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Emilio Salgari
IL TESORO DELLA MONTAGNA AZZURRA
VII. PESCI VELENOSI

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Il marinaio, appena lasciato cadere, aveva allargate le braccia come per cercare di aggrapparsi a qualche cosa, mandando dei gemiti. Dai due tronconi delle cosce, qua e là sbrindellati dai terribili denti dello squalo, sfuggivano, con rapide pulsazioni, due getti di sangue spumoso che si spandevano sulle tavole della zattera. Don Josè, fattosi largo fra i marinai, che stavano immobili, come istupiditi, si era curvato sul disgraziato, dicendo con voce commossa:

– Mio povero Escobedo… coraggio!

Il marinaio lo fissò in viso con due occhi già velati dalla morte: poi, alzando una mano, disse con voce fioca:

– Prima… o dopo … ma non così… soffro… soffro troppo… uccidetemi… per pietà…

– Vediamo prima, si può forse ancora salvarti. Ho visto altri uomini sopravvivere a queste ferite.

– Uccidetemi… capitano… sono un uomo finito, – continuava a gemere il disgraziato. – Non tentate nulla… finitemi…

– Un pezzo di vela, – disse il capitano. – cerchiamo prima di tutto di arrestare il sangue.

– Non fate altro che prolungare l’agonia di Escobedo, – osservò il pilota, che lanciava sguardi bramosi sul moribondo.

– Non importa, – rispose don Josè. – Io debbo tentare tutto.

– Sì, per strapparci anche quella carne, – mormorò ferocemente Hermos. – Invoca la morte: uccidetelo e avremo il nostro pasto.

Il capitano, aiutato da Reton e da Pedro, avvolse le spaventose ferite, non con la speranza di strappare alla morte il disgraziato, ma per fermare il sangue e farlo soffrire meno. Sapeva già che era ormai irrimediabilmente condannato. Aveva però appena finita la fasciatura quando Escobedo mandò un urlo così spaventoso da far indietreggiare i marinai che lo avevano circondato.

– Dategli una coltellata, capitano! – gridò il pilota. – Non vedete che soffre troppo? Fategli questa grazia.

– Mai, – rispose don Josè. – Non ho il diritto di sopprimere una vita umana.

– Ormai è condannato.

– Attenda la sua sorte.

– Se voleste…

– Taci, miserabile. Lascialo morire in pace.

La morte non era lontana. Escobedo pareva fosse stato colto da una sincope, poiché aveva chiusi gli occhi e le sue labbra rimanevano mute. Solo un lungo brivido, che di quando in quando scuoteva quel misero corpo e che causava una nuova uscita di sangue, indicava che lo sventurato era ancora vivo. Il capitano aveva fatto allontanare Mina, poi si era inginocchiato presso il moribondo, senza abbandonare la carabina. I marinai, muti, profondamente impressionati, erano rimasti in piedi, seguendo attentamente quei brividi che diventavano di momento in momento meno intensi. Quell’agonia straziante durò un paio di minuti, poi il corpo del mutilato s’irrigidì.

– Morto! – esclamò don Josè, dopo aver posato una mano sul cuore del defunto. – Ed è il secondo.

– Questo servirà almeno a qualche cosa, – disse il pilota a mezza voce.

Fortunatamente né il capitano né Reton avevano udito quelle parole.

– Copritelo con un pezzo di tela, – comandò don Josè. – Lo getteremo in mare questa sera.

Hermos si era fatto avanti insieme a sette od otto compagni, i più affamati e anche i più esasperati.

– Vorreste offrire a quel pescecane del malanno anche la cena? – chiese a denti stretti. – Non ne ha avuto abbastanza delle due gambe?

– Cercagli un’altra tomba tu, – rispose il capitano, volgendogli le spalle.

– Ah, la vedremo! – brontolò il pilota. Poi, volgendosi verso i suoi amici, soggiunse: – Mettere una guardia d’onore intorno a questo cadavere. Che nessuno lo tocchi. Appartiene a noi e lo avremo.

Il capitano, ancora profondamente scosso per il tragico avvenimento, si era ritirato sotto la tenda dove già si trovavano Mina e don Pedro tenendo avanti a loro le carabine e le munizioni. Reton si era fermato di fuori, di sentinella, temendo qualche brutto tiro da parte dei ribelli, i quali non riconoscevano più alcuna autorità. Il capitano, seduto davanti ai due giovani, tenendo il fucile fra le ginocchia.

– Miei poveri amici, – disse. – Questa è la guerra. D’ora in poi, se vi preme la vita, sarete anche voi costretti a vigilare attentamente. Ringraziamo Dio di essere noi soli in possesso delle armi da fuoco.

– Che la follia abbia colpito quegli uomini? – chiese don Pedro. – Ancora pochi giorni fa vi obbedivano ciecamente e avevano in voi una immensa fiducia.

– I lunghi patimenti rendono spesso gli uomini feroci come belve. Se una notte o l’altra ci sorprendono, per noi è finita. La fame, implacabile, li avventerà contro di noi.

– Avranno il coraggio di cibarsi di carne umana? – chiese Mina, facendo un gesto di ribrezzo. – A me sembrerebbe impossibile.

– Ebbene, vi dico che non rispondo del cadavere di quel povero Escobedo.

– Non lo farete gettare in acqua?

– Mi proverò, señorita, ma temo purtroppo di trovare una feroce resistenza da parte di tutti.

– E lo lascerete divorare?

Il capitano crollò il capo senza rispondere, poi si alzò e uscì dietro la tenda. I marinai si erano sdraiati fra i barili e le travi, coprendosi con dei lembi di tela per ripararsi dagli implacabili raggi solari che cadevano a piombo, inondando l’oceano di una luce così accecante da far dolorare gli occhi. Una calma pesante gravava sulla disgraziata zattera, fluttuante sulla sconfinata distesa d’acqua. Era sempre l’immensità deserta, senza navi, senza terre, senza pesci: l’immensità della disperazione. Il capitano contemplava tristemente da parecchi minuti quel deserto d’acqua, non meno terribile del grande Sahara, quando scorse una fregata sorgere dai confini dell’orizzonte e avviarsi in direzione della zattera. Il rapidissimo volatile fendeva lo spazio con la velocità del fulmine tenendo le ali spiegate e quasi immobili. Il capitano, che non aveva lasciato la sua carabina a due colpi, si era prontamente alzato.

– È Dio che la manda, – disse. – Sarà poca cosa, appena un boccone per ciascuno, ma forse basterà a calmare la ferocia di questi affamati.

Aveva caricata rapidamente la carabina. La fregata non si trovava che a cento passi e stava per passare, rapida come una saetta, al di sopra della zattera. Due spari rimbombarono e l’uccello, arrestato di colpo nel suo volo, venne a cadere presso l’albero, fulminato da una scarica di piombo. I marinai, che sonnecchiavano sotto le tende, credendo che si trattasse di un attacco improvviso, erano balzati fuori, tenendo in pugno i coltelli di manovra, le navaje e le scuri. La voce del pilota si fece subito udire beffarda, insolente:

– Tanto baccano per un così miserabile uccello! Non valeva la pena che vi disturbaste, capitano, mentre c’è un morto a bordo.

Don Josè, udendo quelle parole, era indietreggiato verso la tenda, sulla cui soglia, attirati dagli spari, s’eran presentati don Pedro, Mina e il bosmano, gridando:

– Un’altra carabina!

– Ecco la mia, capitano, – rispose Reton. – È carica con due palle incatenate.

Il capitano la impugnò e mosse verso Hermos, che sembrava lo sfidasse sogghignando. Una collera terribile aveva alterati i lineamenti di don Josè.

– Cosa hai detto, tu? – chiese al pilota.

I marinai, prevedendo che stava per succedere qualcosa di grave, si erano affrettati ad alzarsi e a radunarsi dietro il loro nuovo capo.

– Parla, – ripeté il capitano, mentre, a loro volta, il bosmano e don Pedro accorrevano in suo soccorso.

Hermos esitò qualche istante ancora a rispondere, poi, vedendosi spalleggiato dai suoi, rispose:

– Ho detto che non valeva la pena di sprecare della polvere per abbattere un uccello che non potrà servire nemmeno di colazione a due o tre persone, con la fame che abbiamo in corpo.

– Hai aggiunto qualche altra cosa, furfante.

– Sì, che a bordo c’è un morto che potrebbe fornire un pasto ben più abbondante. Voi tenetevi pure la fregata, se siete diventato schizzinoso; noi ci terremo Escobedo.

– E cosa volete farne? – urlò il capitano.

– Mangiarlo, signore, – rispose audacemente il capo dei ribelli.

– E hai il coraggio di dirmelo sul viso?

– Eh, vivaddio, noi non vogliamo crepare di fame, signore, e per noi, nelle condizioni in cui ci troviamo, carne umana o carne di pescecane è tutt’uno! È vero, camerati?

Un mormorio di approvazione fu la risposta.

– Miserabili! Osereste tanto? Dove sono i miei fedeli marinai che fino a pochi giorni fa obbedivano al loro capo? Siete diventati tanti bruti?

– Ve l’ho già detto, signore: la fame non ragiona.

– Voi non commetterete una simile infamia davanti ai miei occhi.

– Se non volete vedere, ritiratevi sotto la tenda e lasciate fare a noi, – disse John il pescatore.

– Voi non toccherete quel cadavere che è quello di un vostro camerata; più ancora, di un vostro amico. Gettatelo subito in acqua.

– No, capitano, – risposero otto o dieci voci.

– Obbedite o faccio fuoco contro chi mi rifiuta obbedienza.

– Sarete costretto a ucciderci tutti, signore, perché nessuno vi obbedisce più, – disse il pilota. – Nella sventura si diventa tutti eguali.

– È una ribellione?

– Chiamatela come volete, a noi non importa. Qui ormai non regna che la fame.

– Gettate in acqua quel cadavere! – ripeté il capitano, alzando la carabina. – Io sono sempre il comandante dell’Andalusia e mi farò rispettare a colpi di fucile, se sarà necessario.

I marinai invece di obbedire, si schierarono davanti alla salma del povero Escobedo, per impedire che il bosmano e don Pedro, i quali si erano già fatti avanti, eseguissero l’ordine.

– Sgombrate! – urlò il capitano.

– Rayo de dios! Finiamola con quest’uomo che ci impedisce di sfamarci! – gridò Hermos, levando la navaja e balzando in avanti. – Sotto camerati!

Don Josè aveva puntato rapidamente il fucile. Uno sparo rintronò e il capo dei ribelli stramazzò sulla tolda, con il cranio fracassato dalle due palle incatenate. Un urlo di orrore e di rabbia si era alzato fra i marinai, poi seguì un profondo silenzio. Tutti sembravano paralizzati dallo stupore.

– Dio mi perdoni! – esclamò don Josè. – Quell’uomo lo ha voluto.

I ribelli si ritiravano davanti a lui, atterriti dall’atto audace, stringendo furiosamente i coltelli e le scuri, che a nulla valevano contro le armi da fuoco. In quel momento si udì un forte scricchiolio, poi si udì il bosmano gridare:

– Il vento! Il vento! Alla vela, camerati! La terra dei Canaki sta davanti a noi!

A quel grido, i ribelli si guardarono l’un l’altro con un certo stupore, poi si gettarono come un sol uomo verso l’albero, issando rapidamente la vela. Sembrava d’un tratto avessero dimenticata la fame, la morte del loro capo improvvisato e ogni idea di vendetta. Solo Emanuel era rimasto immobile, mordendosi le labbra a sangue. Il vento, una fresca brezza che spirava da levante, si era alzato increspando fortemente la superficie dell’oceano. Il bosmano e don Josè erano accorsi al timone, dopo aver fatto segno a Mina e a don Pedro di seguirli, nel timore di qualche altra brutta sorpresa. Ormai non si fidavano più dei loro marinai, anche se privati del loro capo e istigatore. La zattera si era messa a correre, ballonzolando pesantemente sulle piccole ondate che si formavano, lasciandosi a poppa una larga scia spumeggiante. La fiducia rinasceva in tutti i cuori. Se quella brezza durava era la salvezza, poiché nessuno dubitava che la terra dei Kanaki si trovasse ormai a una distanza relativamente breve.

– Questo vento ha salvata la situazione e impedito un massacro, – disse il bosmano a don Josè. – Sia dunque benedetto!

– Temo tuttavia che questa calma sia passeggera. Se non troveremo nulla da mangiare i nostri uomini torneranno alla carica.

– Il loro capo è morto, – osservò don Pedro.

– Non tarderanno a nominarne un altro. È quel John ora che mi dà da pensare.

– Abbatteremo anche lui, – disse il bosmano.

– Uccidere mi ripugna. Quegli uomini fino a ieri sono stati i miei bravi marinai. Mi pesa già di avere sulla coscienza un omicidio.

– E se tardavate un po’, capitano, quel furfante vi squarciava il ventre con un buon colpo di navaja.

– Non dico di no, Reton, sarei però stato più lieto se l’avessi risparmiato… State in guardia, amici, perché se prima di questa sera non scopriremo le coste della Nuova Caledonia, avremo un’altra ribellione.

Il tesoro della montagna azzurra

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