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CAPITOLO QUARTO. Il Figlio del Sole

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Le statue di Memnone godevano presso gli antichi egizi una venerazione grandissima, che non cessò nemmeno dopo, quando i romani, quei formidabili conquistatori del mondo allora noto, ebbero invase le rive del sacro Nilo, anzi ebbero anche essi una vera venerazione pel fatto, allora straordinario ed inesplicabile, che una di esse, sia allo spuntare del sole che al tramontare dell’astro, dava un suono.

Gli antichi egizi affermavano che solo quando un Faraone s’accostava alle due statue, quella nota strana, che somigliava al crepitìo dello zolfo quando è riscaldato colla mano, ma infinitamente più forte, si faceva udire.

Che realmente suonasse la pietra, nessuno lo mette in dubbio, quantunque oggi sia muta come qualunque altra pietra.

Strabone fu il primo ad affermarlo, avendo udito quello strano crepitìo in compagnia d’Elio Gallo, che era governatore dell’Egitto, quantunque non potesse discernere se quella vibrazione partisse dal piedistallo o dalla statua. Giovenale, che meno d’un secolo dopo fu esiliato a Sienne, nell’alto corso del Nilo, pure lo udì e anche Plinio parlò di quel prodigio.

Se agli Egiziani la cosa sembrava meravigliosa, si trattava invece d’un fatto semplicissimo che fu più tardi spiegato.

La statua parlante, come la si chiamava, e che sembra rappresentasse un Faraone delle prime dinastie, in seguito ad un terremoto, era stata spezzata all’altezza del ventre, mentre la sua vicina aveva resistito alla formidabile scossa. Da quell’epoca cominciò a suonare.

La natura del sasso, formato da materiali eterogenei, tenuti insieme da una pasta silicea durissima, era tale che sotto le repentine variazioni della temperatura crepitava. Ora quella variazione non accade che al sorgere del sole, dopo le notti freschissime di quel clima, e un po’ dopo il tramonto.

Ed infatti, durante il giorno e la notte, la statua non faceva udire alcun suono.

Quando Settimio Severo, forse per superstizione o per onorare Memnone, figlio dell’aurora, secondo le antiche leggende egiziane, fece restaurare il colosso con cinque enormi massi di marmo di grès, che si vedono tuttora, perché quelle due statue hanno resistito, al pari delle poche piramidi, alle ingiurie del tempo, la voce cessò d’un tratto. Quei massi furono una sordina: la vibrazione fu inceppata e Memnone, con grande dispiacere degli egizi, non parlò più: d’altronde i Faraoni erano ormai scomparsi e non erano più là per imporle di farsi udire.

Ounis e Mirinri, non scorgendo nessuno nei dintorni dei due colossi, s’avvicinarono rapidamente, cominciando il cielo a prendere, verso levante, una leggera tinta rossa che indicava l’imminente sorgere del sole.

Quelle due statue, che erano quattro o cinque volte più alte d’un elefante, rappresentavano due uomini seduti sulle ginocchia ed erano formate di massi enormi, di forma quadrata, saldamente cementati fra di loro.

Sul capo avevano una specie di fichu triangolare, che cadeva lungo i lati della faccia, allargandosi al di sopra delle spalle ed avevano sotto il mento quelle strane barbe, formate da una specie di dado, più stretto in cima e più largo sotto, che si osserva in tutti gli antichi monumenti egiziani.

Il basamento, che era di proporzioni enormi e tanto alto che Mirinri non vi poteva giungere nemmeno allungando le mani, era tutto coperto di lettere e adorno d’ibis, gli uccelli sacri degli antichi egizi ed emblema dei Faraoni delle prime dinastie.

Sulla statua di destra si scorgeva distintamente la spaccatura prodotta dalla scossa del terremoto, allargantesi a circa metà del ventre.

Mirinri si era arrestato, guardando con visibile emozione i due colossi. Se egli era veramente un Faraone, il suono doveva udirsi; se rimaneva muto quale delusione!

Guardò con un po’ d’ansietà Ounis e lo vide tranquillo, come un uomo sicuro del fatto suo. Quella calma lo rassicurò.

«Vieni,» disse il sacerdote, dopo aver guardato il cielo. «Questo è il momento.»

Girarono intorno alla statua che era offesa e trovata una gradinata salirono sul piedestallo mettendosi fra le gambe che il colosso teneva aperte. Era quello il punto migliore per udite il suono.

«Parlerà il figlio dell’aurora?» chiese Mirinri che era diventato pallido e che pareva nervosissimo.

«Sì, perché tu sei il figlio di Teti,» rispose il sacerdote.

«E se ti avessero ingannato?»

Un sorriso comparve sulle labbra d’Ounis.

«Ascolta,» disse poi. «Dopo mi dirai se tu sei o no un Faraone.»

Il sole s’alzava in quel momento radioso, sfolgorando sui due colossi i suoi raggi, che appena sorti erano già diventati ardenti.

«Ascolta! Ascolta!» ripetè Ounis.

Mirinri, curvo verso la massa della statua, tendeva gli orecchi. Il cuore, che dinanzi al leone non si era alterato nemmeno un istante, ora gli batteva forte come quando aveva stretta fra le braccia la fanciulla che aveva strappato al coccodrillo, la prima donna che aveva veduto da quando il sacerdote l’aveva portato nel deserto.

Il sole s’alzava rapido, allungando i suoi raggi sulla sconfinata pianura, ma la statua rimaneva muta. Anche Ounis aveva aggrottata la fronte.

Ad un tratto si fece udire un leggero crepitìo, che andò aumentando d’intensità, poi una nota limpida, un do echeggiò.

Un grido era sfuggito dalle labbra del giovane.

Si era alzato rapidamente, cogli occhi accesi, il viso trasfigurato da una gioia inesprimibile. Guardò il sole e gridò con voce tuonante:

«Sì, io discendo da te, Osiride, sono un Faraone! L’Egitto è mio!»

Ounis sorrideva, lieto di quell’improvviso scatto d’entusiasmo. Anche egli sembrava profondamente commosso.

«Ounis, amico mio, alla piramide!» disse poscia il giovane, con esaltazione. «Dammi l’ultima prova che io sono il figlio di Teti, che il mio corpo è divino ed io andrò a uccidere, con questo istesso ferro che spense il re dei deserti, l’usurpatore.»

«Così ti volevo vedere,» rispose il sacerdote. «Il sangue della stirpe guerriera, che io temevo si fosse addormentato per sempre, si è finalmente risvegliato.»

«Alla piramide, Ounis» ripetè il giovane, il cui entusiasmo non si era ancora calmato. «Andiamo ad interrogare il fiore d’Osiride.»

«Lo vedrai dischiudere le sue corolle millenarie,» rispose il sacerdote.

La piramide, come abbiamo detto, che avrebbe dovuto servire di tomba alla dinastia iniziata da Pepi, non era lontana.

La sua mole imponente si ergeva appena ad un mezzo miglio dalle due gigantesche statue, lanciando la sua cima a centocinquanta metri.

Tutte le piramidi, fatte innalzare dalle diverse dinastie che regnarono in Egitto migliaia d’anni prima della nascita di Gesù Cristo, avevano proporzioni colossali.

Molte furono distrutte, per edificare coi loro materiali Tebe ed altre città sorte dopo la gloriosa Menfi, tuttavia ne sussistono anche oggidì parecchie e le più celebri e le più visitate sono quelle di Cheope, di Chefrèn e di Micerino, le quali sono d’altronde le più gigantesche che si conoscano, coprendo suppergiù ciascuna cinque ettari di terreno ed avendo un’altezza che varia fra i centoquaranta ed i centoquarantasei metri.

Si calcola che per costruire quelle tombe, siano occorsi per ciascuna 250.000 metri cubi di materiali!

Quali somme poi abbiano costato e quante migliaia e migliaia di operai siano stati necessari per innalzarle, sarebbe impossibile dirlo. Si sa solo, consultando gli antichi papiri, che per erigere quella di Cheope non si spesero meno di quattro milioni di talenti egiziani, pari a più di dieci milioni di lire in solo aglio, prezzemolo e cipolle, vegetali che costituivano però il principale nutrimento di quegli infaticabili lavoratori reclutati, sempre per maggior economia, fra i prigionieri di guerra.

La piramide fatta innalzare da Teti, come abbiamo detto, non poteva rivaleggiare con quelle tre sopra menzionate; tuttavia era ancora così enorme da far arrossire – se fosse possibile – i più grandi edifizi moderni, anche i palazzoni a venti piani che costruiscono oggidì i nord-americani.

Una gradinata, di nove metri per lato, misura tenuta per tutte le piramidi, conduceva sulla cima, ove doveva trovarsi, al pari che nelle altre, una piccola piattaforma.

Ounis, che doveva aver visitato ancora, in altri tempi, l’enorme sepolcreto, mosse sollecito verso due colossali sfingi, che pareva fossero state collocate a guardia d’una porta di bronzo, che andava restringendosi verso lo stipite come tutte quelle costruite dagli antichi egizi.

La esaminò per qualche istante, come se volesse accertarsi che la serratura non fosse stata guastata, poi trasse di sotto la lunga veste una chiave di forma strana, che rassomigliava ad un serpente aggrovigliato e introdusse una estremità in un buco intagliato, in modo da sembrare una foglia di loto.

«Come possiedi tu quella chiave?» chiese Mirinri, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

«Me l’ha data tuo padre prima di morire» rispose laconicamente il sacerdote. «Se tu fossi per caso morto dove vorresti che ti avessi sepolto? Un Faraone dormire fra le sabbie?»

«Ma mio padre non riposa lì dentro.»

«Quando tu avrai conquistato il trono che ti spetta, anche lui dormirà, fra queste muraglie ciclopiche, il sonno eterno.»

Spinse la massiccia porta di bronzo, accese una piccola lampada d’argilla, che aveva portato seco, adoperando due pietre nere che percuotendole l’una con l’altra sprigionavano fasci di scintille vivissime, poi, volgendosi verso il giovane, gli disse:

«A te spetta il diritto di entrare per primo, giacché tuo padre più non esiste.»

Con un’emozione visibile Mirinri varcò la soglia e che entrò nell’immenso sepolcreto, destinato ad accogliere tutte le salme della sua dinastia.

Anche là dentro, come già nell’immensa caverna funeraria dove trovavasi il tesoro, regnava un tanfo di muffito e d’umido, tuttavia l’aria, che penetrava forse per mille fessure invisibili, era più respirabile, sicchè i due uomini poterono avanzarsi liberamente.

Nelle pareti massiccie vi erano molti vani di forma quadrata, destinati a ricevere le bare, con sotto una tavola di marmo nero per ricevere le offerte destinate al morto, onde non dovesse soffrire la fame durante la traversata dell’Amenti, per raggiungere il regno d’Osiride o la «regione nascosta», il luogo di delizie.

Non erano quei vani, che d’altronde erano tutti vuoti, che interessavano Ounis e tanto meno Mirinri. Il sacerdote cercava ansiosamente un masso enorme, che doveva trovarsi nel centro della piramide e che celava il famoso fiore d’Osiride.

Essendo la luce della lampadina troppo fioca e lo spazio immenso e tenebroso, dovette percorrere parecchie centinaia di passi prima di scoprirlo.

«Eccolo,» disse finalmente.

Un gran dado di pietra bianca sormontato da una statua rappresentante Toth, il dio ibis, era comparso nel cerchio proiettato dalla luce.

Ounis s’accostò e rimosse colla mano un cumulo di vegetali che copriva la superficie, dei fiori di loto bianco ed azzurro, dei crisantemi, dei mazzi di trifoglio, dei sedani e dei melloni d’acqua seccati, che conservavano tuttavia ancora il loro color verde e dopo d’aver frugato entro una cavità trasse una piccola pianta disseccata, mostrandola trionfalmente al giovane.

Quella pianta meravigliosa, che doveva migliaia d’anni dopo far stupire i botanici europei ed americani, che la chiamarono il fiore della risurrezione e che fu scoperta da un beduino nel seno d’una principessa faraonica e donata dal possessore al dottor Deck nel 1848, era quella che gli antichi Egizi chiamavano il fiore d’Osiride.

Era una pianticella magra, esile, con dei bottoncini ingialliti dal tempo e ormai completamente disseccati.

«È proprio quella che il grande Osiride lasciò ai suoi successori?» chiese Mirinri, guardandola cogli occhi luccicanti.

«La stessa,» rispose Ounis, dopo averla osservata attentamente. «La riconosco benissimo perché io l’ho portata qui assieme a tuo padre.»

«E tu credi che riviverà?»

«Sì, se tu sei un vero Faraone. Se la statua di Memnone ha suonato in tua presenza, non ho ora alcun dubbio che questi due bottoncini schiuderanno le loro corolle.»

«Da quanti anni è così disseccata?»

«Chi potrebbe dirlo? Da migliaia e migliaia di certo, ma molte volte è risuscitata e certo per volere del grande Osiride. A te, prendila e versa su questi bottoncini due goccie.»

Gliela porse, unitamente ad una piccola fiala di vetro che conteneva un po’ d’acqua.

Mirinri la fissò per parecchi istanti. Il suo cuore tremava, come quando aspettava ansiosamente il suono della colossale statua. Se quell’ultima prova fosse fallita?

«Bagnala,» disse Ounis, vedendo che il giovane esitava. «Sono certo che fra poco io renderò a te l’omaggio che il popolo egiziano deve ai Figli del Sole.»

Mirinri versò due goccie d’acqua sui due bottoncini e subito vide, con immensa meraviglia, quella pianta, da secoli e secoli morta, dapprima fremere, poi agitarsi, raddrizzare i suoi tessuti, i bottoncini gonfiarsi ed arrotondarsi, quindi svolgere i loro leggeri petali all’ingiro, intorno ad un punto centrale di color giallo.()

La pianta meravigliosa di Osiride era risuscitata!

«Lasciala morire,» disse Ounis, vedendo Mirinri agitarla, come se fosse improvvisamente impazzito. «Taci e guarda!»

I due fiori che somigliavano a due splendide margherite, mantennero per qualche minuto i loro petali aperti e tesi, scoprendo il loro seno ringiovanito come per opera magica, cosparso di piccoli granelli, poi le loro tinte iridiscenti cominciarono a scolorirsi, gli steli si curvarono, le foglioline si ripiegarono su se stesse e tutto si appassì.

Il grido, che Mirinri aveva fino allora trattenuto, gli uscì formidabile dal petto:

«Sono un Faraone! Lode al grande Osiride! La potenza, la grandezza, la gloria! Ah! È troppo!»

Ounis prese il fiore e lo depose nuovamente nell’incavatura del masso, poi s’inginocchiò dinanzi a Mirinri e gli baciò l’orlo inferiore della candida veste, dicendo:

«A te l’omaggio del tuo più fedele suddito. Io ti saluto, Figlio del Sole!»

«Quando avrò conquistato il trono tu sarai il mio primo ministro ed il capo supremo dei sacerdoti, mio devoto amico. La mia potenza non oscurerà la riconoscenza che ti devo.»

«Non desidero né onori, né grandezze,» rispose Ounis. «D’altronde, quando tu sarai re, io non ne avrò bisogno.»

«Perché Ounis?» chiese Mirinri sorpreso da quella frase oscura.

«Tutto non ti ho ancora narrato. Mi resta da fare al Figlio del Sole una rivelazione ancora, ma non la farò se non quando tu siederai sul trono dei Faraoni. Ora ci resta qualche cosa d’altro da compiere, prima di lasciare questa piramide che non rivedrai mai più da vivo.»

«Quale?»

«Distruggere il cadavere che l’usurpatore ha messo al posto di tuo padre. Quell’ignoto, ch’è forse un miserabile schiavo, non deve occupare un posto che spetta a Teti, né oltraggiare col suo corpo impuro la tomba dei Figli del Sole. Vieni, Mirinri.»

«Quell’infamia la sconterà,» disse il giovane, che ebbe un fremito di collera. «Non bastava a Pepi carpire a mio padre il regno: gli occorreva anche questa crudele derisione. Io farò a pezzi l’uomo che rappresenta in questo sepolcreto il corpo del Faraone, così non passerà l’Amenti e non prenderà un posto che non gli spetta fra gli antenati luminosi.»

Il sacerdote diede all’ingiro un lungo sguardo, poi si diresse verso una delle pareti dove entro un incavo si scorgeva a brillare vagamente qualche cosa.

«Qui lo hanno collocato» disse.

Un feretro stava deposto in quell’escavazione, un po’ al di sopra d’una lastra di marmo nero, su cui s’ammonticchiavano corone di trifoglio, di loto bianco ed azzurro, accanto a piccoli mucchi di grano e di farina, a pezzi di carne disseccata ed a fiale contenenti latte, liquori e profumi.

Quella bara era d’una ricchezza straordinaria, costruita con legname di quercia arabica, adorna di sculture finissime, che volevano rappresentare la grande vittoria riportata da Teti contro le orde Caldee, tutta dipinta, dorata ed incrostata di perle preziose.

Verso l’estremità superiore, quel feretro terminava in una testa che doveva riprodurre esattamente i lineamenti dell’uomo che vi stava rinchiuso dentro.

Mirinri gettò via con dispetto i fiori e le offerte, salì sulla tavola di pietra e prese fra le sue robuste braccia la salma, deponendola al suolo.

«Questa testa rassomiglia a quella di mio padre?» chiese con viva emozione.

«Sì,» rispose Ounis.

«E questi occhi sono proprio i suoi?»

«Li hanno riprodotti esattamente.»

Mirinri guardò il vecchio, poi la testa, quindi tornò a guardare il sacerdote, facendo un gesto di stupore.

«Che cos’hai ora?» chiese Ounis aggrottando la fronte.

«Trovo una strana somiglianza fra i tratti di questo viso ed i tuoi. Anche gli occhi hanno il medesimo lampo cupo.»

«Vi sono tanti che si assomigliano,» rispose asciuttamente il sacerdote. «Apri il feretro: voglio vedere chi vi hanno messo dentro.»

Mirinri introdusse la punta della spada fra le commessure e con uno sforzo violento sollevò il coperchio.

Tosto apparve una mummia, rappresentante un uomo di alta statura, col viso solcato da due lunghe ferite malamente cucite e che lo rendevano irriconoscibile.

Tutto il corpo era strettamente avviluppato in un tessuto d’oro, con ricami formati da pietre preziose, per lo più smeraldi, e dorate aveva le unghie delle mani e dei piedi.

«È mio padre, questi?» chiese Mirinri.

«No.»

«Ne sei ben certo, Ounis?»

«L’ho conosciuto troppo bene, per potermi ingannare.»

«Va bene,» rispose Mirinri.

Levò la mummia, che gettò con disprezzo al suolo, rinchiuse la bara e la ricollocò nel vano scavato nella parete della piramide, dicendo con voce ironica:

«Servirà a qualche altro: l’usurpatore appartiene alla famiglia ed ha il diritto di dormire qui dentro. Prenderà il posto di questo miserabile schiavo od ignoto guerriero che sia.»

Poi afferrò la mummia, facendola crepitare fra le proprie dita, tanta era la sua collera e, volgendosi verso il sacerdote, disse con tono che non ammetteva replica:

«Usciamo!»

«Che cosa ne vuoi fare di quel morto?» chiese Ounis.

«Usciamo,» ripetè il giovane.

Attraversò la piramide, finché raggiunse la porta di bronzo che era rimasta aperta. Ounis la chiuse con quella chiave in forma di serpente e si trovarono entrambi in mezzo ai raggi ardenti del sole.

«Nessuno può entrare ora?» chiese Mirinri, che teneva sempre la mummia.

«Nessuno, fuorché Mirinri Pepi, il solo che possegga una chiave eguale a questa.»

«Questa tomba non si aprirà che per ricevere la salma dell’usurpatore,» disse Mirinri, con voce cupa. «Lo giuro su Sib, il dio che rappresenta la terra; su Nout che rappresenta il cielo; su Nou il dio delle acque; su Râ che è il sole; sul grande Osiride e su Iside, l’animale sacro che il mio futuro popolo adora. Che Nacus, l’impuro demonio della morte mi tragga nel regno delle tenebre; che mi sia negato il passaggio dell’Amenti e la pace eterna nella regione nascosta, se io mancherò alle mie promesse. Ounis, tu che sei sacerdote, mi hai udito. Ed ora, vile carcame, che hai osato prendere il posto di mio padre, il grande guerriero che salvò l’Egitto, va’! Troverai una bara nelle viscere immonde delle jene e degli sciacalli.»

Ciò detto sollevò in alto e con quanta forza aveva, scagliò là mummia in mezzo alle dune, dove rimase colle gambe in aria.

«Quando potremo partire?» chiese poscia il giovane. «Ora che so di essere veramente il figlio di Teti, sono impaziente di conquistare l’orgogliosa Menfi.»

«Adagio, Mirinri,» rispose il sacerdote. «Noi dobbiamo recarci colà con infinite precauzioni, e affiatarci segretamente coi vecchi amici di tuo padre. Se tu venissi scoperto prima di essere tanto potente da fronteggiarlo, Mirinri Pepi non ti risparmierebbe.»

«Dovrò dunque rimanere ancor a lungo in questo deserto e lasciar spegnere l’entusiasmo che mi divora?»

«Non ti chiedo che tre o quattro giorni. Torniamo alla nostra dimora.»

La sera dello stesso giorno, Ounis, approfittando del sonno profondo del giovane Faraone, lanciava nel Nilo, con grande spavento dei coccodrilli e degli ippopotami che erano numerosissimi in quei tempi, delle piccole palle fiammeggianti che bruciavano anche in acqua, come i famosi fuochi greci dei quali fu perduto il segreto.

«Gli amici che vegliano sapranno così che Mirinri è pronto,» disse. «Aspettiamoli e che Osiride protegga il nuovo Figlio del Sole.»

Le figlie dei faraoni

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