Читать книгу Assassino Zero - Джек Марс - Страница 7
CAPITOLO DUE
ОглавлениеMaya salì le scale fino a raggiungere l'appartamento al secondo piano in cui suo padre viveva in affitto. Si trovava in un edificio di recente costruzione fuori dal centro di Bethesda, in un quartiere residenziale costituito esclusivamente da appartamenti, villette a schiera e centri commerciali. Il tipo di posto in cui mai si sarebbe aspettata che suo padre avrebbe vissuto, ma immaginò che avesse avuto fretta di trovare qualcosa di disponibile quando aveva interrotto la relazione con Maria.
Probabilmente aveva voluto trasferirsi prima di cambiare idea, pensò.
Per un attimo rimpianse la loro casa ad Alessandria, la casa che lei, Sara e suo padre avevano condiviso prima che si scatenasse l'inferno nella loro famiglia. Rimpianse i tempi in cui credevano fosse un professore associato di storia, prima di scoprire che in realtà era un agente della CIA. Prima che venissero rapite da un assassino psicopatico che le aveva vendute a dei trafficanti di esseri umani. Rimpianse i tempi in cui credevano che la madre fosse morta per un infarto improvviso mentre raggiungeva la sua auto dopo un giorno di lavoro, prima di scoprire che era stata assassinata per mano di un uomo che aveva salvato loro la vita in più di un'occasione.
Maya scosse la testa e si scostò la frangia dalla fronte come se stesse cercando di allontanare i pensieri. Era tempo di ricominciare da capo. O almeno di provarci per davvero.
Trovò la porta dell'appartamento di suo padre, ma si rese conto che non aveva una chiave e che probabilmente avrebbe dovuto chiamare prima per assicurarsi che fosse a casa. Ciò nonostante bussò, il catenaccio si fece da parte e la porta si aprì, e Maya si ritrovò a fissare sbalordita per diversi secondi quella che per poco non le sembrò un'estranea.
Non vedeva Sara da più di quanto desiderasse ammettere, ed era evidente dal viso di sua sorella. Sara stava rapidamente diventando una giovane donna, i suoi lineamenti si stavano definendo, o meglio, si stavano avvicinando sempre di più ai lineamenti di Katherine Lawson, loro madre.
Sarà più difficile di quanto pensassi. Mentre Maya assomigliava molto di più a loro padre, Sara da sempre ricordava la mamma in tutto, non solo nell'aspetto, ma anche nella personalità e negli interessi. La carnagione di sua sorella era più pallida di quanto Maya ricordasse, forse per effetto della disintossicazione, pensò. I suoi occhi sembravano in qualche modo più opachi e aveva evidenti occhiaie scure che Sara aveva tentato di nascondere con il trucco. Si era tinta i capelli di rosso, almeno due mesi prima, e dalla ricrescita iniziava a far capolino il suo biondo naturale. Li aveva anche tagliati di recente all'altezza del mento, e quel taglio le incorniciava il viso in modo grazioso ma la faceva sembrare più grande di un paio d'anni. In effetti, lei e Maya sembravano avere la stessa età ora.
“Ehi”, disse Sara semplicemente.
“Ciao”. Maya si riprese dalla sorpresa nel vedere sua sorella così diversa e sorrise. Lasciò cadere il borsone verde e fece un passo in avanti per abbracciarla; Sara la abbracciò a sua volta con gratitudine, quasi come se stesse aspettando di vedere come sarebbe stata accolta da sua sorella. “Mi sei mancata. Volevo tornare a casa subito quando papà mi ha raccontato quello che è successo…”
“Sono contenta che tu non l'abbia fatto”, disse candidamente Sara. “Mi sarei sentita orribile se avessi lasciato la scuola per me. Inoltre, non volevo che mi vedessi… così”.
Sara scivolò fuori dalle braccia di sua sorella e afferrò il borsone prima che Maya potesse protestare. “Entra”, le disse con un cenno. “Benvenuta a casa”.
Benvenuta a casa. Maya la seguì nell’appartamento. Era un posto abbastanza carino, moderno, con molta luce naturale ma piuttosto austero. Se non fosse stato per alcuni piatti nel lavandino e il ronzio della televisione nel soggiorno a basso volume, Maya non avrebbe creduto che qualcuno vivesse in quella casa. Non c'erano quadri alle pareti, nessun tipo di decorazione che desse personalità alla casa.
Sembrava una tela bianca. Tra sé e sé, riconobbe che quello era lo scenario più appropriato per la loro situazione.
“È tutto qui”, disse Sara, come se stesse leggendo la mente di Maya. “Almeno per ora. Ci sono solo due camere da letto, quindi dovremo condividere la stanza…”
“Posso dormire sul divano”, propose Maya.
Sara sorrise appena. “Mi fa piacere condividere la stanza. Un po' come quando eravamo piccole. Sarebbe… bello. Averti vicina”. Si schiarì la voce. Nonostante la frequenza con cui avevano parlato al telefono, era dolorosamente evidente quanto fosse strano ritrovarsi nella stessa camera.
“Dov'è papà?” Chiese Maya all'improvviso, cercando di allentare la tensione.
“Dovrebbe tornare a casa a momenti. Ha dovuto fermarsi dopo il lavoro a prendere alcune cose per domani”.
Dopo il lavoro. Sara lo disse con una tale noncuranza che sembrava che stesse tornando da un ufficio e non dal quartier generale della CIA a Langley.
Sara si appollaiò su uno sgabello vicino al bancone che separava la cucina dalla piccola sala da pranzo. “Come va la scuola?”
Maya si appoggiò al tavolo con entrambi i gomiti. “La scuola è…” Esitò. Sebbene avesse solo diciotto anni, era al suo secondo anno a West Point a New York. Aveva sostenuto in anticipo l'esame per il diploma di liceo ed era stata accettata dall'accademia militare grazie a una lettera di raccomandazione dell'ex presidente Eli Pierson, il cui tentativo di assassinio era stato contrastato proprio dall'agente Zero. Ora era la migliore della sua classe, forse tra i migliori dell'intera accademia. Ma un recente litigio con il suo ex fidanzato Greg Calloway si era evoluto in diversi episodi di bullismo. Maya si era rifiutata di arrendersi, ma doveva ammettere che quegli episodi le avevano reso la vita piuttosto difficile. Greg aveva molti amici, tutti ragazzi più grandi dell'Accademia che Maya aveva già dovuto affrontare più di una volta.
“La scuola è fantastica”, disse infine, forzando un sorriso. Sara aveva già molti problemi, non voleva darle altri pensieri. “Ma un po' noiosa. Dimmi piuttosto come stai tu”.
Sara quasi sbuffò, e poi indicò l'appartamento. “Lo vedi. Sono qui tutto il giorno, tutti i giorni. Guardo la TV. Non vado da nessuna parte. Non ho soldi. Papà mi ha procurato un telefono al lavoro in modo che possa tenere d'occhio le mie chiamate e i miei messaggi”. Poi alzò le spalle, e aggiunse “È come una di quelle prigioni per colletti bianchi in cui mandano politici e celebrità”.
Maya sorrise tristemente alla battuta, e poi con cautela chiese: “Ma tu sei…pulita?”
Sara annuì. “Per quanto possibile”.
Maya si accigliò. Sapeva molto di molte cose, ma non conosceva nulla in merito alle droghe. “Che significa?”
Sara fissò il bancone di granito, tracciando un piccolo cerchio sulla superficie liscia con un dito. “Significa che è difficile”, ammise lei piano. “Pensavo che sarebbe stato più facile dopo i primi giorni, dopo che tutto quello schifo fosse uscito dal mio corpo. Ma non lo è stato. È come… è come se il mio cervello si ricordasse di quella sensazione e la desiderasse ancora. La noia non mi aiuta. Papà non vuole che io abbia ancora un lavoro, perché non vuole che io abbia altri soldi a disposizione finché non starò meglio. Poi sorrise, e aggiunse: “Vuole che studi per prendere il diploma”.
E ha ragione, stava per dire Maya, ma si trattenne. Sara aveva abbandonato la scuola superiore dopo aver raggiunto l’età dell’obbligo, ma l'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era un rimprovero, specialmente in quel momento in cui si stava aprendo con lei.
Ma una cosa era chiara: il problema di Sara era peggiore di quanto Maya pensasse. Pensava che sua sorella minore avesse solamente provato qualche droga e che l'overdose fosse stata un incidente. Tuttavia, era proprio il contrario. Sara era dipendente. E non c'era niente che Maya potesse fare per aiutarla. Non sapeva nulla della dipendenza.
O forse sì?
Improvvisamente ricordò una notte, circa due settimane prima, quando aveva svegliato il suo compagno di dormitorio ritornando dalla palestra all'una del mattino. Il cadetto, irritato e mezzo addormentato aveva borbottato qualcosa riguardo al fatto che fosse “drogata di allenamenti”. E poi Maya era rimasta sveglia per un'altra ora a studiare, per poi svegliarsi il giorno dopo alle sei per andare a correre.
Più ci pensava, più si rendeva conto di sapere tutto sulla dipendenza. Non era dipendente dal dimostrare di essere la migliore? Non era sempre impegnata a inseguire il successo?
E suo padre, anche dopo tutto il tumulto degli ultimi due anni, era comunque tornato al lavoro. Sara bramava ancora la droga come Maya bramava la realizzazione personale e il suo papà bramava il brivido dell'inseguimento, perché forse non erano altro che una famiglia di tossicodipendenti.
Ma Sara era l'unica a riconoscerlo. Forse è la più intelligente di tutti noi.
“Ehi”. Maya allungò la mano prese quella di Sara. “Puoi farcela. Sei più forte di quanto pensi. Ho fiducia in te”.
Sara fece un mezzo sorriso. “Sono contenta che qualcuno abbia fiducia in me”.
“Parlerò con papà”, disse Maya. “Magari si rilasserà un po', ti darà un po' più di libertà…”
“No”, la interruppe Sara. “Il problema non è papà. Lui è fantastico con me; probabilmente meglio di quanto mi meriti”. Il suo sguardo cercò il pavimento. “Il problema sono io. Perché so benissimo che se avessi un centinaio di dollari in tasca e potessi andare dove voglio, dovrebbe venire a cercarmi di nuovo. E la prossima volta potrebbe non arrivare abbastanza velocemente”.
Il cuore di Maya si spezzò per l'ovvio tormento riflesso negli occhi di sua sorella, e poi di nuovo alla consapevolezza che non c'era nulla che potesse fare per aiutarla. Tutto ciò che aveva erano parole vuote di incoraggiamento, che non l'avrebbero aiutata a risolvere i suoi problemi.
All'improvviso si sentì incredibilmente fuori posto in quella cucina. Avevano vissuto così tante situazioni insieme. Crescendo. Avevano pianto la morte di loro madre. Avevano scoperto il lavoro di loro padre. Avevano fatto delle vacanze in famiglia ed erano fuggite da aspiranti assassini. Tutto ciò che si pensasse potesse avvicinare due persone e creare un legame indissolubile, aveva invece creato un vuoto silenzio tra di loro.
Sarebbe stato sempre così d'ora in avanti? La ragazza davanti a lei avrebbe continuato a diventare sempre più irriconoscibile fino a quando non si sarebbero trovate ad essere semplici estranee con un legame di parentela?
Maya voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa, per rompere quel silenzio. Far rivivere qualche ricordo felice. O chiamala topolina, quel nomignolo della loro infanzia che non usava da chissà quanto tempo.
Prima che potesse dire qualcosa, la porta si aprì alle loro spalle. Maya si girò di scatto, stringendo istintivamente i pugni. I suoi nervi saltavano quando si verificavano intrusioni inaspettate.
Ma questa volta non era un intruso. Era suo padre, che trasportava due sacchetti della spesa e avanzava cautamente verso la cucina alla vista di lei.
“Ciao”.
“Ciao, papà”.
Posò le borse della spesa sul pavimento e fece un passo verso di lei, aprendo le braccia, ma poi esitò. “Posso…?”
Lei annuì e lui l'abbracciò. All'inizio fu un abbraccio esitante, ma poi Maya notò, stupita, che aveva lo stesso odore di sempre. Era un profumo straordinariamente nostalgico, un profumo della sua infanzia, un profumo che le ricordava mille altri abbracci. Forse lei era più grande, forse Sara sembrava diversa; forse non era ancora del tutto sicura di chi fosse suo padre e forse si trovavano in un posto nuovo che avrebbero dovuto imparare a chiamare casa, ma in quel momento nulla di tutto ciò sembrava avere importanza. In quel momento si sentì a casa e si abbandonò a lui, stringendolo forte.
*
Maya aprì la porta scorrevole in vetro sul retro dell’appartamento, indossò una felpa con cappuccio e sfidò l'aria fredda della notte. La casa non aveva un cortile, ma aveva un piccolo patio con un tavolo tozzo e due sedie.
Suo padre era seduto lì, sorseggiava da un bicchiere una bevanda di colore ambrato. Maya si sedette con lui, notando quanto fosse chiara la notte.
“Sara dorme?” chiese.
Maya annuì. “Sonnecchia sul divano”.
“Lo fa spesso recentemente”, disse, con espressione preoccupata. “Dorme molto”.
Lei forzò una leggera risata. “Ha sempre dormito molto. Non mi preoccuperei per questo”. Poi indicò il bicchiere con un cenno. “Birra?”
“Tè freddo”. Sorrise lui imbarazzato. “Da quando sono tornato al lavoro non bevo”.
“E come va?”
“Non male”, ammise. “Ultimamente non ho svolto nessun incarico sul campo, mi prendo cura di Sara e mi rimetto in forma”.
“Stavo per dirlo, si vede che hai perso peso. Stai molto meglio di… “
Dell'ultima volta in cui ti ho visto, stava per dire Maya, ma si interruppe, perché non voleva rievocare il ricordo di quella visita, quando aveva portato Greg a casa, si era arrabbiata, aveva perso il controllo, aveva abbandonato Greg lì e aveva detto a suo padre che non avrebbe mai più voluto vederlo.
“Grazie”, disse lui in fretta, chiaramente pensando lo stesso. “E la scuola sta andando bene?”
Gliel'aveva già detto così prima, a cena, ma sembrava che non le credesse del tutto, e Maya ricordò a sé stessa che parte del suo lavoro era la capacità di capire le persone. Era inutile mentirgli, ma ciò non significava che lei dovesse dirgli tutto.
“Preferisco non parlare della scuola”, gli disse chiaramente. Non voleva parlare di come talvolta sparissero degli oggetti dal suo armadietto. O del fatto che i ragazzi le gridassero parole poco gentili. O della sensazione che fosse soltanto l'inizio del tormento, e che più cercava di ignorarli, più i ragazzi di West Point sarebbero stati aggressivi.
“Giusto”. Suo padre si schiarì la gola. “Uhm, c'è qualcosa di cui vorrei parlare però. Avrei dovuto chiedertelo prima. Maria non ha un posto in cui andare domani, e non mi sembrava giusto…”
“Non preoccuparti, papà”. Maya sorrise al suo imbarazzante tentativo di chiederle il permesso. “Certo che non mi dispiace, e non devi chiedermi il permesso”.
Lui fece spallucce. “Si, hai ragione. È solo che sei così grande ora. Entrambe siete cresciute così tanto. Mi sono perso alcune parti importanti della vostra vita”.
Maya annuì leggermente, sebbene non sentisse il bisogno di aggiungere altro. Poi cambiò argomento. “È bello ciò che stai facendo per Sara. La stai aiutando. Sembra che ne abbia davvero bisogno”.
Questa volta fu suo padre ad annuire leggermente, fissando il vuoto. “Farei tutto il possibile per lei”, disse malinconicamente. “Ma temo che potrebbe non essere abbastanza”.
“Che intendi dire?”
Zero bevve un sorso di tè freddo prima di spiegare. “La scorsa settimana siamo andati a cena, solo noi due, in un ristorante in centro. È stato bello. Abbiamo parlato. Sembrava tutto a posto. Quando è arrivato il conto, ho pagato con una banconota da cento dollari. E lì qualcosa è scattato; come un'ombra le ha attraversato gli occhi. L'ho vista guardare i soldi, poi la porta e …”
Suo padre tacque, ma Maya non aveva bisogno che spiegasse ulteriormente. Ora capiva le parole di Sara; aveva davvero pensato di prendere i soldi e scappare. Non sarebbe andata lontano con solo un centinaio di dollari, ma probabilmente stava pensando a brevissimo termine. Voleva farsi una dose il prima possibile.
“Sicuramente te ne sei accorta”, continuò suo padre, “l'appartamento è un po' spoglio. Non l'ho decorato con molte cose, perché…”
Perché temi che potrebbe rubarle. Impegnarle. Scappare di nuovo. La CIA non lo aveva mandato da nessuna parte nel tempo in cui Sara aveva vissuto con lui, ma prima o poi lo avrebbe fatto, e a quel punto cosa sarebbe successo? Sara sarebbe rimasta semplicemente seduta ad aspettare il suo ritorno? O avrebbe cercato di fuggire, abbandonata a sé stessa e ai demoni del suo passato?
“È molto peggio di quanto pensassi”, mormorò Maya. Quindi, risolutamente e senza pensarci due volte, aggiunse: “Rimarrò qui”.
“Che cosa?”
Lei annuì. “Rimango qui. Mancano solo tre settimane alle vacanze di Natale. Posso recuperare il lavoro. Starò qui durante le vacanze, tornerò a New York dopo Capodanno”.
“No”, le disse Zero con fermezza. “Assolutamente no…”
“Ha bisogno di aiuto. Ha bisogno di supporto”. Maya non era sicura di quale tipo di aiuto o supporto potesse offrire a sua sorella, ma avrebbe avuto il tempo di capirlo. “Non preoccuparti. Me ne occupo io”.
“Non è compito tuo”. Suo padre si chinò e cercò la sua mano. Lei quasi sussultò, ma poi le sue dita si chiusero attorno alle sue. “Apprezzo l'offerta. Sono sicuro che anche Sara lo farebbe.
Ma hai degli obiettivi. Hai un sogno nel cassetto. Hai lavorato duramente per raggiungerlo e devi continuare a perseguirlo”.
Maya sbatté le palpebre, un po' sorpresa. Suo padre non aveva mai mostrato di sostenere il suo desiderio di entrare a far parte della CIA e di diventare l'agente più giovane della storia. In effetti, aveva spesso tentato di dissuaderla, ma lei era irremovibile.
Lui sorrise, sembrando cogliere la sua sorpresa. “Non fraintendermi. Non mi piace comunque. Ma ora sei grande; è la tua vita. È giusto che sia tu a scegliere”.
Lei ricambiò il sorriso. Era cambiato. E forse dopo tutto c'era la possibilità di tornare a quello che erano una volta. Ma prima bisognava aiutare Sara.
“Penso”, disse piano, “che Sara potrebbe aver bisogno di più aiuto rispetto a quello che possiamo darle. Penso che potrebbe aver bisogno di un aiuto professionale”.
Suo padre annuì come se lo sapesse già, come se avesse già pensato la stessa cosa ma sentisse il bisogno di sentirselo dire da qualcun altro. Lei gli strinse delicatamente la mano per rassicurarlo, e poi rimasero in silenzio. Nessuno dei due sapeva cosa sarebbe successo, ma per il momento tutto ciò che contava era che fossero a casa.