Mi dispiace davvero”, disse il meccanico, “ma ora arriva una parte un po' spiacevole. Avete entrambe un localizzatore nel braccio destro. Devo rimuoverlo. È sottocutaneo; si trova tra il muscolo e la pelle. Ciò significa che per un minuto sentirete pungere molto forte, ma prometto di non farvi troppo male”.

Maya si morse il labbro nervosamente. Si era quasi dimenticata dell'impianto di localizzazione. Ma poi, con sua grande sorpresa, Sara si fece avanti e si tirò su la manica destra. Prese la mano di Maya e la strinse forte. “Fallo”.

*

Uscì molto sangue, ma le ragazze non provarono molto dolore mentre Mitch estraeva i due localizzatori. L'impianto aveva appena le dimensioni di un chicco di riso; Maya lo osservò con stupore mentre Mitch tamponava il taglio lungo mezzo pollice e ci premeva sopra una benda.

“Ora possiamo andare”. Mitch prese il kit di pronto soccorso, la pistola del mercenario, entrambi i telefoni delle ragazze e i due piccoli impianti. Lo seguirono e lo guardarono mentre metteva i telefoni e gli impianti nel SUV degli agenti. Quindi fece un'altra chiamata con il suo telefono.

“Ho bisogno di una ripulita”, grugnì. “Nella casa di Zero in Spruce Street. Quattro. Una macchina. Portala a ovest e falla sparire”. Riagganciò.

Tutti e tre salirono sul taxi di un vecchio pick-up decorato su un lato con la scritta “Garage della Terza Strada”. Quindi partirono con un rombo di motori.

Nessuna delle due ragazze si guardò indietro.

Maya, seduta in mezzo tra Mitch e Sara, fissò le grosse nocche del meccanico, le punte delle dita macchiate di grasso e sangue. “Allora, dove andiamo?” chiese.

Mitch grugnì senza distogliere gli occhi dalla strada. “Nebraska”.

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