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Emilio Salgari
IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO
PARTE PRIMA
CAPITOLO VI. IL BUCANIERE

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Seccare e affumicare sotto semplici capannucce formate di frasche, il piú delle volte malamente intrecciate le pelli e le carni degli animali uccisi a caccia, esprimevasi dagli indiani delle grandi isole del Golfo del Messico col vocabolo bucan, e da quello venne il nome di bucaniere.

Quei formidabili cacciatori, che piú tardi dovevano fornire tanta gente ai filibustieri della Tortue e dare un’infinità di fastidi agli spagnuoli, si erano specialmente stabiliti nell’isola di San Domingo, la piú ricca di selvaggina.

Per la maggior parte erano avventurieri francesi, inglesi e fiamminghi, fuggiti dalle loro patrie o per miseria o per delitti commessi.

Una camicia di grossa tela, sempre lorda di sangue, un paio di calzoni della stessa tela, anche piú sudici, una cintura di pelle non conciata, alla quale erano attaccate una corta sciabola, un paio di coltelli e due borse contenenti la polvere e le palle, un cappellaccio informe e scarpe fabbricate con cuoio di maiale, costituivano la divisa dei bucanieri..

La loro grande ambizione era d’avere un buon archibugio, portante un proiettile del peso di un’oncia, ed una muta di venticinque o trenta cani blood-hound, che impiegavano per la caccia dei buoi selvaggi, allora, come abbiamo già detto, abbondantissimi in San Domingo.

Del resto la sola carne di bue o di maiale, malamente arrostita o tutt’al piú cosparsa di pimento o di sugo di limone, non potendo sempre avere del sale, era il loro cibo giornaliero e per bevanda non avevano che dell’acqua e non sempre pura, abitando di preferenza i dintorni delle paludi, piú frequentati dalla selvaggina grossa, che i boschi immensi che occupavano tutto il centro della grande isola.

Di comodità, quegli intrepidi cacciatori, non cercavano che una capannuccia che non valeva nemmeno quella che si costruiscono i polinesiani o i negri dell’Africa, appena sufficiente a ripararli dalle abbondanti piogge o dagli ardori cocentissimi del sole.

Siccome poi da principio erano senza donne e senza figli, essi avevano presa l’abitudine di vivere due a due o di prendersi un novizio, che non sempre trattavano troppo bene, per aiutarsi scambievolmente.

In quella strana società tutto era in comune e chi sopravviveva all’altro restava erede d’ogni cosa.

Vi era però anche una certa comunanza di beni fra tutti, dimodoché ciò che mancava ad uno, questo andava a prenderselo da un altro, senza nemmeno chiedere il permesso, ed il rifiutarlo era tenuto come una gravissima ingiuria.

Difficilmente perciò avevano questioni fra di loro, e se accadevano, gli amici erano sempre pronti a rappacificarle; se poi i querelanti si ostinavano a non fare la pace, terminavano le questioni a fucilate: guai però se il ferito veniva colpito nella schiena o nei fianchi!

Il reo veniva preso e con un colpo di mazza sul cranio si mandava subito all’altro mondo, poiché quegli avventurieri si ritenevano gente d’onore, quantunque usciti per la maggior parte dai bassifondi delle grandi capitali dell’Europa occidentale.

Né occorre dire se si attenessero alle leggi del loro paese natio, poiché essi credevano di esserne sciolti, dopo aver passato il tropico e aver ricevuto il battesimo di marinai, cerimonia allora molto in uso per coloro che per la prima volta passavano l’equatore.

Forse è per quello che, abbandonati i loro nomi primitivi, ne usavano altri presi a capriccio.

Non abbandonavano invece totalmente la loro religione, fossero francesi, inglesi od olandesi; ma questa consisteva soltanto nel nominare Dio e nel farsi di Lui un’idea quale giovava alle loro abitudini.

Strano era in essi il modo con cui si univano talvolta in matrimonio colle donne, per la maggior parte indiane o prigioniere europee, comperate come schiave alla Tortue.

– Mi dovrai rendere ragione di quanto farai d’ora innanzi con me, – dicevano quei fieri uomini.

Poi, battendo sulla canna del loro infallibile archibugio, aggiungevano con voce minacciosa:

– Ecco quella che mi vendicherà, se tu non mi ubbidirai!

I bucanieri partivano ordinariamente per la caccia allo spuntare del giorno, preceduti dai loro cani e seguiti dall’arruolato.

Un bracco camminava dinanzi alla muta e, scoperto il toro o il cinghiale, dava segno agli altri, i quali correndo ed abbaiando, gli si mettevano intorno finché giungesse il padrone.

Il colpo era quasi sempre sicurissimo e la prima cosa che faceva il cacciatore, se riusciva a gettare a terra la selvaggina, era quella di tagliarle il garretto.

Se la ferita era leggera e la bestia infuriava e caricava, il bucaniere, agilissimo, sapeva mettersi sempre in salvo, arrampicandosi su d’un albero. Di lassú poi finiva facilmente a colpi d’archibugio la bestia, la quale non aveva mai tempo di scappare.

Essa veniva subito scorticata, poi il bucaniere ed il suo arruolato ne traevano uno degli ossi maggiori, lo spezzavano e ne succhiavano il midollo ancora caldo e quella era ordinariamente la loro colazione!

Mentre l’arruolato s’incaricava di tagliare i pezzi migliori da seccare o affumicare e li trasportava nella capanna, il bucaniere continuava la sua caccia, aiutato dai cani, né smetteva finché calava la notte.

Quando poi aveva messo all’ordine quella quantità di pelli sufficiente per costituire un piccolo carico, lo portava alla Tortue o in qualche altro porto tenuto dai filibustieri.

Una esistenza condotta con siffatti esercizi e sostenuta col genere di alimenti che abbiamo accennati, salvava quei terribili cacciatori dalle tante malattie alle quali altri andavano soggetti.

Tutt’al piú li colpiva talvolta una febbre effimera, che spariva prestissimo con semplici profumi di foglie di tabacco.

A lungo andare però le fatiche eccessive e le intemperie dovevano a poco a poco esaurirli.

Gli spagnuoli, inquieti per la presenza di quei cacciatori tutti stranieri, per un po’ di tempo li lasciarono cacciare, ma quando li videro fondare degli stabilimenti nella penisola di Samana al porto di Margot, nella Savana bruciata, verso i Goniaives, nell’imbarcadero di Mirfolais ed in fondo all’isola Avaches, presero il partito di cacciarli dalla grande isola, dichiarando a quei disgraziati una vera guerra di esterminio.

La guerra scoppiò ferocissima.

Gli spagnuoli si erano facilmente lusingati di fare una vera strage di quei miserabili, i quali, dopo tutto, non avevano mai recata a loro alcuna offesa.

Li sorprendevano spesso quando si trovavano in piccolo numero nelle loro corse, oppure di notte nelle loro abitazioni e, quanti ne prendevano, altrettanti ne trucidavano o li tenevano come schiavi, quasi fossero negri od indiani, facendoli lavorare duramente nelle piantagioni a colpi di sferza.

Certamente i bucanieri in tal guisa sarebbero stati a poco a poco distrutti, dalle tante cinquantine lanciate attraverso i boschi, se con miglior consiglio i cacciatori non si fossero finalmente decisi a raccogliersi in corpo, per difendersi.

Il bisogno di caccia portava che di giorno si sbandassero, ma alla sera si univano tutti in un luogo stabilito e se qualcuno mancava, argomentando che fosse stato ucciso, sospendevano le loro scorrerie fino a che o l’avessero trovato o vendicato.

E cominciò allora una lotta a tutta oltranza, I bucanieri fino allora si erano lasciati trucidare; da quel momento cominciarono a prendersi cosí spaventose rivincite, che tutta l’isola fu inondata di sangue e molti luoghi ricordano anche oggidí coi loro nomi le stragi avvenute.

Temendo però i bucanieri di non poter tenere testa alle innumerevoli cinquantine spagnuole, si decisero di trasportare, dopo una lunga lotta, i loro stabilimenti sulle isolette che circondano San Domingo.

Non andavano piú ormai alla caccia che in grosse partite, combattendo fieramente quando incontravano il nemico.

Alcuni stabilimenti salirono in fama, come quello di Bayaba, il quale aveva un porto vastissimo molto frequentato da navi inglesi, francesi ed olandesi.

Appunto da Bayaba, essendo mancati un giorno quattro bucanieri, i loro compagni organizzarono una grossa spedizione per liberarli o vendicarli.

Avendo appreso, strada facendo, che erano stati condotti a Santiago ed appiccati, trucidarono gli informatori che erano spagnuoli, poi assalirono furiosamente la città, prendendola d’assalto e massacrando quanti uomini si trovavano rinchiusi fra le mura.

Non mancavano però gli spagnuoli di rifarsi di tratto in tratto delle sconfitte che subivano, ma era ben difficile di snidare, come essi desideravano, tutti i bucanieri che scorazzavano per le foreste dell’isola.

Col tempo però vi riuscirono, distruggendo tutti i tori e tutti i porci selvatici che infestavano le foreste e le paludi, e quel colpo fu cosí fatale ai bucanieri, da deciderli a rivolgersi al mare per trovare nuovi alimenti e alla terra per ottenere raccolti da trafficare.

Gli spagnuoli però si erano ingannati sulle loro speranze, perché i bucanieri, da cacciatori di terra si erano trasformati in scorridori del mare, diventando quei terribili filibustieri che dovevano recare tanti danni alle colonie spagnuole del golfo del Messico e dell’Oceano Pacifico.

.........

Il bucaniere, come abbiamo detto, udendo le parole del figlio del Corsaro Rosso, aveva lasciato cadere l’archibugio e si era fatto innanzi, col cappellaccio in mano, salutando rispettosamente con un profondo inchino.

– Signore, – disse. – Che cosa desiderate da me? Sarebbe per me un grandissimo onore poter essere utile in qualche cosa al nipote del grande Corsaro Nero.

– Non vi chiedo che un asilo sicuro per riposarmi qualche ora ed una colazione, se è possibile averla, – rispose il conte.

– Io vi offrirò delle bistecche quante vorrete ed una superba lingua di bue, – rispose il bucaniere. – Tengo in serbo sempre qualche bottiglia di aguardiente per le visite inaspettate e sarò ben felice di offrirvela.

– Buttafuoco – rispose il bucaniere sorridendo.

– Un nome di battaglia, non è vero?

– Il mio l’ho dimenticato – disse il cacciatore, corrugando la fronte. – Varcando l’Oceano, perdiamo i nostri nomi, ma vi posso dire che ero figlio di una buona famiglia della Linguadoca. Che cosa volete? La gioventú talvolta fa commettere delle cattive azioni… Orsú, non parliamo di questo. È un mio segreto.

– Che io non desidero affatto conoscere – rispose il conte.

Il bucaniere si passò tre o quattro volte la mano callosa e macchiata di sangue sulla fronte, come se volesse scacciare lontani e dolorosi ricordi, poi disse:

– Mi avete domandato un ricovero ed una colazione, ed io sarò orgoglioso di offrire l’uno e l’altra al nipote del grande corsaro.

Accostò una mano alle labbra, si mise due dita in bocca e mandò un lungo fischio.

Pochi momenti dopo un giovanotto di venti o ventidue anni, biondo, magro, con gli occhi azzurri, vestito come il bucaniere, accompagnato da sette od otto grossi cani, uscí dalla foresta.

– Leva la pelle a questa bestia – gli disse ruvidamente Buttafuoco – e portaci al piú presto la lingua e delle costolette. Potranno servire per questa sera.

Poi, volgendosi verso il corsaro con una gentilezza strana in un uomo di apparenza cosí rozza, disse:

– Signore, seguitemi. La mia povera capanna e la mia misera dispensa sono a vostra disposizione.

– Non vi chiedo di piú – rispose il conte.

Il bucaniere raccolse il suo grosso archibugio e si mise in cammino, osservando attentamente le macchie, forse piú per abitudine che per altro, poiché i cani non davano alcun segno di inquietudine.

– E il bufalo che avete ucciso, lo lasciate là? – chiese ad un certo momento il conte.

– Il mio amico non dev’essere lontano – rispose il bucaniere. Incaricherò lui di scorticarlo e di togliergli le parti migliori.

– E il resto?

– Lo lasciamo ai serpenti e agli avvoltoi, signore, quello che a noi importa sono le pelli che si vendono vantaggiosamente a Porto Bayada agli inglesi o ai francesi che vi approdano in buon numero ogni sei mesi.

– Senza venire disturbati dagli spagnuoli?

– Oh! guai se ci lasciamo prendere! Ma noi siamo furbi, e poi siamo protetti dai filibustieri della Tortue, nostri buoni alleati.

– Avete conoscenti alla Tortue?

– Molti, signor conte.

– Quando vi siete stato?

– Appena tre mesi fa.

– Grogner e Davis si trovano ancora colà? Ho delle lettere di raccomandazione per loro e anche per Tusley. Sono i filibustieri piú noti al giorno d’oggi, non è vero?

– Sí, signor conte; ma dovreste correr molto, prima di presentargliele.

– Perché?

– Perché in questo momento lavorano sul continente o, meglio, sull’istmo di Panama, verso il Pacifico. Le loro ultime notizie, recate da un gruppo di filibustieri, sono giunte dall’isola di San Giovanni. Pare che si siano stabiliti colà per dare la caccia ai galeoni che il Perú manda di quando in quando a Panama.

– Sicché sarò costretto ad attraversare l’istmo se vorrò trovarli? disse il signor di Ventimiglia, il quale sembrava non troppo lieto di quelle risposte.

– Capitano, – disse Mendoza, il quale si era accorto del malumore del corsaro – Pueblo-Viejo si trova sull’istmo e non potremmo giungervi con la nostra fregata. Visiteremo quella graziosa città per andare a stringer la mano al marchese di Montelimar; poi andremo a cercare i famosi filibustieri, senza dei quali nulla potreste fare.

– Tu hai sempre ragione, amico – rispose il conte rasserenandosi un poco.

– Ecco la mia capanna – disse in quel momento il bucaniere, mentre i cani si slanciavano innanzi, latrando festosamente.

Sotto un gruppo di splendide e altissime palme e di cavoli palmisti, sorgeva una miserabile abitazione formata da rami malamente intrecciati e da poche pertiche, con alcune pelli gettate al di sopra per riparare alla meglio il suo proprietario e il suo servo dagli acquazzoni diluviali che, di quando in quando, si rovesciavano sull’isola con furia inaudita.

Sotto una piccola tettoia, innalzata a pochi metri di distanza, si trovava la cucina che consisteva in tre o quattro sassi, che dovevano servire da camino, da un paio di spiedi e da un vaso di terra pieno d’acqua.

Tutto all’intorno vi erano pelli di bufali stese a seccare e ammassi di carne affumicata e seccata, coperti da gigantesche foglie di banano.

– Ecco il mio palazzo! – disse il bucaniere ridendo. – Avrebbe bisogno di molte riparazioni, ma non trovo mai il tempo di diventare un boscaiuolo. Entrate, signor conte.

L’interno della catapecchia non valeva piú dell’esterno. Uno strato di foglie secche serviva da letto, ed era tutto il mobilio di quel cacciatore, il quale forse un tempo era abituato al lusso raffinato della capitale della Francia.

Appesi ai pali vi erano dei coltellacci imbrattati di sangue fino alle impugnature; dei corni immensi contenenti probabilmente della polvere da sparo; dei sacchetti di cuoio per il piombo e delle zucche che servivano da fiasche.

– Un’abitazione da indiani! – disse il conte.

– Peggio, signore! – rispose il bucaniere. – Quei selvaggi sanno fabbricarsi delle capanne assai piú comode delle nostre… Accomodatevi, signori, mentre io vi preparo la colazione. Ecco il mio arruolato che giunge ben carico.

Il giovane, lordo di sangue dal viso alle scarpe, avanzava penosamente, portando sulle spalle dei lunghi pezzi di carne che aveva allora levati dal bufalo, ed una magnifica lingua.

– Spicciati, Cortal – disse il bucaniere ruvidamente. – Abbiamo delle persone a pranzo e offriremo loro un bell’arrosto di lingua. Vi è del maiale freddo avanzato da ieri?

– Sí – rispose il giovanotto. – E la pelle del bufalo?

– Andrai a raccoglierla piú tardi. Nessuno ce la porterà via.

L’arruolato gettò in mezzo alle erbe la carne, diede uno sguardo di sfuggita agli ospiti, toccandosi con la destra grondante di sangue la tesa del suo cappellaccio scolorito e bucato almeno in dieci punti; poi alimentò il fuoco, mentre il padrone preparava la lingua e la infilava nello spiedo.

– Non invidio di certo la vita di quel povero garzone – disse il guascone, indicando l’arruolato. – E forse anche lui appartenne un giorno a qualche buona famiglia.

– Quanto dura il loro arruolamento? – chiese il conte.

– Tre anni, ordinariamente – disse Mendoza. – Dopo passano a loro volta bucanieri; ma sono tre anni di tribolazioni, poiché vengono trattati come schiavi, e non sono loro risparmiate né percosse, né sofferenze d’ogni specie. I bucanieri, abituati a vivere sempre in mezzo al sangue, diventano ben presto brutali, e per loro, uccidere un toro o un uomo è la stessa cosa. Hanno una sola qualità buona: sono leali e ospitalissimi.

– Sicché quando l’arruolato sarà diventato bucaniere, non tratterà meglio il garzone che prenderà al suo servizio.

– È cosí, capitano – rispose Mendoza. – Si direbbe anzi che vogliano vendicarsi a loro volta delle busse prese e dei patimenti subiti durante la loro schiavitú.

Mentre chiacchieravano, Buttafuoco e il suo servo si facevano in quattro per allestire il pranzo, molto abbondante, è vero, ma anche molto modesto, poiché non consisteva che in un pezzo di maiale freddo, nella lingua del bufalo malamente arrostita e in un cavolo palmista che, bene o male, surrogava il pane che mancava assolutamente. Quei poveri cacciatori soltanto qualche rarissima volta potevano ottenere un po’ di grano, e allora era una vera festa per loro. L’arrosto fu presto pronto e fu servito dall’arruolato su una foglia di banano, insieme con alcune enormi ossa già spezzate per poterne succhiare piú comodamente il midollo crudo e ancora tiepido.

– Mi rincresce, signor conte, di non potervi offrire di piú – disse Buttafuoco, il quale cercava di mostrarsi amabile. – Se possedessi ancora il mio castelluccio in Normandia, avrei fatto ben altra accoglienza al nipote del grande Corsaro Nero… Bah! – aggiunse poi, mentre la sua fronte si aggrottava ed una profonda emozione si dipingeva sul suo volto abbronzato – non vale la pena di risvegliare dei lontani ricordi. Il passato è morto per me, dopo che ho varcato la linea… Mangiamo, signori!

Tagliò la lingua e l’arrosto di maiale, servendosi d’un enorme coltellaccio; spaccò in vari pezzi il cavolo palmista con degli scatti d’ira che tradivano una profonda agitazione, poi con un gesto fece segno ai convitati di servirsi.

Mangiarono in silenzio. Il conte di quando in quando fissava il bucaniere e questi, quasi temesse che egli indovinasse la causa della sua profonda emozione, si affrettava ad abbassare lo sguardo o a volgere altrove il viso, con la scusa di dare al suo arruolato qualche ordine.

Quando il pranzo fu terminato, Buttafuoco offrí ai suoi ospiti dei grossissimi sigari da lui stesso fatti con tabacco probabilmente rubato nelle piantagioni spagnuole; poi disse a Cortal, che aveva mangiato fuori della capanna accanto al fuoco:

– La fiasca d’onore: vi è un conte fra noi, amico.

L’arruolato frugò sotto un banano e ne trasse un’enorme zucca, parecchi bicchieri di corno di bufalo e portò l’una e gli altri nella catapecchia.

– Signor conte, – disse il bucaniere con una certa amarezza – io non posso offrirvi né dello champagne, né del Borgogna, né del Medoc, perché non siamo in Francia. Qui non abbiamo che meschina aguardiente o del megeol, perché l’isola non ci dà niente di meglio. È la mia provvista che talvolta cerco a prezzo della mia vita che se ne va… quella provvista che certe notti mi è necessaria per dimenticare il passato, per non piangere… Signor conte, accettate.

– Voi siete commosso, Buttafuoco! – gli disse il signor di Ventimiglia.

– Si può esser forti, signor conte, – rispose il bucaniere – si può aver varcata la linea equatoriale; si può aver giurato di aver dimenticato il proprio paese… la mia Normandia… il mio castello… una sorella amata e che per me è ormai morta per sempre… il padre gentiluomo che riposa laggiú accanto a mia madre sotto le zolle dell’abbazia… Morte dell’inferno! Bevete, signor conte… berrò anch’io!

Afferrò rabbiosamente la tazza di corno e la vuotò d’un fiato, gridando poi:

– Ancora, Cortal, ancora! Bisogna che affoghi i ricordi lontani! Ah, la triste sorte che mi ha colpito!

Il viso del fiero bucaniere si era spaventosamente alterato.

Non piangevano i suoi occhi, eppure s’indovinava che faceva degli sforzi supremi per trattenere le lacrime, vergognoso forse di tradire il segreto delle sue pene.

– Bevete, signor conte, – riprese dopo qualche istante, vuotando un’altra tazza. – Non avrei mai creduto di dover ospitare sotto questa miserabile capanna un gentiluomo della lontana Europa. L’avevo sperato un giorno, era una follia certamente… un uomo che fosse venuto qui a trovare me per caso o per combinazione.

– Continuate, Buttafuoco, – disse il conte – siete fra amici.

Il bucaniere vuotò il terzo bicchiere di aguardiente, poi, facendo un gesto di ira terribile, riprese con voce strozzata:

– Parigi maledetta! Sirena infame che mi hai stretto fra le tue spire! Meglio sarebbe stato che io non ti avessi mai veduta! Le tue mille e mille seduzioni hanno fatto di me un miserabile bucaniere, un macellaio delle foreste di San Domingo!… Maledetto giuoco! Sei stato la mia rovina!

– Ma chi siete voi? – chiese il conte, profondamente commosso dall’intenso dolore che traspariva sul viso del bucaniere.

– Lo vedete, – rispose Buttafuoco, ridendo nervosamente – un cacciatore di buoi… un miserabile avventuriero. Da quando ho passata la linea, io non ho piú patria, non ho piú famiglia, non ho piú nobiltà, piú nulla fuorché il mio archibugio che tutti i giorni uccide per non uccidere il mio cuore.

Per la quarta volta vuotò la tazza che l’arruolato gli aveva riempita.

– Gli anni sono passati, – riprese il disgraziato, serrando la fronte fra le mani, come se cercasse di comprimere i pensieri che lo tormentavano

– Eppure vedo ancora il mio castello, là, sulle rive dello stagno, ergersi superbo con i suoi pinnacoli e le sue torri; vedo ancora in certe notti passeggiare sulle terrazze quella dolce fanciulla che era mia sorella e per la quale avrei dato la vita pur di vederla felice… Un barone della Bretagna la fece sua sposa… Sia felice, ed ignori per sempre la sorte del suo disgraziato fratello… Cortal, dammi ancora da bere. Ho sete, una terribile sete!

Rimase alcuni istanti silenzioso, fissando il bicchiere colmo con gli occhi dilatati, cupo, fremente, poi disse:

– Eh, la vita talvolta è cosí, se si è preda d’un genio maligno. Eppure quanto è stata terribile la discesa! Meglio sarebbe stato che sui vent’anni un colpo di spada m’avesse finito fra i pometi della Normandia! Cosí non avrei veduta mai Parigi, almeno non sarei disceso, di gradino in gradino, fino nel fango d’una prigione… non avrei macchiato il blasone dei miei avi… non avrei dimenticata la mia Francia… non avrei cambiato nome… non sarei diventato un avventuriero… non sarei fuggito come un ladro… e non avrei fatto piangere mia sorella, povera creatura!

– Buttafuoco! – gridò il conte.

Il bucaniere si era alzato di scatto, con gli occhi dilatati, il viso bagnato di sudore. Staccò da un palo della capanna il suo archibugio, poi uscí rapidamente, scomparendo fra gli alberi.

– È sempre cosí il tuo padrone? – chiese il conte all’arruolato che stava fermo sulla soglia della capanna.

– Io non l’ho mai veduto sorridere – rispose Cortal. – È sempre triste

– E non sarà il solo – disse il guascone. – Quanti uomini, che un giorno furono ricchi e stimati, si trovano fra questi bucanieri!

– E quanti gentiluomini ha rovesciato l’Europa in America! – rispose il corsaro.

– È vero, signor conte – rispose il guascone con un sospiro. Io peraltro ho dimenticato presto Pau e il mio castelluccio semidistrutto. Io non ho veduto Parigi, né ho provato le sue seduzioni fatali.

– Rovina di tanta gente dabbene! – disse il conte. – Vale meglio la Provenza!

A sua volta si era alzato ed era uscito dalla capanna, cercando il bucaniere.

Il cacciatore era scomparso, ma udí parecchi colpi di fucile tra le macchie. Aveva appena terminato il sigaro e stava per rientrare nella capanna, quando vide giungere Buttafuoco piú tetro che mai. Osservandolo attentamente, s’accorse che il fiero cacciatore aveva gli occhi rossi; come se avesse lungamente pianto.

– È passata la tempesta? – gli chiese il signor di Ventimiglia con voce dolce.

– Gli uragani durano poco a San Domingo – rispose il bucaniere con un triste sorriso. – Bah, tutto è passato, tutto è stato dimenticato! Ho ucciso due maiali selvatici, laggiú sul margine delle paludi… è il mio mestiere. Il conte gli porse la destra:

– Stringetela! – disse.

– No, signor conte, io non sono piú degno di porgere la mano ad un onesto gentiluomo. Qui non siamo in Normandia.

– Stringetela, vi dico.

– Sí, non ora però. Quando noi ci lasceremo per sempre e vi dirò chi sono stato io un giorno… forse allora… Signor conte, fra quattro ore il sole tramonterà e la villa della marchesa di Montelimar è lontana. Volete che ci mettiamo in cammino? Non giungeremo a San Josè prima dell’alba, ed in questo paese è meglio marciare di notte. Le cinquantine di quando in quando perlustrano queste foreste e se non sono pericolose le loro alabarde, sono terribili i cagnacci che le accompagnano.

– Sono pronto a seguirvi e ad obbedirvi – rispose il corsaro.

– Siete ben sicuro che la marchesa non vi tradirà? Io conosco quella bella signora, avendola qualche volta incontrata nei dintorni della sua fattoria.

– È una perfetta gentildonna che mi ha già salvato una volta.

– Allora basta – rispose il bucaniere. – Chiamate i vostri compagni, signor conte, e dite che si prendano degli archibugi. Ne ho sempre tre o quattro di riserva e tutti di buon calibro, con palle di un’oncia.

Mendoza ed il guascone, udendo il comando del conte, erano accorsi, seguiti dall’arruolato, il quale, come se avesse indovinato il pensiero del suo padrone, portava dei fucili e delle munizioni.

– In marcia, amici – disse il signore di Ventimiglia. – Buttafuoco ci servirà da guida.

Il bucaniere s’accostò all’arruolato, il quale lo interrogava con lo sguardo.

– Tu rimarrai qui – gli disse con ruvida bonarietà – e aspetterai il mio ritorno. Che io stia lontano una settimana od un mese, non ti dar pensiero di me. Se gli spagnuoli ti minacciano, rifugiati nella colonia del capo Tiburon e là ci ritroveremo. Guardati dalle cinquantine, e abbi cura dei miei cani. Addio!

Chiamò con un fischio stridente il suo bracco favorito e si mise in cammino a fianco del conte e seguito dal guascone e da Mendoza, calandosi il cappellaccio sulla fronte per meglio ripararsi dagli ardentissimi raggi del sole.

Attraversò la macchia che serviva a nascondere la sua capanna e dopo essersi orientato con l’astro diurno, si cacciò risolutamente tra le immense boscaglie che si prolungavano verso occidente.

Il bracco lo procedeva, fiutando di quando in quando il terreno, e volgendo la testa come per chiedere se era sulla buona via.

– Avete la vostra nave, signor conte? – chiese il bucaniere, dopo aver percorso qualche miglio.

– Deve attendermi al capo Tiburon – rispose il corsaro.

– La villa della marchesa di Montelimar non si trova che a breve distanza dalla rada. La potrete scorgere dalle finestre della fattoria.

– Non verranno a cercarci colà, le cinquantine?

– Chi lo sa? Battono l’isola in lungo ed in largo, e non si sa mai dove si fermano. La marchesa però è troppo potente a San Domingo per non proteggervi.

– Ne ho avuto la prova.

– Allora potrete attendere tranquillamente la vostra nave, senza correre il pericolo di farvi prendere – rispose il bucaniere, sorridendo. – So quanto vale quella signora.

– La conoscete?

– L’ho veduta una sola volta, mentre attraversava a cavallo una foresta e le ho reso, anzi, in quell’occasione, un piccolo servigio. Se non mi fossi trovato sulla sua strada e non le avessi ammazzato il cavallo con un buon colpo di archibugio, non so se la signora di Montemilar sarebbe ancora viva, e se…

Il bucaniere si era interrotto, mentre il suo bracco scuoteva gli orecchi e puntava.

– Che cosa c’è? – chiese il corsaro.

– Nulla per ora – rispose Buttafuoco la cui fronte si era leggermente aggrottata.

– Mi sembrate inquieto.

– Posso essermi ingannato

– Anche il vostro cane?

Il Bucaniere stette un momento silenzioso, osservando attentamente il suo bracco il quale si era fermato e non cessava di alzare e di abbassare le orecchie.

– Mi è sembrato d’aver udito un lontano latrato.

– Che qualche cinquantina ci dia la caccia?

– Può darsi, signor conte. Lasciamo i terreni scoperti e gettiamoci nella foresta. Là saremo piú sicuri.

Il figlio del Corsaro Rosso

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