Читать книгу Spagna - Edmondo De Amicis - Страница 6
ОглавлениеTentai d'entrar nel Santuario, non ci riuscii; avrei dovuto passare sulle spalle d'un centinaio di fedeli, qualcuno dei quali cominciava già a guardarmi in cagnesco perchè andavo attorno con un quaderno e una matita fra le mani. Cercai di scendere nella critta sotterranea ove son le tombe degli arcivescovi e l'urna che racchiude il cuore del secondo don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Filippo IV; non mi fu concesso. Domandai di vedere le vestimenta, gli ori, le gemme, che profusero ai piedi della Vergine i grandi, i principi, i monarchi d'ogni età e d'ogni paese; mi fu risposto che non era l'ora opportuna, e neanco mostrando una luccicante peceta potei corrompere l'onesto sacrestano. Ma non rifiutò di darmi alcune notizie intorno al culto della Vergine quando gli dissi, per entrargli in grazia, ch'ero nato a Roma, nel Borgo Pio, e che dal terrazzino di casa mia si vedevan le finestre dell'appartamento del Papa.
“È un fatto,” mi disse, “quasi miracoloso, e che non si crederebbe, se non fosse attestato dalla tradizione, che dal tempo antichissimo quando fu posta sul piedistallo la statua della Vergine, fino al giorno in cui viviamo, tranne la notte che la chiesa è chiusa, il santuario non rimase vuoto un momento, un momento solo, in tutto il rigore della parola. Nuestra Señora del Pilar non è mai stata sola. Nel piedistallo della statua, a furia di baci, s'è fatto un incavo nel quale può entrar la mia testa. Neanco gli Arabi non ebbero il coraggio di proibire il culto di Nuestra Señora: la cappella di San Giacomo fu sempre rispettata. È caduto molte volte il fulmine nella chiesa, accanto al santuario, e anche dentro, in mezzo alla gente affollata: ebbene, neghino le anime dannate la protezione della Madonna: non è mai sta-to col-pi-to nes-su-no! E le bombe dei Francesi? Ne hanno ben bruciati e rovinati degli edifizi; ma a cadere sulla chiesa di Nuestra Señora gli era come se cadessero sulle rocce della Serra Morena. E ai Francesi che fecero man bassa in ogni parte, gli è bastato il fegato di toccare i tesori di Nuestra Señora? Un solo generale si permise di prendere un gingillo per fare un regalo a sua moglie, offerendo in compenso alla Vergine un ricco donativo; ma sa che cosa gli è seguito? Alla prima battaglia una palla di cannone gli portò via una gamba. Non c'è barba di generale o di re che ne abbia mai imposto a Nuestra Señora. E poi è scritto lassù che questa chiesa durerà fino alla fine del mondo....” E tirò innanzi su questo tenore, fin che un prete da un angolo buio della sagrestia gli fece un cenno misterioso, e allora mi salutò e disparve.
All'uscir dalla chiesa, colla mente tutta occupata dall'immagine del solenne santuario, incontrai una lunga fila di carri carnevaleschi, preceduti da una banda musicale, accompagnati dalla folla e seguìti da un gran numero di carrozze, che andavano verso il Coso. Non ricordo d'aver mai visto testoni di cartapesta più grotteschi, più buffi, più spropositati di quelli che portavan quelle maschere; così che solo com'ero, e punto inchinevole all'allegrezza, non potei trattenermi dal ridere, come alla chiusa d'un sonetto del Fucini. Il popolo però era serio e silenzioso, e le maschere piene di gravità; si sarebbe detto che negli uni e negli altri era più forte il malinconico presentimento della quaresima che il giubilo fugace del carnevale. Vidi qualche bel visetto alle finestre; ma nessun tipo ancora di quella bellezza propriamente detta spagnuola, dalla tez oscurecida e da los negros ojos de fuego, che il Martinez della Rosa, esule a Londra, rammentava con sì caldi sospiri in mezzo a las bellezas del Norte. Passai tra due carrozze, fendetti la calca, tirandomi dietro qualche sacrato che notai subito sul mio quaderno; e traversate alla lesta due o tre stradicciuole, riuscii sulla piazza di San Salvador, davanti alla cattedrale che le dà il nome, chiamata anche la Seo, più ricca e più splendida di Nostra Donna del Pilar.
La facciata greco-romana, benchè di maestose proporzioni, e la torre alta e leggera, non preparano allo spettacolo grandioso del di dentro. Entrai, e mi trovai immerso nelle tenebre; per un istante, i confini dell'edifizio mi restaron celati; non vidi altro che qualche sprazzo di pallida luce, rotto qua e là dalle colonne e dagli archi. Poi, a poco a poco, distinsi cinque navate, divise da quattro ordini di bei pilastri gotici, i muri lontani, e la lunga serie delle cappelle laterali, e rimasi attonito. Era la prima cattedrale che corrispondeva all'immagine ch'io m'ero formato delle cattedrali spagnuole, varie, pompose, straricche. La cappella maggiore, sormontata da una vasta cupola gotica in forma di tiara, racchiude in sè sola le ricchezze d'una gran chiesa; l'altar maggior è d'alabastro, coperto di rosoni, di volute, di rabeschi; la volta ornata di statue; a destra e a sinistra, tombe ed urne di principi: in un angolo la scranna sulla quale siedevano i Re d'Aragona per ricevere la consacrazione. Il coro, che sorge in mezzo alla navata principale, è un monte di tesori. La sua cinta esteriore, nella quale sono aperte alcune piccole cappelle, presenta una incredibile varietà di statuette, di colonnine, di bassorilievi, di fregi, di pietre, da dover star là una giornata per poter dire d'aver visto qualcosa. I pilastri delle due ultime navate, e gli archi che s'incurvano sulle cappelle, sono sopraccarichi, dalla base alla volta, di statue,—alcune enormi che par reggan sulle spalle l'edifizio,—di emblemi, di sculture e d'ornamenti d'ogni forma e d'ogni grandezza. Nelle cappelle una profusione di statue, di ricchi altari, di tombe regie, di busti, di quadri, che immersi come sono in una mezza oscurità, non offrono allo sguardo che una confusione di colori, di luccichii, di forme vaghe, tra le quali l'occhio si perde, e l'immaginazione si stanca. Dopo molto correre di qua e di là, col quaderno aperto e la matita in mano, notando e disegnando, mi s'ingarbugliò la testa, stracciai i fogli rabescati, promisi a me stesso che non avrei scritto nulla di nulla, uscii dalla chiesa, e mi rimisi a girar per la città, senza veder altro, per lo spazio d'una mezz'ora, che lunghe navate oscure, e statue biancheggianti in fondo a cappelle misteriose.
V'hanno dei momenti in cui il viaggiatore più gaio e più appassionato, girando per le strade d'una città sconosciuta, viene assalito improvvisamente da un così profondo senso di noia che se potesse, per virtù d'una parola, rivolare a casa tra i suoi, colla rapidità d'un genio delle Mille e una notte, proferirebbe quella parola con uno slancio di allegrezza. Fui colto da un cotal senso nel punto che infilavo non so che stradicciuola lontana dal centro della città; e n'ebbi quasi spavento. Richiamai in fretta alla mente le immagini di Madrid, di Siviglia, di Granata, per scuotermi, per riaccendermi la curiosità, il desiderio: quelle immagini mi parvero pallide e senza vita. Mi riportai col pensiero a casa, ai giorni prima della partenza, quando avevo la febbre, e non vedevo l'ora di spiccare il volo: e quel pensiero non fece che accrescermi la tristezza. L'idea di aver a vedere ancora tante città nuove, di aver da passar tante notti negli alberghi, di avermi a trovare per tanto tempo in mezzo a gente straniera, mi scoraggiò; mi domandai come mi fossi potuto risolvere a partire; mi parve d'essermi tutt'a un tratto allontanato sterminatamente dal mio paese, d'esser in mezzo a un deserto, solo, dimenticato da tutti, mi guardai intorno, la strada era solitaria, mi prese freddo al cuore, mi vennero quasi le lacrime agli occhi:—Io non posso star qui!—dissi tra me.—Io muoio di malinconia! Voglio tornare in Italia io!—Non avevo finito di dir queste parole che poco mancò non dessi in una risata da matto; in un momento ogni cosa riprese vita e splendore ai miei occhi; pensai alle Castiglie e all'Andalusia con una sorta di gioia frenetica, e scrollando il capo in atto di pietà per quel passeggero sconforto, accesi un sigaro, e tirai via più allegro di prima.
Era il penultimo giorno di carnevale; per le strade principali, verso sera, si vedeva un via vai di maschere, di carrozze, di brigatelle di giovani, di grosse famiglie con bambini, bambinaie, e ragazze da marito, a due a due; ma nessun strepito rincrescevole, nè squarciati canti di ubbriachi, nè serra serra importuni. Di tratto in tratto, si sentiva qualche leggero colpo di gomito, ma leggero assai, da parer il cenno d'un amico che volesse dire:—Son qui,—piuttosto che l'urto d'uno sbadato; e col colpo di gomito, certi suoni di voci tanto più soavi delle grida che gettavano le saragozzane antiche dalle finestre delle case crollanti, e tanto più ardenti dell'olio bollente che versavano sugli invasori! Oh non erano più quei tempi dei quali mi parlò pochi giorni sono, a Torino, un vecchio prete saragozzano, assicurandomi di non aver ricevuto, in sette anni la confessione d'un peccato mortale!
La sera, all'albergo, trovai un capomatto di francese che credo non abbia mai avuto l'uguale sotto la cappa del cielo. Era un uomo sulla quarantina, con uno di quei visi di pasticciano che dicono:—Son qui, gabbatemi;—negoziante, da quanto mi parve, agiato, il quale era giunto poco innanzi da Barcellona, e doveva ripartire il giorno dopo per San Sebastiano. Lo trovai nella sala da pranzo, che raccontava i fatti suoi a un crocchio di viaggiatori, i quali scoppiavano dalle risa. Mi cacciai nel crocchio, e sentii la storia anch'io. Costui era nativo di Bordeaux, e viveva da quattro anni a Barcellona. Aveva abbandonato la Francia, perchè gli era fuggita la moglie, insalutato ospite, avec le plus vilain homme de la ville, lasciandogli sulle braccia quattro ragazzi. Dal giorno della fuga non ne aveva più avuto notizia; chi gli aveva detto che era andata in America, chi in Asia, chi in Affrica; ma erano state tutte congetture senza fondamento; da quattro anni egli la considerava come morta. Un bel giorno, a Barcellona, trovandosi a desinare con un suo amico marsigliese, questi gli disse (ma bisognava vedere con che comica dignità esponeva la cosa) gli disse: “Amico, uno di questi giorni voglio andare a San Sebastiano.”—“A che fare?”—“A spassarmela.”—“Amorucci, eh?”—“Sì,... cioè... dirò: un amore propriamente non è, perchè a me, in amore, non mi piace far coda: è un capriccietto. Bella donnina, però! To', non più tardi d'ier l'altro ho ricevuto una lettera; non avevo voglia d'andare; ma c'è tanti vieni, e t'aspetto, e amico mio, e amico caro, che mi son lasciato tentare.” Così dicendo, gli porse la lettera facendo una smorfia di vanagloria dongiovannesca. Il negoziante la prende, l'apre, la scorre: “Nom de Dieu! Ma femme!” e senza dir altro pianta l'amico, corre a casa a pigliar la valigia, e via alla stazione. Quando entrai nella sala, aveva già mostrato la lettera a tutti i presenti, e steso sulla tavola, perchè ognuno li potesse vedere, la sua fede di battesimo, l'atto matrimoniale, ed altre carte che aveva portate con sè per il caso che sua moglie non lo volesse riconoscere. “Che cosa le volete fare?” gli domandarono tutti ad una voce. “Je ne lui ferai pas de mal; j'ai déjà pris mon parti; il n'y aura pas de sang; mais ce sera un châtiment plus terrible encore.”—“Ma che cosa adunque?” domandarono gli uditori. “J'ai déjà pris mon parti,” ripetè il francese colla più grande serietà, e tirato fuori dalla tasca un paio di forbici enormi, soggiunse solennemente: “Je vais lui couper les cheveux et les sourcils!” Tutti diedero in uno scoppio di risa. “Messieurs!” gridò l'offeso marito; “je le dis et je tiendrai ma parole; si j'ai le bonheur de vous retrouver ici, je me ferai un devoir de vous présenter sa perruque.” Qui seguì un diavolío di risa, di voci, d'applausi, senza che il Francese spianasse neanco un momento il suo tragico cipiglio. “Ma se le trovaste uno Spagnuolo in casa?” gli domandò uno. “Je le ferais sauter par la fenêtre!” rispose. “Ma se fossero molti?”—“Tout le monde par la fenêtre!”—“Ma farete uno scandalo, accorreranno i vicini, i carabinieri, il popolo!”—“Et moi....” gridò il terribile uomo, battendosi una mano nel petto, “je ferai sauter par la fenêtre les voisins, les gendarmes, le peuple, et la ville entière, s'il le faut.” E tirò via a sbravazzare su questo tono, gesticolando con la lettera da una mano, e le forbici dall'altra, in mezzo alle risa sgangherate dei viaggiatori. Vivir para ver, vivere per vedere, dice il proverbio spagnuolo; e dovrebbe dir meglio viajar, viaggiare, chè certi originali par che s'incontrino solamente negli alberghi e sulle strade ferrate. Chi sa come sarà andata a finire!
Entrando nella mia camera, domandai al cameriere chi fossero due cosi che avevo osservato fin dalla sera prima, appesi alla parete, che mostravano d'aver non so qual pretensione di passare per due ritratti. “Caramba!” mi rispose “nada menos que los hermanos Argensola,” aragonesi, nativi di Barbastro, “dos de los mas afamados poetas de España!” (Afamados per chi non lo sappia non vuol dire famelici, ma famosi.) E furono tali davvero i due fratelli Argensola, due veri gemelli letterarii, che ebbero la stessa indole, studiarono le stesse cose, scrissero nel medesimo stile, puro, sobrio, forbito, facendo argine con tutte le loro forze al torrente del cattivo gusto che cominciava ad invadere, ai loro tempi, sulla fine del secolo decimosesto, la letteratura spagnuola. L'uno morì a Napoli, segretario di Stato del Vicerè, l'altro a Tarragona, prete; e lasciarono tutti e due una fama onorata e cara, alla quale il Cervantes e il Lopez de Vega apposero lo splendido suggello della loro lode. I sonetti degli Argensola sono annoverati tra i più belli della letteratura spagnuola, per argutezza di pensiero e nobiltà di forma; e poichè ve n'è uno, di Lupercio Leonardo, che si sa a memoria da tutti e del quale i ministri citano spesso la chiusa per rispondere alle magniloquenti filippiche degli oratori della sinistra; lo metto qui colla speranza che potrà servire a qualcuno dei lettori per rimbeccare gli amici quando gli facessero rimprovero d'essersi innamorato, come il poeta, d'una donna che si dà il belletto.
«Yo os quiero confesar, don Juan, primero
Que aquel blanco y carmin de doña Elvira
No tiene de ella mas, si bien se mira,
Que el haberle costado su dinero:
Pero tambien que me confieses quiero
Que es tanta la beldad de su mentira,
Que en vano à competir con ella aspira
Belleza igual de rostro verdadero.
Mas que mucho que yo perdido ande
Por un engaño tal, pues que sabemos
Que nos engaña asi naturaleza?
Porque ese cielo azul que todos vemos
No es cielo, ni es azul: ¡làstima grande
Que no sea verdad tanta belleza!»
(Prima di tutto vi voglio confessare, o signor Giovanni, che quel bianco e carminio di donna Elvira non ha di suo che il denaro che le è costato; ma voglio che voi mi confessiate alla vostra volta esser siffatta la bellezza della sua finzione, che nessuna bellezza simile di volto vero potrebbe competere con essa. Ma che vale ch'io mi dia pensiero di tale inganno, se si sa che nello stesso modo c'inganna la natura? E infatti, quel cielo azzurro che tutti vediamo, non è nè cielo nè azzurro.... Peccato che non sia verità tanta bellezza!)
La mattina dopo mi volli procurare un piacere somigliante a quello che provava il Rousseau tenendo dietro al volo delle mosche; il piacere di errare per la città, alla ventura, fermandomi a guardare le cose più insignificanti, come si fa per la strada di casa nostra, quando si aspetta un amico. Visitati alcuni edifizi pubblici, tra i quali il palazzo della Borsa, che ha una stupenda sala formata da ventiquattro colonne, ornata ciascuna di quattro scudi coll'arma di Saragozza, sovrapposti alle quattro faccie del capitello; visitata l'antica chiesa di Santiago e il bel palazzo dell'Arcivescovado, m'andai a piantare in mezzo alla vasta ed allegra piazza della Costitucion, che divide in due il Coso, e riceve altre due delle principali strade della città; e di là presi le mosse, e bighellonai fino a mezzogiorno con un gusto infinito. Ora sostavo a guardare un ragazzo che giocava a nocíno, ora davo una capatina da curioso in un piccolo caffè da scolari, ora rallentavo il passo per sentire le ciancie di due serve a una cantonata, ora andavo a mettere il naso contro le vetrine d'un libraio, ora entravo a far ammattire una tabaccaia chiedendo dei sigari in tedesco, ora mi fermavo a intavolar conversazione con un rivenditore di fiammiferi, qui compravo un giornaletto, lì chiedevo del fuoco a un soldato, là domandavo la strada a una ragazza, e intanto ruminavo versi dell'Argensola, cominciavo sonetti faceti, canterellavo l'inno di Riego, pensavo a Firenze, al vin di Malaga, agli avvertimenti di mia madre, al Re Amedeo, alla mia borsa, a mille cose, a nessuna; e non avrei cangiato la mia sorte con quella d'un grande di Spagna.
Verso sera andai a vedere la Torre nuova, che è uno dei più curiosi monumenti di Spagna. È alta ottantaquattro metri,—quattro più della torre di Giotto,—e inchinata di quasi due metri e mezzo, tutta intera, come la torre di Pisa. Fu innalzata nel 1304; chi afferma che fu fatta così, chi crede che siasi inchinata poi; le opinioni sono diverse. È di forma ottagonale, e tutta costrutta di mattoni; ma presenta una varietà mirabile di disegno e d'ornamenti, un aspetto diverso a ogni piano, un misto grazioso di gotico e di moresco. Per entrare, dovetti andar a domandare il permesso a non so quale impiegato del Municipio, che abita là vicino; il quale, dopo aver guardato attentamente la punta dei miei stivali e il ciuffo dei miei capelli, diede le chiavi al custode, e mi disse: “Puede Usted ir.” Il custode era un vecchietto vigoroso che salì le interminabili scale con assai maggior speditezza di me. “Verá Usted,” mi diceva: “Verá Usted que magnífico golpe de vista!”—Io gli dissi che anche noi Italiani avevamo una torre inclinata, come quella di Saragozza; egli si voltò a guardarmi e rispose secco: “La nuestra es unica en el mundo.”—“Oh cospetto! Vi dico che n'abbiamo una anche noi, e che l'ho vista coi miei occhi, a Pisa, e poi, se non volete credere, leggete qui, lo dice anche la Guida.”—Diede un'occhiata e brontolò: “Puede ser.”—Può essere!—Vecchio cocciuto! Gli avrei dato il libro sul capo. Finalmente arrivammo sulla cima. È uno stupendo spettacolo. Saragozza si abbraccia tutta con uno sguardo: la grande strada del Coso, il passeggio di Santa Engracia, i sobborghi; e lì sotto, che par di poterle toccare, le cupole colorite di Nostra Donna del Pilar; un po' più in là l'ardita torre della Seo; più oltre l'Ebro famoso, che gira attorno alla città con una curva maestosa, e l'ampia valle, innamorata, come dice il Cervantes, della chiarezza delle sue acque e della gravità del suo corso; e la Huerba, e i ponti, e i poggi, che ricordano tanti scontri sanguinosi e disperati assalti!
Il custode mi lesse sul volto i pensieri che mi attraversavan la mente, e come proseguendo un discorso da me incominciato, prese ad accennarmi i punti per dove erano entrati i Francesi, e dove i cittadini avevano opposto le più gagliarde resistenze. “Non furono le bombe dei Francesi,” mi disse, “che ci fecero arrendere; noi stessi bruciavamo le case, e le facevamo saltare in aria colle mine; fu l'epidemia. Negli ultimi giorni più di quindicimila uomini dei quarantamila che difendevan la città eran negli ospedali; non si aveva più tempo per raccogliere i feriti e per sotterrare i morti; le rovine delle case erano coperte di cadaveri putrefatti che ammorbavano l'aria; un terzo degli edifizi della città eran distrutti; eppure nessuno parlava d'arrendersi; e chi ne avesse parlato, era stato innalzato apposta un patibolo in tutte le piazze, sarebbe stato ucciso; volevamo morire sulle barricate, nel fuoco, sotto i rottami delle nostre mura, piuttosto che piegare la testa. Ma quando il Palafox si trovò in punto di morte, quando si seppe che i Francesi avevano vinto in altre parti, e che non c'era più alcuna speranza, bisognò porre giù le armi. Ma i difensori di Saragozza si arresero cogli onori della guerra, e quando quella folla di soldati, di contadini, di monaci, di ragazzi, scarni, cenciosi, coperti di ferite, macchiati di sangue, sfilarono davanti all'esercito francese, i vincitori tremarono di riverenza e non ebbero cuore di rallegrarsi della vittoria! L'ultimo dei nostri contadini poteva portar la fronte più alta che il primo dei loro marescialli:—Zaragoza, e dicendo queste parole era splendido, ha escupido en la cara a Napoleon!—(Saragozza ha sputato in viso a Napoleone!)”
Io pensai, in quel momento, alla storia del Thiers, e il ricordo della narrazione ch'egli fa della presa di Saragozza mi destò un sentimento di sdegno. Non una parola generosa per la sublime ecatombe di quel povero popolo! Il loro valore, per lui, non è che fanatismo feroce, o vana manìa guerresca di contadini stanchi della vita uggiosa dei campi, e di monaci ristucchi della solitudine della cella; la loro eroica ostinazione è testardaggine; il loro amor di patria, orgoglio stolto. Essi non morivano pour cet idéal de grandeur che animava il coraggio dei soldati imperiali! Come se la libertà, la giustizia, l'onore d'un popolo, non fossero qualcosa di più grande che l'ambizione d'un Imperatore, che lo fa assalire a tradimento e lo vuol governare colla violenza!... Tramontava il sole, le torri e i campanili di Saragozza erano illuminati dagli ultimi raggi, il cielo era limpidissimo; volsi ancora uno sguardo intorno per imprimermi bene nella memoria l'aspetto della città e della campagna, e prima di voltarmi per scendere, dissi al custode che mi guardava con un'aria di benevola curiosità: “Racconti agli stranieri che verranno a visitare d'ora in avanti la torre, che un giorno, un giovane italiano, poche ore prima di partire per la Castiglia, salutando per l'ultima volta, da questo balcone, la capitale dell'Aragona, s'è scoperto il capo col sentimento del più profondo rispetto, così,—e che non potendo baciare sulla fronte, ad uno ad uno, tutti i discendenti degli eroi del 1809, ha dato un bacio al custode,”—E glielo diedi, e me lo rese, e me n'andai contento, ed egli pure, e rida chi vuole.
Con questo mi parve di poter dire che avevo visto Saragozza, e tornai all'albergo ricapitolando le mie impressioni. Mi restava però una gran voglia di fare un po' di conversazione con qualche buon saragozzano, e dopo desinare andai al caffè, dove trovai subito un capomaestro e un bottegaio, che tra un sorso e l'altro di cioccolatte, mi esposero lo stato politico della Spagna e i mezzi più efficaci
«Di portar la baracca a salvamento.»
La pensavano molto diversamente. L'uno, il bottegaio, ch'era un ometto col naso rincagnato e un grosso bernoccolo tra occhio e occhio, voleva la repubblica federale, senza transazioni, quella sera stessa, prima d'andare a letto; e metteva come condizione sine qua non per la prosperità del nuovo governo, che si fucilasse il Serrano, il Sagasta e lo Zorilla, per convincerli una volta per sempre que no se chanzea con el pueblo español, che non si scherza col popolo spagnuolo. “Y su rey de Ustedes,” concludeva volgendosi verso di me, “al re che ci han mandato loro,—mi perdoni, caro il mio Italiano, la franchezza con cui le parlo,—al loro re un biglietto di prima classe per tornarsene á la hermosa Italia, ove c'è miglior aria per i Re. Somos españoles”—perdoni, caro il mio Italiano e mi metteva una mano sul ginocchio—“somos españoles, e non vogliamo stranieri, nè cotti, nè crudi!”
“Mi pare d'aver capito il suo concetto; e lei,” domandai al capomaestro, “come crede lei che si potrebbe salvar la Spagna?”
“No hay mas que un medio!” rispose con accento solenne; “non v'è che un mezzo! Repubblica federale,—in questo sono d'accordo col mio amico,—ma con Don Amedeo presidente!”—(L'amico scrollò le spalle) “Ripeto: con Don Amedeo presidente! È il sol uomo che possa tener ritta la repubblica; non è soltanto un'opinione mia; è l'opinione di molta gente. Don Amedeo faccia intendere a suo padre che qui colla monarchia non si compiccia nulla; chiami al governo il Castelar, il Figueras, il Pi y Margal; proclami la repubblica, si faccia elegger presidente, e gridi alla Spagna:—Signori, ora comando io, e chi alza le corna, legnate! E allora avremo la vera libertà.”
Il bottegaio, il quale non credeva che la vera libertà consistesse nel pigliarsi delle legnate sulle corna, protestò; l'altro ribattè; il battibecco durò un pezzo. Si venne poi a parlare della Regina; e il capomaestro dichiarò che, sebbene fosse repubblicano, aveva per Donna Vittoria un profondo rispetto e una calda ammirazione. “Tiene mucho (molto) de aquí” disse toccandosi la fronte col dito.—“Es verdad que sabe el griego?”—(È vero che sa il greco?)
“E come!” risposi.
“Hai inteso, eh?” domandò l'altro.
“Sì,” rispose il bottegaio brontolando; “pero no se govierna à España con el griego.”
Concedeva però anche lui che, regina per regina, era a desiderarsi d'averne una dotta e savia, digna de sentarse en el trono de Isabel la Catòlica, la quale, come tutti sanno, conosceva il latino quanto un professore consumato; piuttosto che una di queste regine cervelline che non hanno il capo ad altro che alle feste ed ai favoriti. In una parola, non voleva vedere in Ispagna la casa di Savoia; ma se qualche cosa poteva piegarlo un po' in di lei favore, era il greco della Regina. Che galante repubblicano!
V'è però in codesta gente una generosità di cuore, e un vigore di animo che giustifica la loro onorevole fama. L'aragonese, in Spagna, è rispettato. Il popolo di Madrid che trincia i panni addosso agli Spagnuoli di tutte le provincie, che dà al catalano di rozzo, all'andaluso di vano, al valenziano di feroce, al galiziano di miserabile, al basco d'ignorante, tratta con un po' più di riserbo gli alteri figli d'Aragona, i quali nel secolo decimonono scrissero col proprio sangue la più gloriosa pagina della storia di Spagna. Il nome di Saragozza suona nel popolo come un grido di libertà, e nell'esercito come un grido di guerra. Ma poichè non v'è rosa senza spine, questa nobile provincia è anche un semenzaio di demagoghi inquieti, di capi di guerrillas, di tribuni, di gente di testa calda e di mano ardita, che danno un gran da fare a tutti i Governi. Il Governo deve accarezzar l'Aragona come un figliuolo ombroso e focoso, che se niente niente si picca, è muso da mandare in aria la casa.
L'entrata di re Amedeo in Saragozza, e la breve dimora che vi fece nel 1871, diedero occasione a parecchi fatti, che meritano d'essere raccontati; non solo perchè si riferiscono al Principe, ma perchè sono una eloquente manifestazione del carattere del popolo. E prima d'ogni altra cosa il discorso del Sindaco, del quale s'è fatto tanto scalpore, in Spagna e fuori, e che resterà forse fra le tradizioni di Saragozza come un esempio classico di audacia repubblicana. Il Re arrivò verso sera alla stazione della strada ferrata, dove eran venuti ad aspettarlo, accompagnati da un'immensa folla, i rappresentanti di molti Municipii, e associazioni e corpi militari e civili di varie città d'Aragona. Dopo le solite grida e i soliti applausi, si fece silenzio, e l'alcade di Saragozza, presentatosi al Re, lesse con enfatica voce il seguente discorso:
«Signore! Non è la modesta personalità mia, non è l'uomo di convinzioni profondamente repubblicane; ma bensì l'alcade di Saragozza, investito del sacro suffragio universale, colui che, per un dovere imprescindibile, si presenta a voi, e si mette agli ordini vostri. Voi state per entrare nel recinto d'una città la quale, sazia ormai di gloria, porta il titolo di sempre eroica; una città che quando corse pericolo l'integrità nazionale, fu una nuova Numanzia, una città che umiliò gli eserciti napoleonici nei loro stessi trionfi ec. Saragozza fu la più avanzata sentinella della libertà; nessun governo le parve mai abbastanza liberale ec. Nel petto di nessuno dei figli suoi albergò mai il tradimento ec. Entrate, dunque, nel recinto di Saragozza. Se non aveste coraggio, non ne avreste neanco bisogno, perchè i figli della sempre eroica madre son valorosi a viso aperto, e incapaci di tradire. Non v'è scudo, nè esercito più poderoso per difendere, in questi momenti, la vostra persona, che la lealtà dei discendenti del Palafox, poichè anche i loro nemici trovano un sacro asilo sotto i tetti saragozzani. Pensate e meditate che se seguirete costantemente la via della giustizia, se farete da tutti osservare le leggi della più stretta moralità, se proteggerete il produttore che finora tanto dà, e sì poco riceve, se sosterrete la verità del suffragio, se Saragozza e la Spagna vi dovranno un giorno il compimento delle sacre aspirazioni della maggioranza di questo gran popolo che venite a conoscere, allora, forse, vi adornerà un più splendido titolo, che quello di Re. Potete essere il primo cittadino della nazione, e il più amato in Saragozza, e la repubblica spagnuola vi dovrà la sua completa felicità.»
A questo discorso che veniva a significare in conclusione:—Non vi riconosciamo come Re, ma entrate pure fra noi, che non v'ammazzeremo, perchè gli eroi non ammazzano a tradimento; e se sarete bravo, e ci servirete a dovere, consentiremo, forse, a sopportarvi come presidente della Repubblica;—il Re rispose con un sorriso agro-dolce, che voleva dire:—Troppa degnazione!—e strinse la mano all'Alcade, con grande meraviglia di tutti i presenti. Poi montò a cavallo, ed entrò in Saragozza. Il popolo, a quel che si dice, lo ricevette con festa, e molte signore gli lanciarono dalle finestre poesie, corone di fiori e colombe. In varii punti, il generale Cordova, e il general Rosell, che lo accompagnavano, dovettero sgombrargli la strada coi proprii cavalli. Mentre entrava nel Coso, una donna del popolo si slanciò innanzi per dargli un memoriale; il Re, ch'era già passato oltre, se n'accorse, tornò indietro, e lo prese. Poco dopo, gli si presentò un carbonaio, e gli porse la sua nera mano: il Re gliela strinse. Nella piazza di Santa Engracia, fu ricevuto da una sfarzosa mascherata di nani e di giganti, che lo salutarono con certe danze tradizionali, fra le grida assordanti della moltitudine. Così attraversò tutta la città. Il giorno dopo visitò la chiesa della Madonna di Pilar, gli ospedali, le carceri, il circo dei Tori, e in ogni parte fu festeggiato con quasi monarchico entusiasmo, non senza segreta bizza dell'Alcade che l'accompagnava, il quale avrebbe voluto che il popolo saragozzano si ristringesse all'osservanza del quinto comandamento:—Non ammazzare,—senza andare più in là delle sue modeste promesse. Liete accoglienze ebbe pure il Re sulla via da Saragozza a Logroño. A Logroño, in mezzo a una folla innumerevole di contadini, di guardie nazionali, di donne, di ragazzi, vide per la prima volta il venerando generale Espartero. Appena si videro, si corsero incontro; il generale cercò la mano del Re, il Re gli aperse le braccia; la folla gettò un grido di gioia: “Maestà,” disse l'illustre soldato con voce commossa, “i popoli vi accolgono con patriottico entusiasmo, perchè vedono nel loro giovane Monarca il più fermo sostegno della libertà e della indipendenza della patria, e son sicuri che se i nemici della nostra ventura tentassero di turbarla, Vostra Maestà, alla testa dell'esercito e della milizia cittadina, saprebbe confonderli e sgominarli. La mia affranta salute non mi permise d'andare a Madrid per felicitare Vostra Maestà e la sua Augusta Sposa per il loro avvenimento al trono di San Ferdinando. Oggi lo faccio, e ripeto anche una volta che servirò fedelmente la persona di Vostra Maestà come re di Spagna, eletto dalla volontà nazionale. Maestà, in questa città ho una modesta casa, e ve la offro, e vi prego d'onorarla della vostra presenza.”—Con queste semplici parole era salutato il nuovo Re dal più vecchio e più amato e più glorioso dei suoi sudditi. Felice auspicio, a cui mal risposer gli eventi!
Verso mezzanotte andai a un veglione, in un teatro di mezzana grandezza, sul Coso, a poca distanza dalla piazza della Costituzione. Le maschere eran poche e meschinuccie; ma v'era per compenso una folla fittissima, della quale un buon terzo ballavano furiosamente. Fuor che dalla lingua, non mi sarei accorto di assistere ad un veglione d'un teatro di Spagna, piuttosto che a un veglione d'un teatro d'Italia; mi pareva di veder persino le stesse faccie. Poi il solito tramenío, la solita licenza di parole e di mosse, il solito degenerare dal ballo in una ridda clamorosa e sfrenata. Delle cento coppie di ballerini che mi passarono dinanzi, una sola mi rimase impressa nella memoria: un giovanotto d'una ventina d'anni, alto, snello, bianco, con due grand'occhi neri; e una ragazza della stessa età, bruna come un'andalusa; tutti e due belli e alteri, vestiti dell'antico costume aragonese, abbracciati stretti, viso contro viso, come se l'uno volesse respirare l'alito dell'altro, rossi come due viole e sfolgoranti di gioia. Passavano in mezzo alla folla, gettando intorno uno sguardo sdegnoso, e mille occhi li accompagnavano, e li seguiva un mormorio sordo di ammirazione e d'invidia. Uscendo dal teatro, mi fermai un momento sulla porta per rivederli passare, e poi me ne tornai all'albergo solo e malinconico. L'indomani mattina, prima dell'alba, partii per la Vecchia Castiglia.