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III. Due che non dormono.

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— Ti sarai persuaso che non è ambiente per noi, — disse il professore al figliuolo quando il portone del Palazzo Gandi si richiuse dietro a loro.

Giorgio non diede una risposta decisa.

— È un fatto che non mi raccapezzo.... Sono sempre molto alla mano, specie lo zio e la Mariannina, ma non sono più quelli di sette anni fa.... Hanno mutato orientazione.

— Completamente.... Mio fratello era radicale, ora è conservatore; si atteggiava a spirito forte, ora amoreggia coi preti.

— Ma come? Ma perchè?

— Eh, mio caro, ognuno ha i suoi difetti.... Gabriele....

— A proposito, oggi tutti lo chiamano Gabrio.

— È più chic.... Gabrio dunque è ambizioso.... Visto che non riusciva da una parte, s'è voltato dall'altra.

— E s'illude d'aver l'appoggio dei clericali per entrare in Parlamento?

— Credo che abbia rinunziato alla politica.

— E allora che aspirazioni ha?

— Ha un poco le aspirazioni di sua moglie, ambiziosa anche lei, ma come soglion essere le donne, che ci tengono più all'apparenza che alla sostanza.... Entrare nei salotti più chiusi ed intransigenti, assistere dalle tribune riservate alle funzioni di San Pietro, appartenere ai Comitati di beneficenza ove prevalgono le dame dell'aristocrazia nera, ecco i grandi ideali di tua zia.... Gabrio poi, ch'è un uomo positivo, accarezza la prospettiva di partecipare per mezzo della sua Banca internazionale a qualche operazione finanziaria col Vaticano.

— Sta a vedere che avremo lo spettacolo commovente d'una conversione!

— Non me ne meraviglierei.... Credo però che mio fratello ci penserà due volte prima di tagliarsi dietro i ponti.... A lui giova avere un piede anche nel campo liberale.

— In fatti, — notò Giorgio, — riceve una società molto mista.... Un monsignore, un cavaliere di Malta, un deputato, un alto funzionario del Ministero degli esteri, un segretario del Ministero degl'interni, che mosaico!

— Ce n'è per tutti i gusti.

— E quel cavaliere che uomo è? — proseguì Giorgio. — Pare in grande intimità con la famiglia.... Ieri mattina era a Villa Borghese con la Mariannina e con le sue amiche americane.

Il professore tentennò la testa.

— Ma!... Io lo conosco poco.... Passa per aver molti debiti....

— E monsignore?

— Lo conosco anche meno.... Mi dà l'idea d'un pretino furbo, inframmettente sotto la maschera della discrezione, punto sincero nelle massime di tolleranza che ostenta per aver facile accesso anche nei salotti meno ortodossi.

Dopo una pausa, Giorgio Moncalvo chiese, esitante:

— E della Mariannina che opinione hai?... A sentirla, si direbbe che non le sian saliti fumi al cervello.

Inquieto, il professore Giacomo guardò suo figlio.

— Per carità, Giorgio, non te ne fidare.... Mio fratello e mia cognata hanno il gran merito di mostrarsi quali sono; ed è la ragione per la quale, pur non approvando le idee e la condotta di Gabrio, gli voglio sempre un gran bene.... Ha, con tutte le sue debolezze, qualità preziose d'ingegno e di cuore, e, dopo la Clara ch'è un angelo, è il migliore capo della famiglia.... Ma, di fondo, non è cattiva neanche la Rachele.

— Cattiva sarebbe soltanto la Mariannina, — ribattè il giovine con una certa amarezza.

— Non esageriamo.... La Mariannina è quella che dev'essere fatalmente una ragazza contenta in ogni suo capriccio, corteggiata, bellissima, e con un milione di dote.... senza contar gli altri che le verranno alla morte dei genitori.

— Però non ha l'aria d'aver il culto del danaro, — obbiettò Giorgio. — Capisce il valore dell'intelligenza, della dottrina....

— Forse capisce la gloria, o.... piuttosto della gloria.... la fama, che suona le sue mille trombe e richiama l'attenzione della folla sopra un nome.... Sarebbe.... forse.... capace d'innamorarsi d'un uomo celebre.... pel quarto d'ora che gli dura la celebrità.... Il giorno in cui l'astro fosse offuscato da un altro più luminoso ella si reputerebbe sciolta dai suoi impegni.... Non è donna che s'immolerebbe al genio oscuro o al genio sfortunato.

— Sei severo.

— Son giusto.... Ma, in fine, perchè ci bisticciamo? Grazie al cielo, tu non hai da sposarla.

— Io? — disse Giorgio con ostentata indifferenza. — Ci mancherebbe altro!.... Mi meraviglio piuttosto che non si sia già sposata. Ha diciannove anni....

— Non son molti.... A ogni modo, i partiti non le sarebbero mancati.

— E non ne ha trovato nessuno di suo aggradimento?

— Pare.

— Che vuole?... Un principe?

— Chi sa?

— Qui ce ne son tanti.... Ma le sue amiche americane le faranno concorrenza. E hanno anche più danari di lei.

— Vero.... Ma i suoi danari son qui, alla mano; gli altri sono di là dall'Oceano.

Così chiacchierando, padre e figliuolo erano giunti presso all'imboccatura del tunnel del Quirinale. Un tram diretto ai Prati di Castello si fermò accanto a loro per lasciar scendere qualcheduno.

— Si potrebbe salire, — propose il professore.

— Volentieri.

Senza parlare arrivarono, portati dal tram, fino in Piazza della Libertà e percorsero a piedi, in silenzio, i quattro o cinquecento metri che li dividevano da casa loro, in prossimità di Piazza Cavour.

— Siamo alloggiati con meno lusso dei nostri congiunti, — disse scherzando il professore Giacomo dopo aver aperto la porta e acceso con un fiammifero la candela ch'era posata per terra in un angolo.

— A Berlino ho sempre vissuto in una cameruccia da studente, la metà di quella che ho qui, — dichiarò Giorgio.

E voleva prendere il lume di mano a suo padre, ma questi s'oppose.

— No, per oggi ti precedo io.... Ho più pratica.

— Buona notte, — soggiunse il professore quando, fatti centocinquanta scalini, furono entrati nell'appartamento.

— La disposizione del nostro quartierino la sai.... La tua camera da letto è lì.... Hai bisogno di nulla?... La nostra donna ha l'abitudine di coricarsi presto.... Io preferisco di non farmi aspettare.... Però, se tu vorrai....

— No, babbo, — rispose Giorgio, ricambiando la buona notte. — Perchè dovrei aver più esigenze di te?

Nella sua camera, davanti alla scrivania, presso a una cassa di libri non ancora interamente vuotata, Giorgio Moncalvo pensò a suo padre con un'ammirazione mista di tenerezza e d'invidia. Era ormai conosciuto, in patria e fuori, come uno de' maggiori matematici italiani, e conservava immutata la semplicità dei gusti e dei modi, e i brevi e fuggevoli contatti col fratello ricchissimo non servivano che a fargli amare di più la vita sobria, le abitudini quasi claustrali, le aule della sua scuola, le pareti silenziose del suo studio. Anch'egli, Giorgio Moncalvo, a Berlino, imponendosi a modello il suo maestro Raucher, per tanti rispetti simile al padre suo, aveva condotto nel presente, aveva sognato per l'avvenire un'esistenza non turbata dalle passioni, non distratta dai piaceri, non avvilita dalla sete dell'oro. Tutt'al più la gentile adorazione di Frida gli molceva l'anima con la soavità di una carezza, temperava con un soffio di poesia le rigide austerità della scienza.

Ma oggi egli non riconosceva se stesso. Gli era bastato veder la Mariannina, sfiorarne il vestito, toccarne la mano, udirne la voce, aspirarne il profumo per sentir un altr'uomo dentro di sè, un uomo simile a quelli ch'egli soleva guardare dall'alto come esseri di una razza inferiore. Provava anch'egli quelle febbri del sangue che gli eran parse fino allora uno stigma di bestialità; anch'egli era distratto nelle sue meditazioni da pensieri profani, da immagini lascive; oppure, in qualche momento, s'abbandonava alla duplice illusione tante volte derisa di giunger più presto alla gloria per mezzo dell'amore e di conquistar l'amore per mezzo della gloria. La Mariannina non aveva ella detto che preferiva Guglielmo Marconi ad Andrea Carnegie?

Senonchè, Giorgio Moncalvo era uno di quei pazzi che conoscono la loro pazzia, e quella notte, curvo dinanzi al manoscritto d'un lavoro scientifico ch'egli aveva cominciato a Berlino in tedesco e che voleva rifar da capo in italiano per presentarlo all'Accademia dei Lincei, fu colto ad un tratto da un riso amaro e spasmodico leggendo questo periodo: «Poco importa che una cellula nasca per scissione, germinazione, endogènesi o gènesi».

— Sono un bell'imbecille! — egli esclamò scattando dalla seggiola e dando sulla tavola un pugno che fece oscillare la fiamma della lampada. — Sono un bell'imbecille! Colmerò l'abisso che mi divide da mia cugina con le mie dissertazioni sulla gènesi e l'endogènesi!

E dopo aver girato alquanto su e giù per la camera, si rimise a sedere con la persuasione di aver, per quella notte almeno, snidato dalla sua mente la Mariannina. E seguitò a scrivere: «In fondo, il contenuto d'un elemento anatomico vivente non differisce in modo essenziale dal blastòma che lo circonda; qua e là vi sono sostanze organizzate, in seno alle quali si effettua l'incessante movimento molecolare».

— Bravo! — sibilò una voce beffarda accanto a Moncalvo.

E l'immagine scacciata della Mariannina tornava, petulante e provocante, a turbarlo, e la voce beffarda ripigliava con freddo cinismo: — Non isperare di liberarti di me.... Quando mi credi morta nella tua memoria, risorgo. Sono un tossico ch'è penetrato nelle tue vene e non ne uscirà che con tutto il tuo sangue.... Sono un'immagine che si è fermata nella tua pupilla e che può impallidire talvolta, scancellarsi mai.... Non sono io, no, la scialba e linfatica Frida Raucher, diafana e bianca come un raggio di luna; le mie labbra bruciano, i miei occhi hanno vampe di sole; sono l'eterno femminino che tu credevi fulminare col tuo disprezzo. Sono l'eterno femminino e mi vendico.... Non sono qui per amarti, ma per tormentarti....

Giorgio Moncalvo si riprovò a scrivere, ma per quella notte non riuscì più a mettere insieme due righe. Allorchè si decise ad andare a letto erano quasi le cinque.

Anche in Palazzo Gandi c'era qualcuno che non dormiva. Era la Mariannina. Ma non la teneva desta il pensiero di Giorgio Moncalvo. Certo ella doveva riconoscere che il giovine scienziato era molto più interessante dei bellimbusti che le facevano la corte; che non c'era, per esempio, paragone possibile fra lui e il deputato della maggioranza e il segretario del Ministero degl'interni che, pur dianzi, l'avevano assediata con le loro galanterie.... Ma se quest'era un'eccellente ragione per desiderare la compagnia del cugino, non era una ragione altrettanto buona per correr dietro alle ombre e ordir la tela di un romanzo da collegiale. La mal celata inquietudine della Mariannina aveva una causa affatto diversa. Bench'ella avesse accolto con simulata freddezza la comunicazione di sua madre circa alla possibilità di visitare il palazzo e il giardino Oroboni, quella notizia l'era giunta singolarmente gradita. Entrare nel geloso recinto le pareva una prima vittoria, preludio forse di vittorie maggiori.

Quante volte, dacch'ell'era a Roma, ell'aveva fissato curiosamente, insistentemente il muro massiccio che sorgeva dirimpetto alla sua abitazione, dall'altra parte della via rumorosa, e continuava ininterrotto lungo due viuzze laterali mal selciate e deserte! Sulla fronte di quel muro, di là dal quale spuntava, ondoleggiando al vento, la cima di qualche pino e di qualche pioppo, non c'erano aperture di sorta; o, a meglio dire, un gran portone preesistente era stato chiuso e sbarrato con solide spranghe di ferro. Solo da una piccola torre, che, a uno degli angoli, di poco superava l'altezza della muraglia, alcune finestrette difese da persiane di legno guardavano sulla strada. Una fortezza o un convento, ecco l'impressione ricevuta da chi costeggiava il recinto inospitale, di cui bisognava cercar l'ingresso in fondo a una delle vie laterali.

Però la Mariannina Moncalvo, da una delle sue camere al secondo piano, era riuscita a penetrare con l'occhio nel misterioso soggiorno. E intanto ell'aveva notato che quello che sembrava un semplice muro era, sul davanti almeno, una terrazza lunga e stretta ov'erano allineati dei vasi di limoni. Certo una scala interna metteva alla terrazza ch'era in comunicazione con la torre. Del giardino sottoposto, naturalmente la Mariannina non vedeva che una parte, abbastanza però da indurne ch'esso doveva esser molto ampio, ricco d'acque, d'ombre e di fiori. Non grande sembrava al paragone la palazzina del Seicento che, alquanto diroccata, lasciava trasparir fra le piante la sua facciata grigia e la sua cornice sporgente.

Della nobilissima e antica famiglia dimorante colà la Mariannina aveva chiesto e avuto notizie prima ancora che le bazzicassero in casa il conte Ugolini Ruschi e monsignore de Luchi, i quali, come ascritti all'aristocrazia nera e legati agli Oroboni dai vincoli di parte, avevano cercato di mettere in miglior luce quei campioni purissimi dell'intransigenza romana. Restavan vere nondimeno, in linea di fatto, le informazioni originarie raccolte dalla Mariannina Moncalvo. La famiglia era ridotta a due sole persone, la principessa Olimpia e il figliuolo di lei, don Cesarino. Il principe Ottavio, rispettivo suocero e nonno, morto nel 1885, dopo il 20 settembre 1870, in segno di protesta contro il nuovo ordine di cose, non era più uscito di casa sua se non in carrozza chiusa per andare al Vaticano, e per isolarsi meglio dal mondo empio e corrotto aveva speso un'infinità di quattrini nella costruzione del muro di cinta. Il figlio e successore principe Gregorio aveva seguito l'esempio del padre, ajutato in ciò da un'artrite che gli rendeva penoso e difficile il muoversi.... tranne che per l'ultimo viaggio da lui intrapreso nel 1890. Don Cesarino, rimasto orfano a quindici anni con un patrimonio dissestato e una salute più dissestata del patrimonio, e con la sola compagnia della madre malaticcia e bigotta, non aveva sentito alcun bisogno di mutar tenore di vita e vegetava, nel suo palazzo e nel suo giardino, trattando pochissima gente, anche della sua parte politica.

La Mariannina lo vedeva girar pei sentieri, perdersi nei viali, chinarsi sull'aiole, or solo, ora a braccio della madre. Una volta ella vide più da vicino tanto lui quanto la principessa Olimpia, sulla terrazza insieme con un prete, quel monsignore de Luchi ch'ella doveva conoscere di lì a poco. E si rammentava che il prete pareva più giovine, oltre che della principessa, di don Cesarino. I due procedevano lenti e silenziosi con l'aria di persone che si fossero stancate a salir sino lassù e alle quali dessero noia i rumori esterni. Il sacerdote, che li precedeva di qualche passo, si voltava ogni momento, parlava, gestiva come incitandoli a fare uno sforzo e a vincere la loro ritrosia. Ed egli compì il miracolo d'indurli a entrar nella torre, ad affacciarsi a uno dei finestrini di cui egli si era affrettato ad alzar le persiane. Là Mariannina ebbe l'impressione di aver dinanzi a sè due vecchi ritratti: la principessa magra, cerea, con gli occhi grigi ed immobili, coi capelli brizzolati aderenti alle tempie, con una baverina bianca insaldata che ricascava sulle spalle e acquistava maggior risalto dal vestito di seta nera; don Cesarino alto, esile, pallido, senza un pelo di barba, lo sguardo incerto, le labbra esangui, la testa piegata un po' sulle spalle, e pure con una certa innata distinzione nell'aspetto, con quell'impronta di razza che in certe famiglie si conserva fino nell'estrema degenerazione. Ora dietro la principessa, ora dietro il figliuolo faceva capolino la fisonomia gioviale di monsignor de Luchi, bianco, roseo, paffutello, con la guardatura maliziosa di chi la sa lunga, oltre che per merito del proprio ministero, anche per diretta esperienza. E la Mariannina rammentava benissimo che quel giorno monsignore aveva richiamato sopra di lei l'attenzione di don Cesarino. In fatti, dopo due paroline susurrategli nell'orecchio dal prete, il giovine aveva rivolto gli occhi verso la finestra al cui davanzale ell'era appoggiata e s'era messo a fissarla ostinatamente, mentre un lieve incarnato gli si diffondeva sulle guance smorte. Ella pure aveva arrossito, combattuta fra il desiderio di sottrarsi a una curiosità indiscreta e la compiacenza di non passare inosservata ad un principe romano. Proprio in quel punto, la Mariannina ne aveva fresca la memoria come di ieri, passò per la strada, in un'elegante vittoria diretta al Quirinale, la regina Elena insieme con la bella principessa Jolanda. La gente si scopriva in atto rispettoso; la Sovrana chinava il capo con un sorriso benevolo. Ma la principessa Oroboni si tirò indietro con un moto brusco, e lo stesso fecero, benchè con minore prontezza, don Cesarino e monsignor de Luchi. Quest'ultimo s'indugiò un minuto di più per richiuder le imposte. Indi tutti e tre riapparvero sulla terrazza; la principessa camminava con passo più spedito a braccio del figlio; monsignore parlava e gestiva come prima.

Dopo d'allora la Mariannina non aveva rivisto il giovane principe e la madre di lui se non di lontano, tra l'aiole e i viali del giardino. Invece aveva conosciuto monsignor de Luchi, portato in casa del conte Ugolini Ruschi. E monsignore, amabile, disinvolto, s'era subito accattivato le grazie della famiglia: aveva accettato un paio d'inviti a colazione ed a pranzo, aveva spillato varie centinaia di lire alle donne per un Ospedale di bambini, per un Asilo notturno, per un Ricovero di fanciulle pericolanti, compensandole con l'invio di biglietti per le funzioni di San Pietro e con la promessa di farle entrare fra le patronesse di qualche opera pia aristocratica.

— Che leggerezza è la nostra! — diceva la signora Rachele. — A dar retta a mio cognato Giacomo, i preti cattolici sarebbero intolleranti, fanatici, imbevuti di pregiudizi.... Invece, sfido a trovare una persona di umore più conciliativo di monsignor de Luchi.... Mai una allusione sconveniente, mai una parola ironica....

E la Mariannina ripeteva spesso tra lo scherzoso ed il serio:

— Quel pretino è la mia passione.

Adesso, per mezzo del pretino, ella stava per varcare la soglia vietata di casa Oroboni, e un giorno, chi sa, lo stesso monsignore l'avrebbe forse presentata a donna Olimpia e a don Cesarino.

Faceva caldo e la Mariannina, che aveva già principiato a svestirsi, aprì la finestra. Eran cessate le corse dei tram, i negozi eran chiusi, metà delle lampade elettriche erano spente, per la strada non passava che qualche omnibus d'albergo e qualche fiacre; una donna seduta alla cantonata offriva con voce monotona ai pochi pedoni la Tribuna e il Giornale d'Italia. Di fronte, il muro degli Oroboni pareva più bruno, più alto, più inospitale che mai; di là dal muro, il giardino si stendeva simile a un mare tenebroso. Qualche soffio d'aria agitava le masse delle piante e ne strappava gemiti e fragranze. A un tratto l'occhio della Mariannina si fermò sopra un punto luminoso che brillava dietro le persiane d'una delle finestre della torre. Possibile che ci fosse qualcuno? La ragazza pensò che quella finestra era circa all'altezza della sua, e che com'ella, se le persiane non fossero state abbassate, avrebbe potuto benissimo veder chi fosse lì dentro, così di là si poteva veder lei, e un subito pudore la colse, una subita vergogna d'esser sorpresa da uno sguardo indiscreto, mezza discinta, coi capelli giù per le spalle. Chiuse in fretta i vetri, tirò le tende, finì di spogliarsi e si cacciò sotto le coperte. Ma non riusciva a dormire, e scese due volte dal letto, e senz'accendere il lume si accostò alla finestra, sollevò un lembo della cortina, aguzzò l'occhio verso la torre, verso il punto che prima era illuminato. Tutto era buio; certo nella torre non v'era più anima viva. Ma chi poteva esservi prima? Un domestico venuto a prender qualche oggetto dimenticato? O la principessa, o don Cesarino? Strano in verità ch'essi venissero nella notte in quel luogo ove di giorno non venivano mai. Ma tutto era strano negli Oroboni, ed era appunto questa stranezza ch'esercitava una speciale attrattiva sulla Mariannina Moncalvo. Le pareva che dovess'esservi una soddisfazione straordinaria a essere ammessi in quel sancta sanctorum, ad appartenere a quel cenacolo di eletti.... Al Quirinale ci andavano tutti; anch'ella era stata presentata alla Regina, era stata invitata ai balli di Corte: e vi si era trovata con persone della piccola borghesia, con mogli e figliuoli dì avvocati, di medici.... Al Vaticano era su per giù la medesima cosa, e il Papa riceveva migliaia e migliaia di persone d'ogni razza, d'ogni ordine sociale, benedicendo a destra e a sinistra il gregge umano che gli si prosternava ai piedi.... Invece le case come quella degli Oroboni erano chiuse a due catenacci, e proprio per questo sarebbe stato un gran trionfo il penetrarvi....

Nella notte insonne, la Mariannina, stesa sul letto, con le mani intrecciate dietro la nuca, seguitava a fantasticare. Le tornavano alla mente certe proposte di matrimonio ch'ella, d'accordo coi suoi, aveva respinte. In Cairo, fin da un paio di anni addietro, due baroni della finanza, d'origine semitica; a Roma, appena giunta, un tenente di vascello e un ufficiale di cavalleria, tutti e due con la loro brava corona di conte, ma con pochi quattrini.

— Per i quattrini meno male, — aveva detto la signora Rachele. — Ma se si deve rinunciarvi, ci vuole un principe.

Un pensiero bizzarro fece sorridere la Mariannina.

— Eccolo il principe!... don Cesarino!

E per un istante ella si vide a fianco di quel giovine che non aveva mai conosciuto la giovinezza, si vide nuora di quella donna che passava la sua giornata a biascicare orazioni e a protestare contro la breccia di Porta Pia.

Bisogna convenire che sarebbe stato uno degli spettacoli più singolari di questi tempi così ricchi di sorprese.

— Bah! — concluse la Mariannina. — Ho almeno un milione di dote; sono figlia unica e avrò più tardi un patrimonio immenso.... Il principe non mi può mancare.... Se non sarà lui, sarà un altro.

E si voltò sul fianco per cercare d'addormentarsi. Era l'alba.

I Moncalvo

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