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Emilio Salgari
IL TESORO DELLA MONTAGNA AZZURRA
VI. LA RIVOLTA

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Altri due giorni erano trascorsi, senza che la situazione dei disgraziati naufraghi fosse in alcun modo migliorata. La inafferrabile terra dei Kanaki pareva fuggisse sempre davanti alla zattera, che pure aveva percorso una trentina di miglia mantenendo sempre la sua rotta. Nessuna nave si era mostrata, né vicina, né lontana. Solo qualche uccello marino si era avvicinato alla zattera, attratto più che altro dalla curiosità, ma si era subito allontanato, prima ancora che il capitano e don Pedro, che erano entrambi abilissimi tiratori, avessero avuto il tempo di prendere i fucili. Le provviste, fornite dall’abilità del nordamericano, diminuivano a vista d’occhio, nonostante l’economia del comandante. E le poche che ancora rimanevano minacciavano di corrompersi poiché il caldo era sempre intensissimo e i naufraghi non avevano nemmeno un grammo di sale. La cupa disperazione dell’equipaggio, in quei due giorni, era aumentata. Dove si trovavano? Dove il vento e le correnti avevano spinto la zattera? Era vicina o lontana quell’isola che nascondeva il tesoro della Montagna Azzurra? Inutilmente avevano rivolto domande su domande al capitano per sapere almeno su quale rotta navigavano. Il disgraziato, messo alle strette, aveva dovuto confessare che il cronometro durante il trasporto aveva subito un guasto. Quella notizia aveva prodotto un maggiore scoraggiamento fra i naufraghi dell’Andalusia. Guai, se avessero saputo che un miserabile che si trovava fra di loro era stato l’autore di quell’infamia e fossero riusciti a scoprirlo! Fortunatamente il capitano, che sperava di poterlo sorprendere, si era ben guardato dal comunicare loro il suo segreto. La notte del terzo giorno, dopo la cattura dei pesci-volanti, avvenne un fatto che produsse una enorme impressione nell’animo di don Josè, don Pedro e del bosmano. Tutta la notte la zattera era rimasta immobile, appena mossa dal cambiamento del flusso, non avendo soffiato il menomo alito di vento. Verso l’alba il bosmano, a cui era toccato l’ultimo turno di guardia, si era recato a prora con la speranza di scoprire le montagne dell’isola, quando la sua attenzione fu attirata da un pezzo di sughero simile a quelli che usano i pescatori per le loro lenze, galleggiante a qualche metro dalla zattera. Molto sorpreso per quel fatto inaspettato, non avendo mai visto di quei sugheri a bordo dell’Andalusia, senza dire nulla ai suoi camerati che stavano raccolti a poppa, presso il timone, aveva preso un lungo remo e maneggiandolo cautamente era riuscito a impadronirsi del minuscolo gavitello. Non poteva essere la doga di un baleniere, con le cifre e il nome della nave, in quanto quegli arditi pescatori usano delle tavolette di sughero di dimensioni maggiori. Il vecchio marinaio che aveva fatto nella sua gioventù più di una campagna con i balenieri nordamericani della California e dell’Oregon non poteva ingannarsi. Nascose rapidamente il piccolo gavitello sotto la casacca, temendo di essere scorto dai suoi camerati, e si diresse sollecitamente verso la piccola tenda per avvertire il capitano di quella straordinaria scoperta, che poteva annunciare la vicinanza di qualche nave pescatrice di trepang. Bastò una sola scossa per far balzare in piedi don Josè, il quale aspettandosi di momento in momento qualche notizia, dormiva con un occhio solo.

– La costa? – chiese, vedendosi davanti il bosmano.

– Non ancora, comandante, per nostra disgrazia, – rispose Reton. – Comincio però a sperare che non sia molto lontana… Guardate che cosa ho raccolto poco fa.

Il capitano afferrò la tavoletta di sughero, guardandola attentamente da una parte e dell’altra. A un tratto un grido li sfuggì dalle labbra e così alto da svegliare anche don Pedro e Mina.

– Che cosa succede, comandante? – chiese il giovane alzandosi prontamente – È forse in vista la Nuova Caledonia?

– Ancora un tradimento, – rispose don Josè, che appariva in preda a una grande agitazione.

Il bosmano imprecando, si batteva la testa con i pugni poderosi.

– Che cosa dite, capitano? – chiese poi con ansia.

– Che quel traditore continua la sua opera infame.

– Quel pezzo di sughero…

– È un segnale affidato alle onde e alle correnti.

– A quale scopo? – domandò don Pedro.

– Guardate anche voi dunque, – rispose il capitano che sembrava dovesse scoppiare dalla collera.

Don Pedro, a sua volta, si impadronì del sughero e poté distinguere tre strani geroglifici sormontati da un uccello, una specie di colombo, probabilmente un notù, incisi con qualche chiodo o con la punta di un coltello.

– Il segnale misterioso del documento! – esclamò.

– Guardate più sotto, don Pedro.

– Vedo un A

– Che vorrà significare Andalusia, suppongo, – disse il capitano.

– E che cosa volete concludere? – chiese Mina.

Il capitano stette un momento raccolto, poi chiese a don Pedro:

– Voi non avete mostrato a nessuno quel pezzo di corteccia di niauli?

– No, capitano.

– Ne siete ben certo?

– L’ho sempre tenuto nascosto sotto la mia camicia, dopo il naufragio dell’Andalusia.

– E prima?

– L’ho tenuto nella mia cassetta, chiusa a doppio giro di chiave.

– Come può allora uno dei nostri marinai conoscere il segreto? – si chiese don Josè. – Ecco un mistero assolutamente inesplicabile.

– E che cosa volete concludere? – chiese per la seconda volta Mina.

– Che qui sotto c’è la mano del capitano Ramirez, – rispose don Josè. – Quel miserabile deve aver corrotto qualcuno dei miei uomini. Quella doga è un segnale affidato alle onde e probabilmente non sarà stato il solo. Chissà quanti ne sono stati gettati dal traditore, a nostra insaputa con la speranza che qualcuno venga raccolto dall’equipaggio dell’Esmeralda… Tu Reton, hai mai veduto di questi sugheri a bordo dell’Andalusia?

– Mai, – rispose il bosmano. – Solo i pescatori ne usano e noi avevamo ben altro da fare che prendere pesci.

– Ah! – esclamò in quel momento don Pedro che continuava ad osservare la doga. – Ci sono dei segni anche sui margini.

– Quali segni?

– Sette punti e quattro lineette, più cinque numeri: un due, un dieci e un ventiquattro.

– Dei segni convenzionali che avranno il loro significato, – disse il capitano, dopo averli osservati. – Canaglie!

– Voi dunque credete, capitano, che questo sughero sia stato lanciato per segnalare qualche cosa a quel bandito di Ramirez? – chiese il bosmano.

– Solo quel furfante possiede una copia del talismano che ci permetterà di farci consegnare dai krahoa il tesoro raccolto da don Belgrano.

– È vero! – esclamò don Pedro. – E come dovremo regolarci ora?

– Non ci rimane che di raddoppiare la sorveglianza per sorprendere quel traditore, – disse il capitano.

– Ah, se potessi mettergli le mani addosso! – borbottò Reton, digrignando i denti. – Che bella colazione per il pescecane che si nasconde sotto la zattera!

A un tratto si batté la fronte, poi disse:

– Tò… Una sera ho visto Emanuel gettare un pezzo di sughero, per attirare i pesci, come mi disse.

– Vorresti incolpare quel ragazzo? – chiese il capitano, alzando le spalle. – Tu hai la mania di vedere sempre un nemico in quel povero diavolo. Chi ha gettato questo non può essere che un marinaio e molto furbo. Conserviamo il segreto e non dite nulla a nessuno. Non bisogna insospettire il traditore.

– E occhi aperti, aggiunse il bosmano. – Invece di quattro farò otto ore di guardia notturna.

Uscirono tutti insieme, simulando un’aria tranquilla e si spinsero verso prora per osservare l’orizzonte. Quasi tutti i marinai vi si erano già radunati, spingendo lontano, su quella sterminata pianura liquida, di un bell’azzurro profondo costellato di scintillii d’oro, il loro sguardo acutissimo. Nulla: sempre nulla. L’orizzonte era purissimo, senza la più piccola nube e senza il profilo di una montagna. Una calma immensa regnava sul Pacifico.

– Si direbbe che siamo maledetti – disse il capitano, dopo aver guardato in tutte le direzioni. – Anche il vento congiura contro di noi. A questa calma preferirei la tempesta, qualunque cosa dovesse succedere.

Alla notte il capitano, don Pedro e il bosmano raddoppiarono la sorveglianza ma non notarono nulla di insolito. I marinai, stanchi, affamati e assetati, poiché il previdente capitano continuava a diminuire le razioni, non avevano lasciati i loro posti, anzi non avevano smesso di russare, essendosi tutti rifiutati di fare i loro turni, giudicandoli inutili. Nessuno aveva fiducia nell’incontro di una nave, trovandosi la zattera in zone non frequentate da velieri. Altri due giorni trascorsero ancora e senza cibo. Inutilmente tutti avevano cercato di pescare e invano il capitano aveva sparato alcuni colpi contro un gigantesco albatros che era passato sopra la zattera a una tale altezza però da non poterlo colpire. Irritati da tanti patimenti, i marinai cominciarono a diventare pericolosi. Non obbedivano più né agli ordini del capitano, né a quelli del bosmano. Una sorda collera si era già da qualche tempo manifestata, specialmente contro don Pedro e sua sorella, che ritenevano responsabili di tutte le loro disgrazie. Senza quel maledetto tesoro, forse l’Andalusia non sarebbe naufragata e avrebbe ancora navigato pacificamente lungo le coste occidentali dell’America. Don Josè, che li teneva d’occhio, non aveva tardato ad accorgersi della loro irritazione e ne aveva avvertito Reton.

– Se non tocchiamo terra al più presto o non troviamo il modo di rinnovare le provviste, non so che cosa accadrà, – disse. – Io tremo per Mina e per suo fratello. Ho già notato che alcuni marinai ieri sera fissavano con sguardo di ardente bramosia la ragazza.

– Vivaddio! – rispose il bosmano. – Chi la tocca è un uomo morto, parola di Reton! Avete avvertito don Pedro?

– Me ne sono ben guardato.

– Avete fatto bene. I fucili e le munizioni sono sempre sotto la tenda?

– Sì, Reton.

– Badate che non li rubino.

– Non chiudo occhio di notte.

– Ne abbiamo nove, se non sbaglio. Se ne gettassimo almeno cinque in mare?

– Ci avevo già pensato, ma non possiamo privarci delle armi che possono esserci necessarie sulla terra dei Kanaki, esito ad assumermi una tale responsabilità.

– Questo è vero. Potrebbe essere una imprudenza terribile e nondimeno, un giorno o l’altro, se le cose non cambiano, saremo costretti a sbarazzarci dei fucili in più. La fame e i patimenti possono rendere feroci questi uomini.

– E spingerli a rinnovare i mostruosi banchetti di carne umana dei naufraghi della Medusa, – aggiunse il capitano con un sospiro.

I timori di don Josè, poiché la notte stessa, fra le dieci e le undici, sette marinai, fra i quali si trovava anche Emanuel, si raccolsero a prora della zattera e fingendo di pescare intavolarono a voce bassa una terribili discussione. Il mozzo, malgrado la sua giovane età, godeva di un certo ascendente su alcuni componenti dell’equipaggio che erano stati amici di suo padre, un bravo e coraggioso pilota.

– Bisogna decidersi, – disse Emanuel, con voce insinuante. – Non dobbiamo lasciarci morire di fame, quando qui c’è carne in abbondanza. La terra può essere ancora molto lontana, amici, pensateci.

– Ciò che tu proponi, ragazzo, è molto grave, – rispose John il pescatore. – Noi non siamo dei Kanaki.

– E allora lasciati morire, – osservò un altro. – Io per mio conto sono deciso a tutto, pur di poter saziare questa tremenda fame che da tre giorni mi tormenta.

– Morire prima o dopo è tutt’uno, – soggiunse un altro. – Se la sorte designerà me per prima vittima, non mi lamenterò, ve lo giuro.

– Ma che sorte! – esclamò Emanuel. – Non dobbiamo affatto sacrificarci. Di chi è la colpa di tutte le nostre disgrazie? Nostra, no di certo. Senza quei due giovani che si sono messi in testa di andare a raccogliere un tesoro, noi non ci troveremo in così tristi condizioni. Mangiamo dunque loro.

A quell’atroce proposta, fatta da quel giovane, che fino allora sembrava che avesse nutrito una profonda simpatia, se non verso don Pedro, almeno verso Mina, i marinai si erano guardati l’un l’altro con terrore, lasciando cadere le canne da pesca.

– John, – disse uno di loro, volgendosi verso il pescatore – mettiti di guardia e avvertici se il capitano o Reton si avvicinano. L’affare è grave e non deve essere conosciuto dagli altri, quantunque io sia certo che approveranno pienamente le nostre decisioni. La fame li deciderà.

L’americano si allontanò di alcuni passi, sdraiandosi fra due barili. Il capitano e Reton, seduti presso il timone, parlavano sommessamente e sembrava che non si fossero accorti di quella riunione di antropofagi. Gli altri marinai russavano, dispersi qua e là per il tavolato. La tenda occupata da Mina e da suo fratello era chiusa.

– Riprendiamo il nostro discorso, – disse Emanuel. – Credete di poter aspettare ancora?

– No, risposero in coro i marinai.

– Credete che i vostri compagni si opporranno?

– Nemmeno.

– Allora chiediamo al capitano che ci dia dei viveri o che ci abbandoni la ragazza o il fratello.

– Preferisco la prima, – osservò uno dei congiurati, con un atroce sorriso. – Sarà più tenera.

– E se il capitano si rifiutasse? – chiesero due o tre altri.

– Ricorreremo alla forza, – rispose Emanuel.

– Tu dimentichi però, – osservò un gabbiere – che le armi da fuoco sono nelle mani del capitano.

– Siamo in dodici e i coltelli e le scuri non mancano. Se hai paura, ritirati.

– Ho troppa fame per indietreggiare.

– Chi sarà il nostro capo?

– Hermos, il pilota, – risposero tutti ad una voce.

– È quello infatti che gode maggiore autorità. È il più in gamba di tutti, – osservò Emanuel. – Purché accetti.

– Mi incarico io di farlo decidere, – disse una voce.

In quel momento si udirono tre colpi di tosse. Il pescatore dava il segnale di finire la discussione.

– A domani, – sussurrarono.

Ripresero le canne e si sdraiarono bocconi fingendo di pescare. Reton, che per istinto sospettava di tutto e di tutti, avanzava cautamente verso la prora, con la speranza di sorprendere il traditore. Vedendo quella riunione di marinai la sua fronte si aggrottò.

– Come va la pesca? – chiese.

– Male, bosmano, – rispose il gabbiere. – non c’è carne da mettere sugli ami e i pesci non si lasciano ingannare da un pezzetto di cuoio. Bisognerà bene che il capitano si decida a fornircene, se non vuole farci morire di fame tutti.

– E di quale carne? – domandò Reton.

– Mil diables! – esclamò il pescatore americano, che aveva raggiunti i camerati. – Ce n’è perfino troppa su questa zattera del malanno! Uno di meno non sarà gran cosa.

– Che vuoi dire, John? – chiese il bosmano atterrito.

– Che così non si può andare avanti e che è arrivato il momento di prendere una decisione.

– Quale?

– La diremo domani al capitano.

– Tu hai qualche brutto pensiero, Jonathan, – disse Reton.

– Vedremo se i miei camerati lo troveranno buono o cattivo.

– Io l’approvo già, – asserì Emanuel.

– Taci tu, – rispose Reton con ira.

– Siamo tutti uguali su questa zattera, perché la mia pelle vale quanto la vostra, bosmano.

Reton, furioso, alzò la destra e lasciò andare un manrovescio; ma il marinaio, che si teneva in guardia, con un salto da coguaro fu lesto a fuggire, prorompendo in una fragorosa risata.

– Lascia andare quel ragazzo, Reton, – soggiunse il gabbiere, vedendo che il bosmano si preparava a rinnovare l’attacco. – Sai che ama scherzare e che non conta affatto.

– Io voglio sapere che cosa avete deciso, – disse il bosmano.

– Ti ho detto che lo diremo domani al capitano, – rispose John. – Non c’è alcuna fretta per il momento.

Reton, comprendendo che non sarebbe riuscito a saper nulla e non volendo irritare quegli animi troppo inaspriti dalle lunghe privazioni, si allontanò brontolando. Dopo tutto poteva ancora illudersi di essersi ingannato sul vero significato di quelle parole, non avendo assistito alla riunione di poco prima.

– Bah! – disse tra sé. – Forse proporranno al capitano di cambiare rotta. Non inquietiamo don Josè.

Fingendo che nulla fosse accaduto, aveva ripreso il suo posto presso il timone, sebbene non fosse necessaria alcuna manovra, poiché la calma non si era rotta nemmeno con il cadere della notte e la zattera rimaneva immobile, con la sua vela pendente tristemente lungo l’albero. La notte trascorse senza alcun altro avvenimento degno di nota. Se però il bosmano avesse meglio sorvegliato, avrebbe potuto scorgere dei corpi umani scivolare con cautela fra gli oggetti ingombranti il galleggiante e svegliare gli uomini che dormivano e scambiarsi delle rapide parole. Il capitano si era addormentato e lui, non volendo lasciare quel posto, sempre con la speranza che un po’ di brezza si alzasse di momento in momento, non aveva fatta più alcuna escursione verso prora, sicché quelle misteriose manovre gli erano sfuggite. D’altronde una parte dei marinai aveva ripreso il suo posto, fingendo sempre di dare la caccia ai pesci che mancavano invece assolutamente. Verso le sette, il capitano si svegliò e l’intero equipaggio avanzò in gruppo compatto verso poppa, capitanato dal pilota dell’Andalusia, un pezzo di gigante, forte come un toro, che aveva nelle vene più sangue indiano che europeo. Apparentemente nessuno era armato; era però possibile che sotto le casacche avessero, se non delle scuri, almeno i loro coltelli di manovra.

– Che cosa volete? – chiese il capitano, sorpreso di vedere i suoi fedeli marinai avanzare verso di lui in atteggiamento minaccioso, mentre il bosmano scivolava sotto la tenda per avvertire don Pedro e Mina di tenere pronti i fucili.

– Veniamo a reclamare la colazione, comandante, – rispose Hermos con voce decisa. – Sono due giorni che non mangiamo.

– Avete preso dei pesci la notte scorsa? Portateli qui e li divideremo in parti eguali.

– Quali? Senza carne sugli ami non si possono catturare. Voi lo sapete meglio di me.

– E così?

– Io dico che abbiamo bisogno di carne per sfamarci. Non possiamo contare né sulla pesca, né sulla caccia.

Don Josè era diventato pallidissimo e ira e indignazione gli erano balenate nello sguardo. Aveva ormai compreso che cosa stavano per chiedere i suoi marinai. Non volle però dare la soddisfazione di avere indovinato lo scopo di quella riunione. Con uno sforzo supremo si contenne, incrociò le braccia sul petto e fissando ben in viso il pilota:

– Non so che cosa tu voglia, Hermios, – disse con voce abbastanza tranquilla.

– Un altro al vostro posto mi avrebbe perfettamente compreso, senza chiedere ulteriori spiegazioni. Noi abbiamo fame.

– E io non meno di te, – ribatté il capitano con una certa violenza.

– E allora, comandante, si ricorre ai mezzi estremi. Si tratta di perderne uno, mettiamo anche due, per salvarne tredici o quattordici, – disse il pilota. – Hanno fatto così a bordo della zattera della Medusa e mio nonno ha potuto così ritornarsene in patria.

– Miserabile! – esclamò con voce soffocata il capitano. – Questa non è la zattera della Medusa e c›è qui ancora un comandante per tenere a freno un equipaggio. Piuttosto la morte, che assistere alle spaventose scene svoltesi su quel rottame.

– La fame non ragiona, signore, – disse John, facendosi a sua volta avanti. – Poiché voi non potete darci da mangiare, lasciate che ci procuriamo noi dei viveri come possiamo.

– Anche tu, John, vorresti diventare un antropofago?

– Siamo nel paese dei cannibali, capitano! – gridò Emanuel.

– Decidetevi, comandante, – disse Hermos. – Siamo impazienti di decidere.

– Con una estrazione a sorte?

– Si potrebbe farne anche a meno, – rispose il pilota, con un cinico sorriso. – Prenderemo intanto uno di quelli che sono stati la causa di questo disastro. Senza la loro presenza a bordo dell’Andalusia, noi non ci troveremmo in queste condizioni. Comincino essi a fornirci i mezzi necessari per vivere. Se le loro carni non basteranno, verrà la nostra volta e non ci lamenteremo.

– Mi spiegherai meglio queste oscure parole, – disse il capitano alzando minacciosamente la destra.

– Badate, capitano, che qui noi siamo tutti d’accordo, – rispose il pilota facendo un passo indietro e cacciando una mano dentro la larga fascia di lana rossa che gli cingeva i fianchi e che probabilmente nascondeva il coltello.

– Spiegati meglio, miserabile! – tuonò don Josè.

– Si diceva dunque che qui ci sono delle persone che non hanno mai fatto parte dell’equipaggio dell’Andalusia e che per avidità d’oro ci hanno condotti alla rovina.

Don Pedro e Mina che stavano dietro il capitano, avevano mandato un grido d’angoscia; poi il primo si era scagliato verso il miserabile, chiedendogli:

– Sono io, dunque, che tu vorresti immolare alla tua fame, è vero?

– No, l’equipaggio preferirebbe vostra…

Il pilota non poté finire la frase. La destra del capitano era caduta sul viso del furfante con tale violenza che parve lo schianto di un albero. L’uomo girò due volte su stesso come una trottola, poi stramazzò a terra, sputando, insieme ad una boccata di sangue anche alcuni denti. Un urlo di furore si alzò fra l’equipaggio. I coltelli da manovra fino allora nascosti nelle fasce o sotto le casacche, scintillarono sinistramente ai raggi del sole. Nello stesso momento Reton balzava fuori dalla tenda portando quattro carabine e gridando:

– A voi capitano! A voi, don Pedro! Prendete, señorita! Sparate senza misericordia su queste canaglie!

Don Josè aveva afferrato la carabina che il bravo mastro gli porgeva e l’aveva puntata risolutamente contro i ribelli gridando con accento terribile:

– Indietro e giù le mani, o faccio fuoco!

L’alta statura del comandante, la collera intensa che traspariva dal suo viso, l’autorità non ancora del tutto perduta e forse più di tutto l’accento imperioso, avevano trattenuto i ribelli. E poi non avevano davanti soltanto un uomo. Anche Pedro, Mina e il bosmano avevano caricate precipitosamente le carabine, dirigendo le canne verso il gruppo.

– Mi avete inteso? – gridò don Josè, vedendo che i marinai non si decidevano a lasciare le armi.

Il pilota, dopo aver proferito alcune bestemmie, si era alzato facendo scattare, con un colpo secco, la navaja che teneva nascosta nella fascia, una splendida arma spagnola lunga quasi due piedi.

– Non cedete, camerati! – aveva gridato a sua volta.

Don Josè gli appoggiò la canna della carabina sul petto:

– Se pronunci una sola parola, sei morto! – esclamò.

I marinai, credendo che gli assaliti si preparassero a sparare, erano indietreggiati, urtandosi confusamente. Reton si era lanciato verso di loro, impugnando il fucile per la canna e facendolo roteare come una mazza urlando:

– Via di qui, canaglie!

I marinai che erano in coda si erano già sbandati, scappando a destra e a sinistra. A un tratto echeggiò un urlo acuto, straziante:

– Aiuto!

A babordo della zattera si era udito un tonfo. Qualcuno nella fretta di fuggire era inciampato contro qualche gomena o contro un altro ostacolo e doveva essere caduto in mare. Quel grido giungeva a buon punto, poiché don Josè stava per premere il grilletto e fulminare il pilota. Tutti si erano precipitati verso il margine della zattera scordando subito la fame e lasciando sfumare le loro idee bellicose. Perfino Hermos, troppo contento di essere sfuggito a una morte certa, era accorso seguito da don Josè, da don Pedro e da Mina. Un uomo era caduto in acqua e si teneva disperatamente aggrappato all’orlo della zattera, gemendo e urlando spaventosamente. Attorno a lui la spuma che rimbalzava contro le travi e i barili si tingeva di rosso. Il disgraziato aveva gli occhi dilatati da un terrore impossibile a descriversi e il viso orribilmente sconvolto. Reton, che era giunto per primo, afferrò il marinaio per le braccia e lo trasse sulla zattera. Un urlo di orrore era sfuggito da tutti i petti. Reton stesso lo aveva lasciato cadere, indietreggiando terrorizzato.

– Quest’uomo è spacciato! – aveva gridato il pilota. – Gli accordo mezz’ora di vita.

Forse quella generosità era anche troppa, poiché il povero naufrago aveva perso le gambe, tagliate quasi rasente il ventre da un colpo di denti, dallo squalo che da tanti giorni si teneva nascosto sotto la zattera, aspettando pazientemente la sua preda.

Il tesoro della montagna azzurra

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