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Emilio Salgari
JOLANDA, LA FIGLIA  DEL CORSARO NERO
Capitolo primo. La taverna «El Toro»

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Quella sera la taverna El Toro, contrariamente al solito, brulicava di persone, come se qualche importante avvenimento fosse avvenuto o stesse per succedere.

Quantunque non fosse una delle migliori di Maracaybo, frammiste a marinai, a facchini del porto, a meticci e ad indiani caraibi, si vedevano – cosa piuttosto insolita – delle persone appartenenti alla migliore società di quella ricca ed importante colonia spagnola: grossi piantatori, proprietari di raffinerie di zuccheri, armatori di navi, ufficiali della guarnigione e perfino qualche membro del governo.

La sala, piuttosto ampia, coi muri affumicati, dall’ampio camino, malamente illuminata da quelle incomode e famose lampade usate sul finire del sedicesimo secolo, ne era piena. Nessuno però beveva ed i tavolini, addossati alle pareti, alla rinfusa, erano deserti. Invece la grande tavola centrale di vecchio noce, lunga più di dieci metri, era circondata da una quadrupla fila di personaggi, che parevano in preda ad una vivissima agitazione e che scommettevano con un furore, che avrebbe meravigliato anche un moderno americano degli Stati dell’Unione.

«Venti piastre per Zambo!»

«Trenta per Valiente!»

«Valiente si prenderà una tale speronata che cadrà al primo colpo!»

«Sarà Zambo a cadere!»

«E voi, don Raffaele?»

«Punterò su Plata, è più robusto dell’uno e dell’altro e avrà la vittoria finale!»

«Canarios! Un poltrone quel Plata».

«Come vorrete, don Alonzo, ma io aspetto il suo turno!»

«Basta!»

«Avanti i combattenti!»

«Chiusura! Chiusura!»

Un tocco di campana annunciò che le scommesse erano terminate, e ai clamori assordanti di prima successe un profondo silenzio.

Due uomini erano entrati nella sala per due porte diverse e si erano collocati alle due estremità del tavolo. Portavano fra le braccia due splendidi galli, uno tutto nero colle penne a riflessi azzurro-dorati; l’altro rosso a striature bianche e nere.

Erano due careadores ossia allevatori di galli combattenti, professione anche oggidì assai lucrosa e molto apprezzata nelle antiche colonie spagnole dell’America Meridionale.

In quell’epoca la passione per quello sport barbaro, aveva raggiunto un vero fanatismo e si può dire che non passava giorno senza che vi avvenissero combattimenti di galli. E non mancavano perfino i giudici di campo, il cui giudizio era inappellabile.

L’educazione dei galli battaglieri richiedeva però cure minuziose, quanto quelle dei bulldog destinati ad affrontare i tori, se non di più. Essi venivano abituati a misurarsi ancora quand’erano pulcini. Avevano un nutrimento speciale, composto per lo più di granoturco, il cui numero di granelli era stabilito per ogni pasto. Per dare agli speroni maggior forza ed impedire che potessero guastarsi, si proteggevano con guaine di cuoio foderate di lana.

Alla comparsa dei due galli, un entusiastico evviva era scoppiato fra gli spettatori:

«Bravo, Zambo!»

«Forza, Valiente!»

Il giudice di campo, un grosso raffinatore di zucchero, che doveva conoscere le regole complicate di quel turf, pesò minuziosamente i due volatili, misurò la loro alatura e la lunghezza degli speroni onde eguagliare le condizioni di combattimento, quindi una voce forte dichiarò che l’eguaglianza era perfetta e che tutto andava benissimo.

I due galli furono subito lasciati liberi, collocandoli alle due estremità della tavola.

Come abbiamo detto, erano entrambi bellissimi e di razza andalusa, la migliore e la più battagliera.

Zambo era più alto di qualche pollice del suo avversario, con un becco robusto, un po’ arquato alla sua estremità come quello dei falconi, cogli artigli piuttosto corti ed invece assai acuminati. El Valiente appariva più robusto, più tozzo, con gambe più grosse e speroni più lunghi, il becco era invece più corto, ma più largo e aveva sulla testa una bella cresta d’un rosso quasi violaceo e gli occhi più brillanti, anzi più provocanti.

Appena messi in libertà, i due galli si rizzarono in tutta la loro altezza, starnazzando le ali ed arruffando le penne del collo e lanciarono quasi simultaneamente il loro grido di guerra e di sfida.

«Assisteremo ad una bella lotta» disse un ufficiale della guarnigione.

«Io ritengo invece che sarà breve» disse don Raffaele «e che la vittoria la deciderà Plata».

«Silenzio!» gridarono tutti.

I due galli stavano per accostarsi, tenendo la testa bassa, quasi rasente alla superficie del tavolo, quando due passi pesanti ed uno strascinare di spadoni, li fece arrestare.

«Chi disturba la lotta?» chiede il giudice di campo, con stizza.

Tutti si erano voltati corrugando la fronte e brontolando.

Due uomini erano entrati nella taverna, aprendo fragorosamente la porta, non immaginandosi certo di disturbare quelle brave persone e tanto meno i due galli combattenti.

Erano due tipi di bravacci o di avventurieri, personaggi che si trovavano allora di frequente nelle colonie spagnole d’oltre Atlantico. D’aspetto piuttosto brigantesco, portavano vesti un po’ sgualcite, cappellacci di feltro dalle tese ampie con piume di struzzo quasi senza barbe, alti stivali di cuoio giallo, a tromba molto larga, e posavano fieramente la sinistra su certi spadoni, che dovevano mettere i brividi indosso a più d’un tranquillo borghese di Maracaybo.

Uno era di statura molto alta, coi lineamenti piuttosto angolosi, coi capelli d’un biondo rossastro; l’altro invece più basso e più membruto, con barba nera ispida.

Tanto l’uno che l’altro poi avevano la pelle assai abbronzata, arsa dal sole e dai venti del mare.

Udendo gli spettatori a mormorare e vedendosi addosso tutti quegli sguardi un po’ crucciati, i due avventurieri alzarono i loro spadoni e s’avviarono in punta dei piedi verso un tavolo situato nell’angolo più oscuro, ordinando ad un garzone, che era prontamente accorso, un boccale di Alicante.

«C’è numerosa compagnia qui» disse l’uomo più basso a mezza voce. «Troveremo forse in questa taverna quanto ci occorre».

«Sii prudente, Carmaux».

«Non temere, amburghese».

«Toh!… Ecco un bellissimo spettacolo! Un combattimento di galli! Da un pezzo non ne vedevo».

«Bisognerebbe abbordare qualcuno di quegli spettatori».

«Basta che non sia un ufficiale».

«Prenderò un borghese, Wan Stiller» disse Carmaux. «Al capitano poco importa, purché sia un maracaybino».

«Guarda là quell’uomo panciuto, che mi ha l’aria di essere un qualche ricco piantatore o qualche raffinatore di zuccheri».

«Che possa saperne qualche cosa, quell’uomo?»

«Tutti questi grossi piantatori e commercianti sono in relazione col governatore. E poi, chi non ricorda il Corsaro Nero qui? Ne abbiamo fatte di belle con quel valoroso gentiluomo».

«Maledette guerre!» esclamò Carmaux «Se invece di tornare nel suo Piemonte, fosse rimasto qui, forse sarebbe ancora vivo».

«Taci, Carmaux» disse l’amburghese. «Tu mi rattristi troppo. Mi sembra impossibile che sia morto. E se il capitano Morgan fosse stato male informato?»

«Egli lo ha saputo da un compatriota del Corsaro Nero, che ha assistito alla sua fine».

«Dove l’hanno ucciso?»

«Sulle Alpi, mentre combatteva valorosamente contro i francesi che minacciavano d’invadere il Piemonte. Si dice però che quel prode la cercasse la morte».

«Perché, Carmaux? Tu non me lo hai mai detto prima d’ora».

«Non lo seppi che ieri dal signor Morgan».

«Quale motivo lo spingeva a giuocare pazzamente la vita?» chiese l’amburghese.

«Il dolore d’aver perduta la moglie, la duchessa di Wan Guld, morta nel dare alla luce la bambina».

«Povero signor di Ventimiglia! Così valoroso, così leale, così generoso… Verranno altri filibustieri, ma come lui no, mai».

Uno scoppio fragoroso di grida li fece alzare entrambi. Gli spettatori che circondavano il tavolo parevano in preda ad una vera frenesia. Alcuni acclamavano, altri imprecavano, tutti si agitavano, sbracciandosi e pestando i piedi.

Carmaux e l’amburghese, vuotate d’un fiato le tazze, si erano accostati agli spettatori, mettendosi specialmente dietro al grasso piantatore o raffinatore di zucchero, che era quel señor Raffaele che voleva riservare le sue scommesse per il Plata.

I due galli, dopo una serie di finte e di salti, si erano attaccati con furore e Zambo aveva ricevuto un colpo di sperone sulla testa perdendo parte della sua bella cresta e anche un occhio.

«Bel colpo!» mormorò Carmaux, che pareva se n’intendesse.

Il careador si era subito impadronito del vinto, bagnandogli le ferite coll’acquavite, onde arrestarne almeno per qualche istante il sangue.

El Valiente, tronfio della vittoria riportata, cantava a piena gola, pavoneggiandosi e starnazzando le sue belle ali.

La lotta non era però che cominciata, perché Zambo non si poteva ancora considerare fuori combattimento. Anzi, malgrado fosse cieco di un occhio, poteva disputare a lungo la vittoria ed anche riuscire a strapparla all’avversario.

Si capisce che ormai il favorito era El Valiente che aveva dato un così bel saggio della sua bravura.

Perfino don Raffaele si era sentito tentare. Dopo un po’ di esitazione aveva gridato:

«Cinquanta piastre sul Valiente. Chi tiene? chi…»

Un colpetto sulla spalla destra gl’interruppe la frase e lo fece voltare indietro.

Carmaux non aveva ancora alzata la mano.

«Che cosa volete, señor?» chiese il raffinatore o piantatore che fosse, aggrottando la fronte e mostrandosi un po’ offeso per quella familiarità.

«Volete un consiglio?» disse Carmaux. «Puntate sul gallo ferito».

«Siete forse un careador?»

«A voi poco deve importare se lo sia o no. Se volete, punto duecento piastre su quello…»

«Su Zambo?» chiese il piantatore, facendo un gesto di sorpresa. «Avete del denaro che vi pesa troppo nelle tasche?»

«Niente affatto, anzi sono venuto qui per guadagnarne».

«E puntate su Zambo?»

«Sì, e vedrete come, fra poco, concerà l’altro. Scommettete con me, señor».

«Sia» disse il grasso piantatore, dopo qualche esitazione «Se perdo mi rifarò con Plata».

«Scommettiamo insieme?»

«Accetto».

«Trecento piastre per Zambo!» gridò Carmaux.

Tutti gli sguardi si erano fissati su quell’avventuriero, che scommetteva una somma relativamente grossa su un gallo ormai semi-sconfitto.

«Tengo io!» gridò il giudice di campo. «Avanti i combattenti».

Un momento dopo i due campioni si ritrovavano l’uno di fronte all’altro.

Zambo, quantunque così mal conciato e sanguinante, assalì per primo, saltando molto in alto, ma anche questa volta sbagliò il colpo e fu respinto.

El valiente che si teneva pronto, s’alzò in tutta la sua altezza, poi con uno slancio improvviso si precipitò sull’avversario tentando di cadergli sul cranio per spaccarglielo con un buon colpo d’artiglio.

Zambo però, si era prontamente rimesso, si teneva in guardia colle ali pronte alla parata e la testa ritirata, e gli rispose con un colpo di becco così bene assestato, da strappargli di colpo uno dei due barbigli della gola.

«Bravo gallo! Gallo fino!» gridò il piantatore.

Aveva appena pronunciate queste parole, quando El Valiente che perdeva sangue in abbondanza, si precipitò sul rivale colla velocità e l’impeto del falcone.

I due volatili si videro per alcuni istanti dibattersi, uniti strettamente, poi rotolarsi sulla tavola, poi diventare immobili come se si fossero uccisi reciprocamente. Zambo era rimasto sotto l’avversario e non si scorgeva quasi più.

Don Raffaele si era voltato verso Carmaux, dicendogli con accento secco:

«Abbiamo perduto».

«Chi ve lo dice?» chiese l’avventuriero. «Ah! Guardate! Trecento piastre sono già nelle nostre tasche, señor».

Zambo non era affatto morto, anzi tutt’altro. Quando gli spettatori cominciavano a disperarsi, con una mossa improvvisa era sfuggito di sotto all’avversario e si era alzato, cantando a piena gola e piantando gli speroni nel corpo del vinto.

El Valiente era morto e giaceva inerte col cranio spaccato.

«Ebbene señor, che cosa ne dite?» chiese Carmaux, mentre attorno alla tavola scoppiava una salva d’imprecazioni all’indirizzo del vinto.

«Dico che voi avete avuto un colpo d’occhio ammirabile» rispose il piantatore, con accento lieto.

Carmaux ritirò le trecento piastre e ne fece due mucchi eguali, dicendo:

«Centocinquanta per ciascuno, señor. La partita non è stata cattiva».

«No, v’ingannate» disse don Raffaele.

«E perché?»

«Non ho scommesso che cinquanta piastre».

«Perdonate, ma noi abbiamo giuocato in società. Raccogliete le vostre piastre che sono state guadagnate lealmente contro il giudice di campo che ha puntato sul morto».

«Siete molto ricco voi per essere così generoso?» chiese il piantatore guardandolo con molto stupore.

«Non ci tengo al denaro: ecco tutto» rispose Carmaux.

«Voglio farvi guadagnare anch’io, señor. Puntate sul gallo che porteranno ora».

«Vedremo».

Un altro careador era in quel momento entrato, deponendo sulla tavola un gallo di forme splendide, più alto di Zambo, con una coda magnifica e le penne tutte bianche a riflessi argentei.

Era El Plata.

«Che ne dite señor?» disse fon Raffaele, volgendosi verso Carmaux.

«Bellissimo senza dubbio» rispose l’avventuriero, che lo guardava attentamente.

«Puntate?»

«Sì, cinquecento piastre su Zambo».

«Sul Plata volete dire».

«Señor, cinquecento piastre per Zambo. Chi ci tiene?» gridò.

«È una follìa».

«Scommettete con me?»

«Che sia invincibile quel Zambo?»

«Questa sera sì!»

«Siete il diavolo, voi?»

«Se non sono veramente Belzebù, sarò un suo prossimo parente» rispose Carmaux, ironicamente. «Orsù, ci tenete con me?»

«Sì, per la metà. El Plata, che era il mio favorito, a mare».

Le scommesse erano finite ed il silenzio era tornato nell’ampia sala.

I due galli, appena trovatisi di fronte, si erano assaliti con furore, sbattendo le ali e strappandosi mazzetti di penne.

Parevano entrambi della stessa forza e Zambo, quantunque semi-cieco, non accordava tregua all’avversario.

Ben presto il sangue cominciò a macchiare la tavola. I due combattenti si erano già trafitti parecchie volte cogli speroni ed El Plata aveva la bella cresta violacea a brandelli.

Di tanto in tanto, come di comune accordo, s’arrestavano per riprendere lena e scuotere i grumi di sangue che li acciecavano, poi tornavano alla carica con maggior furia di prima. Al quinto attacco El Plata rimase sotto a Zambo.

Un coro d’imprecazioni rimbombò nella sala, giacché i più avevano scommesso per il nuovo gallo. El Plata però, con una scossa improvvisa riuscì a liberarsi dalla stretta, ma non riuscì a parare un colpo di becco dell’avversario che gli strappò un occhio.

«Così almeno sono pari» disse Carmaux. «L’uno e l’altro ne hanno perduto uno».

Il careador si era precipitato verso El Plata. Gli fece ingoiare un sorso d’acquavite, gli lavò la testa colla spugna per sbarazzarlo dai grumi di sangue, gli sprizzò nell’orbita vuota un po’ di succo di limone, poi tornò a lanciarlo sulla tavola, dicendo:

«Su, mio bravo».

Aveva avuto troppa fretta. Il povero gallo, ancora stordito, non poté far fronte al fulmineo attacco del prode Zambo e cadde quasi subito colla testa spaccata da un furioso colpo di becco.

«Che cosa vi avevo detto, señor?» disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.

«Che voi siete uno stregone, od il migliore careador dell’America».

«Con tutte queste piastre che abbiamo guadagnato, possiamo permetterci il lusso di vuotare una bottiglia di Xeres. Ve l’offro io, se non vi rincresce».

«Lasciate a me questo onore».

«Come volete, señor».

Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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