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II.
SARAGOZZA.
ОглавлениеA poche miglia da Barcellona, si cominciano a vedere le rocce dentellate del famoso Montserrat, uno strano monte che, a prima vista, fa balenare il sospetto d'un'illusione ottica, tanto è difficile a credere che la natura possa aver avuto un sì stravagante capriccio. Immaginate una serie di sottili triangoli che si toccano, come quei che fanno i bambini per rappresentare una catena di montagne; o una corona a becchetti distesa pel lungo come la lama d'una sega; o tanti pani di zucchero disposti in fila, e avrete un'idea della forma che presenta da lontano il Montserrat. È un insieme di coni immensi che s'alzano I' uno accanto all'altro, e l'un sull'altro, o meglio un solo gran monte formato di cento monti, spaccato di su in giù fin quasi al terzo della sua altezza, in modo che presenta due grandi cime, intorno alle quali si aggruppano le minori; nelle parti alte, arido e inaccessibile; nelle basse, popolato di pini, di quercie, di corbezzoli, di ginepri; rotto qua e là da grotte smisurate e da spaventevoli burroni, e sparso di romitaggi biancheggianti sulle bricche aeree e nelle gole profonde. Nella spaccatura del monte, fra le due cime principali, sorge l'antico convento dei Benedettini, dove Ignazio di Lojola meditò nella sua giovinezza. Cinquantamila tra pellegrini e curiosi si recano anno per anno a visitare il convento e le grotte, e il giorno otto di settembre, vi si celebra una festa a cui concorre una moltitudine innumerevole di gente da ogni parte della Catalogna.
Poco prima di arrivare alla stazione dove si scende per salire al monte, irruppe nel mio carrozzone una frotta di ragazzi, accompagnati da un prete, alunni d'un collegio di non so che villaggio, che andavano a fare una scampagnata al convento del Montserrat. Eran tutti catalani, bei visetti bianchi e rosei, con grandi occhi. Ognuno aveva un canestrino con dentro pane e frutta; qualcuno un album, altri un canocchiale: parlavano e ridevano tutti insieme, e si avvoltolavano sulle panche, e facevano un casa del diavolo infinito. Per quanto tenessi l'orecchio teso, e mi stillassi il cervello, non riuscii a capire una parola del maledetto linguaggio che cinguettavano. Intavolai conversazione col prete. “Mire Usted” mi disse dopo le prime parole, accennandomi uno dei ragazzi; “aquel niño sabe de memoria toda la Poética de Oracio;.... quell'altro là risolve dei problemi d'aritmetica da far stordire; questo qui è nato per la filosofia;” e via via, mi segnalò le doti di ciascuno. A un tratto s'interruppe, e gridò: “Beretina!” Tutti i ragazzi cavaron di tasca la berrettina rossa catalana e gettando alte grida d'allegrezza, se la misero in testa, chi tutta indietro che gli cascava sulla nuca, chi tutta avanti, che gli copriva la punta del naso; e il prete a far degli atti di disapprovazione; e allora quei che l'avevan sulla nuca a tirarsela sul naso, e quei che l'avevan sul naso a tirarsela sulla nuca; e lì risa, esclamazioni, e battìo di mani. Mi avvicinai a uno dei più monelli, e così per celia, certo che sarebbe stato come dire ai muri, gli domandai in italiano: “È la prima volta che vai a fare una passeggiata al Montserrat?” Il ragazzo stette un po' pensando, e poi rispose adagio adagio: “Ci so-no già sta-to altre volte.”—“Ah! caro bimbo!” gli gridai con una contentezza difficile a immaginarsi; “e dove hai imparato l'italiano?” Qui il prete prese la parola per dirmi che il padre di quel ragazzo aveva vissuto parecchi anni a Napoles. Mentre io mi volto verso il mio piccolo catalano per attaccar discorso, un maledettissimo fischio, e poi un maledettissimo grido di:—Olesa,—che è il villaggio dal quale si va al monte, mi taglia la parola in bocca. Il prete mi saluta, i ragazzi si precipitano fuori, il treno riparte. Io misi la testa fuor del finestrino per salutare il mio piccolo amico: “Buona passeggiata!” gli gridai, e lui spiccicando le sillabe: “A-di-o!” Qualcuno ride a sentir rammentare queste bazzecole: eppure sono i più vivi piaceri che si provin nei viaggi!
Le città e i villaggi che si vedono nell'attraversar la Catalogna alla vólta dell'Aragona, son quasi tutti popolati e floridi, e circondati di case industriali, di opifici, di edifizi in costruzione, onde in ogni parte si vedono sorgere di là dagli alberi dense colonne di fumo, e ad ogni stazione è un via vai di contadini e di negozianti. La campagna è una successione alternata di colte pianure, di amene colline, di vallette pittoresche, coperte di boschi e dominate da vecchi castelli, fino al villaggio di Cervera. Qui si cominciano a vedere ampie distese di terreno arido, con poche case sparpagliate, che annunziano la vicinanza dell'Aragona. Ma poi, all'improvviso, si entra in una ridente vallata, coperta d'oliveti, di vigneti, di gelsi, di alberi fruttiferi, sparsa di villaggi e di ville; si vedon da un lato le alte cime dei Pirenei, dall'altro le montagne aragonesi; Lerida, la gloriosa città dai dieci assedii, schierata lungo la sponda della Segra, sul pendio d'una bella collina; e tutt'intorno una pompa di vegetazione, una varietà di prospetti, un colpo d'occhio stupendo. È l'ultima veduta della campagna catalana; dopo pochi minuti s'entra in Aragona.
Aragona! Quante vaghe istorie di guerre, di banditi, di regine, di poeti, d'eroi, d'amori famosi ridesta nella memoria questo sonoro nome! E qual profondo senso di simpatia e di rispetto! La vecchia, nobile ed altera Aragona, sulla cui fronte brilla il più splendido raggio della gloria di Spagna! Sul suo stemma secolare sta scritto a caratteri di sangue:—Libertà e valore.—Quando il mondo si curvava sotto il giogo della tirannide, il popolo aragonese diceva ai suoi re per bocca del suo Gran Giustiziere:—Noi che siamo quanto voi, e più possenti di voi, vi abbiamo eletto nostro signore e re, col patto che conserviate i nostri diritti e la nostra libertà; e se no, no.—E i suoi re s'inginocchiavano dinanzi alla maestà del Magistrato del popolo, e prestavan giuramento sulla formola sacra. In mezzo alla barbarie del Medio Evo, la fiera gente aragonese non conosceva la tortura, il giudizio segreto era bandito dai suoi codici, tutte le sue istituzioni proteggevano la libertà del cittadino, e la legge aveva impero assoluto. Discesero, mal paghi alla ristretta patria delle montagne, da Sobrarbe a Huesca, da Huesca a Saragozza, ed entrarono vincitori nel Mediterraneo. Congiunti alla forte Catalogna, redensero dall'araba signoria le Baleari e Valenza; combatterono a Muret per il diritto oltraggiato e la coscienza violata; domarono gli avventurieri della casa d'Angiò, spodestandoli delle terre italiane; ruppero le catene del porto di Marsiglia, che pendono ancora dalle pareti dei loro tempi; signoreggiarono il mare dal golfo di Taranto alle foci del Guadalaviar, colle navi di Ruggero di Lauria; soggiogarono il Bosforo, colle navi di Ruggero di Flor; da Rosas a Catania corsero il Mediterraneo sulle ali della vittoria; e come se fosse angusto l'Occidente alla loro grandezza, andarono ad incidere sulla cima dell'Olimpo, sulle pietre del Pireo, sui monti superbi che son quasi le porte dell'Asia, il nome immortale della patria.
Questi pensieri,—benchè non proprio colle stesse parole, perchè non avevo sotto gli occhi un certo libricciuolo di Emilio Castelar,—io volgeva in mente entrando in Aragona. E per prima cosa mi si offerse agli occhi, sulla riva della Cinca, il piccolo villaggio di Monzon, noto per famose assemblee delle Cortes, e per alternati assalti e difese di Spagnuoli e Francesi: sorte che fu comune, durante la guerra d'indipendenza, a quasi tutti i villaggi di quelle provincie. Monzon è prostrato ai piedi d'un formidabile monte, sul quale s'innalza un castello nero, sinistro, enorme, quale avrebbe potuto immaginarlo il più fosco dei feudatarii per condannare a una vita di terrore il più odiato dei villaggi. La stessa Guida si arresta davanti a codesto mostruoso edifizio, e prorompe in un'esclamazione di timida meraviglia. Non v'è, io credo, in tutta la Spagna, un altro villaggio, un altro monte, un altro castello, che rappresentino meglio la paurosa sommessione d'un popolo oppresso, e la minaccia perpetua d'un signore feroce. Un gigante che prema il ginocchio sul petto d'un fanciullo steso a terra, è una meschina similitudine per dare un'immagine della cosa; e tale fu l'impressione che mi fece, che, pur non sapendo tenere in mano la matita, m'ingegnai di abbozzare alla meglio il paesaggio, perchè non mi uscisse dalla memoria; e mentre scarabocchiavo, mi venne fatto il primo verso d'una ballata lugubre.
Dopo Monzon, la campagna aragonese non è che vaste pianure, chiuse in lontananza da lunghe catene di colline rossastre, con pochi miseri villaggi, e qualche colle solitario su cui nereggiano le rovine d'un castello antico. L'Aragona, già sì fiorente sotto i suoi Re, è ora una delle provincie più povere della Spagna. Solamente sulla sponda dell'Ebro, e lungo il canale famoso che si stende da Tudela, per diciotto leghe, fin presso Saragozza, e serve insieme all'irrigazione dei campi e al trasporto delle derrate, ha un po' di vita il commercio; nelle altre parti langue, od è morto. Le stazioni della strada ferrata sono deserte: quando il treno si ferma, non si sente altra voce che quella di qualche vecchio trovatore, che strimpella la chitarra, canterellando una canzone monotona, che si riode poi in tutte le altre stazioni, e in seguito nelle città aragonesi, variate le parole, eternamente uguale il motivo. Non essendoci che vedere fuori del finestrino, mi rivolsi ai compagni di viaggio.
Il carrozzone era pieno di gente; e siccome i carrozzoni di seconda classe, in Spagna, non hanno scompartimenti, eravamo quaranta fra viaggiatori e viaggiatrici, visibili tutti uno all'altro: preti, monache, ragazzi, serve, e altri personaggi che potevano essere negozianti, o impiegati, o agenti segreti di Don Carlos. I preti fumavano, come è uso in Ispagna, il loro cigarrito, offerendo amabilmente ai vicini la scatola da tabacco e le cartoline; altri mangiavano a due palmenti, facendosi passare l'uno all'altro una specie di vescica che, compressa con ambe le mani, mandava uno schizzo di vino; altri leggevano il giornale corrugando tratto tratto le sopracciglia in atto di profonda meditazione. Uno spagnuolo, quand'è in compagnia, non si mette in bocca uno spicchio d'arancio, o una fetta di formaggio, o un boccone di pane, se prima non ha pregato tutti di mangiare con lui; e per questo io mi vidi passar sotto il naso frutta, e pani, e sardelle, e bicchieri di vino, e che so io, accompagnato ogni cosa da un gentile: “Gusta Usted comer[1] conmigo?” al quale risposi: “Gracias,” a contracorpo (è la parola che ci va) perchè avevo una fame da conte Ugolino. Davanti a me, proprio co' piedi contro i miei, c'era una monaca, giovane, a giudicarne dal mento, ch'era quel po' di viso che appariva sotto il velo, e da una mano che lasciava come abbandonata sur un ginocchio. Io le tenni gli occhi addosso per più d'un'ora, sperando che alzasse il viso; ma rimase immobile come una statua. Eppure dal suo atteggiamento era facile accorgersi che faceva uno sforzo per resistere alla naturalissima curiosità di guardarsi intorno; e per questo appunto mi destò un sentimento d'ammirazione.—Che costanza!—pensavo,—che vigore di volontà! che forza di sacrifizio, anche nelle più piccole cose! che nobile disprezzo delle vanità umane!—Stando in questi pensieri, chinai gli occhi sulla sua mano,—era una bianca e piccola mano—e mi parve di vederla muovere; guardo meglio, e vedo che si allunga adagio adagio fuor della manica, e allarga le dita, e si appoggia sul ginocchio un po' avanti, così, in modo da spenzolare, e si rigira un po' da un lato, e si raccoglie e si ridistende... Dei del cielo! Altro che disprezzo delle vanità umane! Era impossibile ingannarsi: tutto quel lavorìo era fatto per mettere in mostra la manina! E non alzò una volta la testa in tutto il tempo che rimase là, e non lasciò vedere il viso neanco quando scese! Oh imperscrutabile profondità dell'anima femminile!
Era scritto che in quel viaggio non dovessi incontrar altri amici che i preti. Un vecchio sacerdote, di aspetto benevolo, mi diresse la parola, e cominciammo una conversazione che durò fin quasi a Saragozza. Da principio, quando gli dissi ch'ero italiano, stette un po' sospeso, pensando forse ch'io potevo esser uno di quelli che avean scassinato le serrature del Quirinale; ma avendogli detto che non m'occupavo di politica, si rasserenò, e parlò con piena fiducia. Si cascò nella letteratura; io gli dissi tutta la Pentecoste del Manzoni, che lo fece andare in visibilio; egli a me una poesia del celebre Luis de Leon, poeta sacro del secolo decimosesto; e diventammo amici. Quando giungemmo a Zoera, penultima stazione per arrivare a Saragozza, s'alzò, mi salutò, e posto il piede sul montatoio, si voltò improvvisamente e mi susurrò nell'orecchio: “Cuidado (prudenza) con las mujeres, que tienen muy malas consecuencias en España.” Poi scese e si fermò per veder partire il treno, e alzando una mano in atto di paterna ammonizione, disse ancora una volta: “Cuidado!”
Arrivai a Saragozza a notte avanzata, e scendendo, mi colpì subito l'orecchio la cadenza particolare colla quale parlavano i vetturini, i facchini e i ragazzi, che si disputavano la mia valigia. In Aragona si può dir che si parla il castigliano, anche dal popolo minuto, benchè con qualche storpiatura e qualche barbarismo; ma allo spagnuolo delle Castiglie basta una mezza parola per riconoscere l'aragonese; e non c'è castigliano infatti, che non sappia imitare quell'accento, e non lo metta, all'occasione, in ridicolo, per quello che ha di rozzo e di monotono, presso a poco come si fa in Toscana della parlata di Lucca.
Entrai nella città con un certo sentimento di trepida riverenza; la terribile fama di Saragozza me ne imponeva; quasi mi mordeva la coscienza di averne tante volte profanato il nome nella scuola di Rettorica, quando lo gettavo in volto, come un guanto di sfida, ai tiranni; le strade eran buie; non vedevo che il nero contorno dei tetti e dei campanili sul cielo stellato; non sentivo che il rumore delle diligenze degli alberghi che si allontanavano. A certe svoltate, mi pareva di veder luccicare alle finestre canne di fucile e pugnali, e di udir grida lontane di feriti. Avrei dato non so quanto perchè spuntasse il giorno, per cavarmi la vivissima curiosità che mi stimolava, di visitar ad una ad una quelle strade, quelle piazze, quelle case famose per lotte disperate e uccisioni orrende, ritratte da tanti pittori, cantate da tanti poeti, e sognate da me tante volte prima di partire d'Italia, ripetendomi con gioia:—Le vedrai!—Giunsi finalmente al mio albergo, guardai fisso il cameriere che mi condusse alla camera, sorridendogli amorevolmente come per dire:—Non sono un invasore, risparmiami!—e data un'occhiata a un gran ritratto di Don Amedeo appeso alla parete del corridoio, in un canto, a particolare conforto dei viaggiatori italiani, andai a letto, chè cascavo di sonno come uno qualunque dei miei lettori.
Allo spuntar del giorno mi precipitai fuori dell'albergo. Non c'era ancor nè botteghe, nè porte, nè finestre aperte; ma non appena misi il piede nella strada, mi scappò un mezzo grido di stupore. Passava una brigatella di uomini così stranamente vestiti, che io credetti a prima vista che fossero mascherati; e poi pensai: no, son comparse di teatro; e poi ancora: no, neppure, sono matti. Figuratevi: per cappello, un fazzoletto rosso annodato intorno al capo, a modo di cércine, dal quale uscivano sopra e sotto i capelli arruffati; una coperta di lana a striscie bianche e azzurre, indossata a guisa di mantello, ampia, cadente fin quasi a terra, come una toga romana; una larga fascia azzurra intorno alla vita; un paio di calzoncini corti, di velluto nero, stretti intorno al ginocchio; le calze bianche; una specie di sandali a nastri neri incrociati sul dosso del piede; e in questa artistica varietà di vestimento, l'impronta evidente della miseria; e con quest'evidenza di miseria, un non so che di teatrale, di altero, di maestoso nel portamento e nei gesti, un'aria da Grandi di Spagna decaduti, che mette in dubbio, al vederli, se s'abbia da ridere o da compiangere, da metter la mano alla borsa per fare un'elemosina o da levarsi il cappello in segno di riverenza. E non son altro che contadini dei dintorni di Saragozza. Ma quella che ho accennato non è che una delle mille varietà della stessa foggia di vestire. Andando oltre, ad ogni passo ne incontrai una nuova: vi sono i vestiti all'antica, i vestiti alla moderna, gli eleganti, i semplici, i festivi, i severi, ognuno con ciarpe, fazzoletti, calze, cravatte, panciotti di colori diversi; le donne colla crinolina, e le sottane corte, che lascian vedere un po' di gamba, e i fianchi spropositatamente rialzati; i ragazzi anch'essi col loro manto a striscie e la loro pezzuola intorno al capo, e i loro atteggiamenti drammatici, come gli uomini. La prima piazza sulla quale riuscii era piena di questa gente, divisa in gruppi, chi seduto sugli scalini delle porte, chi appoggiato agli angoli delle case, qualcuno sonando la chitarra, altri cantando; molti in giro a chieder l'elemosina, coi panni rappezzati e laceri, ma pur colla testa alta e l'occhio fiero; parevan gente usciti allora allora da un veglione, dove avessero rappresentato tutti insieme una tribù selvaggia di qualche ignoto paese. A poco a poco si apersero le botteghe e le case, e il popolo saragozzano si sparse per le strade. I cittadini, nel vestire, non han nulla di diverso da noi; ma sì qualcosa di particolare nei volti; alla serietà degli abitanti della Catalogna, uniscono l'aria sveglia degli abitanti delle Castiglie, avvivata ancora da un'espressione di fierezza tutta propria del sangue aragonese.
Le strade di Saragozza hanno un aspetto severo, quasi tristo, com'io me lo immaginava prima di vederle. Fuori del Coso, che è una larga strada che attraversa una buona parte della città descrivendo una grande curva semicircolare,—il Coso anticamente famoso per le corse, le giostre e i tornei che vi si celebravano nelle pubbliche feste,—fuori di questa bella ed allegra strada, e d'alcune poche recentemente rifatte, che paion strade di città francese, le altre son strette, tortuose, fiancheggiate da case alte, di color cupo, di scarse finestre, somiglianti a vecchie fortezze. Son strade che hanno una impronta, un carattere, o come altri dice, una fisonomia loro propria, che vista una volta, non si dimentica più; per tutta la nostra vita, quando si sentirà nominar Saragozza, si vedranno quelle mura, quelle porte, quelle finestre, come se si avessero dinanzi. Io vedo in questo punto la piazza della Torre nuova, e potrei disegnar casa per casa, e colorirle tutte, ciascuna col suo colore; e mi par di respirare quell'aria, tanto son vive le immagini; e ripeto quello che dissi allora:—Questa piazza è tremenda.—Perchè? non lo so; sarà stata un'illusione mia; segue delle città come dei volti, che ciascuno ci legge a modo suo; le strade e le piazze di Saragozza mi fecero codesto senso; ad ogni svoltata, dicevo:—Questo luogo par fatto per combattervi;—e guardavo intorno, come se ci mancasse qualcosa: una barricata, le feritoie, i cannoni. Riprovavo tutta la profonda commozione che m'avevan data i racconti dell'orribile assedio, e vedevo proprio la Saragozza del 1809, e correvo di strada in strada con una curiosità crescente, come per trovare le traccie di quella lotta titanica che ha atterrito il mondo. Qui, pensavo, accennando a me stesso la via, dev'esser passata la divisione Grandjean, di là sboccò forse la divisione Musnier, di costì si sarà lanciata al combattimento la divisione Morlot; avanti, fino alla cantonata: mi pare che qui sia seguito l'assalto dei volteggiatori della Vistola; ancora un giro: qui fecero impeto i volteggiatori polacchi; laggiù furon trucidati trecento spagnuoli; in questo punto scoppiò la gran mina che fece saltar in aria una compagnia del reggimento di Valenza; in quell'angolo morì il generale Lacoste colpito da una palla nella fronte. Ecco le strade famose di Santa Engracia, di Santa Monica, di Sant'Agostino, per le quali i Francesi s'avanzarono verso il Coso, di casa in casa, a furia di mine e di contrammine, tra i rottami dei muri enormi e le travi fumanti, sotto una tempesta di palle, di mitraglia e di sassi; ecco i trivii, le piazzuole, gli angiporti oscuri, dove si combatterono le orrende battaglie corpo a corpo, a colpi di baionetta, a pugnalate, a falciate, a morsi; le case asserragliate, difese stanza per stanza, tra le fiamme e il rovinío; le anguste scale che corsero sangue, i tristi cortili che echeggiarono di grida di dolore e di disperazione, che furon coperti di cadaveri sfracellati, che videro tutti gli orrori della peste, della fame, della morte!
Di strada in strada riuscii davanti alla chiesa di Nuestra Señora del Pilar, la terribile Madonna, alla quale veniva a chieder protezione e coraggio la squallida folla dei soldati, dei cittadini, delle donne, prima d'andar a morire sulle breccie. Il popolo di Saragozza ha conservato per essa il fanatismo antico, e la venera con sentimento particolare di amoroso terrore, vivo anche nell'animo della gente alla quale è straniero ogni altro sentimento religioso. Però da quando entrate nella piazza, e alzate gli occhi verso la chiesa, fin al momento che, andando via, vi voltate a guardarla per l'ultima volta, badate a non sorridere, o a fare per distrazione un atto qualunque che possa parere irriverente; chè c'è chi vi vede, e vi tien d'occhio, e all'occorrenza vi segue. E se in voi è morta la fede, preparate l'animo, prima di varcare la soglia sacra, a un confuso risvegliarsi dei terrori infantili, chè poche chiese al mondo hanno come questa la virtù di risvegliarli nei cuori più gelidi e più forti.
La prima pietra di Nostra Donna del Pilar, fu posta nel 1686 in un luogo dove sorgeva una cappella innalzata da san Giacomo per deporvi l'immagine miracolosa della Vergine che vi è tuttora. È un immenso edifizio di base rettangolare, sormontato da undici cupole, coperte di tegole variopinte, che gli danno una graziosa aria moresca; le mura disadorne e di color cupo. Entrate: è una vasta chiesa, oscura, nuda, fredda, divisa in tre navate, circondata di cappelle modeste. Lo sguardo corre subito al santuario che sorge nel mezzo: là è la statua della Vergine. È come un tempio nel tempio, che potrebbe star solo in mezzo alla piazza, se si abbattesse l'edifizio che lo circonda. Una corona di belle colonne di marmo, disposte ad elissi, sorreggono una cupola riccamente scolpita, aperta nella parte superiore, e ornata intorno all'apertura di ardite figure d'angeli e di santi. Nel mezzo è l'altar maggiore; a destra l'immagine di san Giacomo; a sinistra, in fondo, sotto un baldacchino d'argento che spicca sur un'ampia tenda di velluto tempestato di stelle, in mezzo al luccichío di migliaia di voti, al chiarore d'innumerevoli lampade, la statua famosa della Vergine, postavi or sono diciannove secoli da san Giacomo, scolpita in legno, annerita dal tempo, tutta coperta, tranne il capo suo e quello del bambino, da una splendida dalmatica; e sul dinanzi, tra le colonne, intorno al santuario, e lontano, in fondo alle navate della chiesa, in tutti i punti di dove lo sguardo può giungere all'immagine venerata, fedeli inginocchiati, prostrati, col capo quasi a terra, colle mani in croce: donne del popolo, operai, signore, soldati, fanciulli; e dalle varie porte della chiesa un continuo venir di gente a passi lenti, in punta di piedi, con gravi aspetti; e in quel profondo silenzio non un mormorío, non un fruscío, non un respiro; la vita di quella folla pare sospesa; par che s'attenda da tutti un'apparizione divina, una voce misteriosa, una qualche rivelazione tremenda da quell'arcano Santuario; e anche chi non crede e non prega, è forzato a fissare lo sguardo dove si fissan tutti gli sguardi, e il corso dei suoi pensieri s'arresta in una specie d'inquieta aspettazione. Oh suonasse pur quella voce! io pensavo; seguisse pure l'apparizione; e fosse anche una parola o una vista che mi facesse incanutire dallo spavento e gettare un urlo non udito mai sulla terra; purchè mi liberasse per sempre da questo orribile dubbio che mi rode il cervello e mi contrista la vita!