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I.

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Mentre in Italia Galileo s'adoperava a restaurare definitivamente le scienze sperimentali, Cartesio in Francia intendeva al medesimo fine, massime nel campo psicologico. Questi, parlando di Galileo, ci mostra di non partecipare punto per lui all'ammirazione di Keplero e degli altri contemporanei. E non fa meraviglia. Per poco, di fatti, che si paragonino la fisica del turennese con quella del fiorentino, appare che le cagioni di dissenso fra loro due non potevano mancare. Il silenzio del Cartesio rispetto a Galileo e le sue scoperte, per cui si levava tanto rumore per tutta Europa, eccitava già mormorazioni e sospetti d'invidia, quando quegli si risolvè a dar fuori il suo giudizio. «Galileo in generale filosofeggia assai meglio dei volgari; respinge più che e' può gli errori delle scuole e s'adopera a conoscere i fatti fisici con ragioni matematiche. In questo mi accordo con lui e convengo che non vi ha altro mezzo per conoscere tal sorta di veri. Ma d'altra parte io trovo, che molto ancora gli manca, perchè esce di continuo in digressioni e non si ferma a spiegare quanto basta alcuna materia: ciò che mostra non averle egli tutte esaminate per ordine, e che lasciando di scoprire le prime cause della natura, e' s'è contentato di trovare solo le ragioni di qualche effetto particolare. Per la qual cosa egli ha fabbricato senza fondamento.»

Il Cartesio accenna qui solo di passaggio e quasi sbadatamente ad uno dei pregi massimi della filosofia galileana; vo' dire l'applicazione delle leggi matematiche allo studio dei fatti naturali, pel quale fatto solamente la fisica potè costituirsi e mantenersi in dignità di scienza uscendo per sempre dalle fluttuazioni dell'empirismo volgare. Subito dopo viene innanzi coll'accusa al Galileo di non avere egli esaminate in ordine tutte fino ad una le materie scientifiche, e per non essersi rifatto dalla conoscenza delle prime cagioni. Questa accusa, è di gran momento, non perchè abbia in sè alcun saldo valore critico, ma perchè essa esprime un pregiudizio comune al Cartesio e a tutti gli scienziati del suo tempo: dirò di più, un pregiudizio, che pesò sulla storia intera della scienza, e ne impedì e ritardò pertinacemente i progressi. Questa censura dunque guardata coll'occhio della critica si risolverà nella attestazione del capital merito di Galileo, per il quale egli si leva sovrano di molte epoche, e si rivela come uno degli ingegni più benefici che abbiano mai avvantaggiati i progressi della scienza.

Vincenzo Gioberti in un luogo d'oro della sua Protologia apre un capitoletto intitolato: Posizione della questione. Topotesia (Vol. I. 3.) Ivi è detto: «Il primo fondamento della scienza è di determinare e descriver bene i problemi. Quando il problema è mal posto non si può venire a capo d'una buona soluzione, ancorchè si disputasse in eterno.»

Una vera ed utilissima teoria è questa senza dubbio; ed essa ne richiama un'altra non meno utile, non meno vera e trascurata affatto nelle trattazioni del metodo. Gioberti proclama l'importanza del collocamento o giacitura delle questioni in ordine al processo, o vuoi organismo scientifico di un libro, d'una disputa etc., e non avverte di far rilevare tale importanza di collocamento anche in ordine al tempo. Omissione non del Gioberti solo, ma in genere degli investigatori del metodo, che talvolta s'aggirarono intorno a tal concetto, ma o non lo colsero in pieno o non lo misero in quella luce, che merita. Ove alla Topotesia si fosse aggiunta la «Cronotesia,» quanti errori e divagazioni e ritorni faticosi, si sarebbero risparmiati al pensiero umano che su tante materie oggi si meraviglia e s'indegna di trovarsi, dopo viaggio di secoli, al punto donde s'era partito! — La Cronotesia è nient'altro che l'applicazione del massimo criterio della scuola storica a giudicare l'intimo movimento del pensiero filosofico e scientifico rispetto ai problemi, tanto psicologici che del mondo esteriore. La forza e importanza critica della Cronotesia appare formulando così:

— Dato un problema scientifico in un certo momento delle civiltà, si domanda: il pensiero umano trovasi egli in grado di risolverlo, o in che termini può risolversi? —

Ognun vede che rispondendo a tale domanda lo spirito scientifico viene come a concepire un adeguato concetto delle sue forze subbiettive e del progresso storico fatto in ordine a quel dato problema e de' mezzi estrinseci, che si posseggano, accomodati o no a risolverlo; tutte cose necessarie per tenere l'ingegno in un ambito di speculazioni proporzionate alle sue facoltà. Disgraziatamente l'antichità non conobbe questa maniera di cautela, la quale non è altro che una capitalissima legge di metodo. Essa, non consultando che il proprio desiderio di sapere, interrogò tutti i segreti della natura, affermò, negò, distinse, suddistinse, incastellando ingegnosamente una enciclopedia anzi tempo nata, che la forza della critica doveva in molte sue parti diroccare.

Quando il popolo dice filosofo o sapiente, intende uomo, che sa tutto, e se è costretto a chiarirsi del contrario, fa le meraviglie. Questo concetto popolare esprime ancora al vivo la grande illusione dell'antichità: una volta che la mente umana si volgeva ad indagare il principio e l'esser delle cose, essa dovea rendersi ragione di tutto, e non v'erano limiti nè alle indagini, nè alla evidenza. Bastava porre un principio, perchè da quello si dovesse svolgere appuntino un sistema compiuto, esplicativo di tutto l'essere. Tale illusione era facile e direi quasi fatale, essendo proprio dell'ingegno umano ciò che gli aristotelici erroneamente attribuivano alla natura, vo' dire l'orrore del vuoto, e il vuoto in questo caso è l'ignoranza. Potentissimo nell'animo nostro il bisogno di conoscere su qualunque materia: quando poi si tratti di quelle nozioni, che si attengono al principio ed al fine delle cose in universale e dell'uomo in particolare, questo bisogno diviene irresistibile e vuol essere soddisfatto onde a ragione dice il Kant nella prefazione alla sua Critica della ragione pura, che l'uomo è destinato da natura a travagliarsi in perpetuo intorno ai problemi fondamentali dell'essere e della vita, avvenga che può. Manca una ragion vera? E' si appaga d'una imperfetta. Non vale l'ingegno? Entra in campo l'immaginazione, e avanti sempre.

Quando noi ci andiamo figurando il quadro storico della scienza, ci pare di vedere il pensiero umano procedere laborioso, lento e circospetto accertando il noto e poggiando grado grado all'ignoto. Ma lo studio dei fatti ci mostra tutt'altro. Ad ogni tratto della lunghissima via quanti stacchi recisi, quanti salti, quante lacune lasciate addietro; come spesso si è precipitato a conclusioni lontanissime da princìpi appena intravveduti! — Talete, a modo d'esempio, osserva che nelle composizioni e nel dissolvimento degli esseri di natura l'umido ha parte costante, ed eccolo a conchiudere, l'acqua principio facitore e governatore di tutte cose. Ex aqua cuncta fingit. Parmenide vede il caldo e il freddo alternarsi confondersi, contrapporsi in natura con visibili effetti, e spiega tutto con questi due princìpi. Si tien conto del fondo comune che è negli esseri, ed eccoci alla unità immobile di quei d'Elea: nulla nasce e nulla muore. Si tien conto del movimento e mutamento in cui versano le cose e siamo alla varietà degli Joni, ed al perpetuo flusso eracliteo. Ecco ancora perchè la scienza nella antichità assume forma poetica, che è quanto dire l'antitesi del rigoroso processo scientifico e mette insieme con valore e ufficio presso che eguali riflessione ed immaginazione. Però ne' poemi indiani trovi l'enciclopedia bell'e compiuta, e vi si dà la ragione d'ogni cosa dalle somme astrazioni ai precetti di grammatica di liturgia e d'igiene; presso i greci ne' poemi d'Esiodo e d'Empedocle e più tardi ne' poemi latini e fino in tempi molto presso a noi, sotto forma poetica venne significata questa scienza senza misteri e senza confini. Sapete di che cosa dissertasse il chiamato Jopa alla mensa di Didone? Sentite:

Hic canit errantem lunam, solisque labores;

Unde hominum genus et pecudes, unde imber et ignes

Arcturum, pluviasque Hyadas, geminosque Triones;

Quid tantum oceano properent se tingere soles

Hiberni, vel quae tardi mora noctibus obstet.

(Æn. I.)

E nell'Egloga IV tutto questo ed altro apprendeva un bravo pastore a' fanciulli stupefatti:

.... uti magnum per inane coacta

Semina terrarumque, animaeque marisque fuissent.

Et liquidi simul ignis: ut his exordia primis

Omnia, et ipse tener mundi concreverit orbis.

E via di questo passo aggruppando e risolvendo alla lesta le più importanti questioni sull'ordine cosmico, ognuna delle quali parrebbe oggi troppo grave ad una intera accademia di scienziati. — Se corriamo di fatti col pensiero ai tempi nostri, vediamo che di tante affermazioni la scienza attuale non una forse osa porre con vera certezza, malgrado il perseverante lavoro di tanti secoli. Sconfortante paragone! È naturale che si domandi perchè mai il pensiero umano invece di progredire alla conquista della certezza in modo proporzionato a così prosperi cominciamenti, abbia declinato per modo, che tutto il nostro sapere moderno quasi sempre non ci consente che ipotesi ove gli antichi professavano dommi. E sì che d'altra parte il progresso è innegabile: maestri a maestri, scuole a scuole si sono succeduti, e tutti attraversando di loro fugace dominazione il teatro della storia del pensiero, hanno versato a piene mani nel tesoro del sapere comune studi e sistemi, cosicchè credereste oggi i materiali alla scienza sovrabbondare. Ma intanto questa scienza compiuta non si è fatta, e ci persuadiamo ogni dì più che ne siamo ben lontani ancora. Dove gli antichi predicavano netto l'aforisma, noi timidamente poniamo l'ipotesi. Direste la certezza allontanarsi dalla mente umana, quanto più la dottrina s'approssima a lei.

Tutto ciò vuol dire che insieme col maturarsi degli ingegni e al crescere della dottrina, s'è andato svolgendo e ha preso dominio nello spirito umano una facoltà, che anticamente dormiva nel suo seno quasi allo stato di pura potenza. Questa è la facoltà critica, che via via nel corso dei secoli ha preso il luogo di quella fidente spontaneità, di quelle intuizioni potenti e quasi divinatrici, onde vigoreggiava il pensiero antico. — Il criticismo (tanto bistrattato da alcuni) non consente più è vero allo spirito umano, que' subiti slanci di speculazione, o la tranquillità sistematica d'una volta; ma contentiamoci che in cambio ci salva dal peggiore de' mali, vo' dire lo scetticismo. Badate che per tale io credo doversi solo intendere quell'abito negativo e sofistico del pensiero col quale esso corre studiosamente in cerca della contraddizione e di essa s'appaga e perde la fede nella scienza, fino a negarne la possibilità. Or bene, o che io m'inganno a partito, o il pensiero moderno non soffre di questo male: egli va circospetto, non isconfortato, commisura scrupolosamente la certezza alla evidenza e non teme di sospendere a lungo gli assensi, che vuol solo prestare al vero veduto; ma ha fede nella scienza e nel suo avvenire. Il criticismo insomma anzichè stare, a detta di Gioberti, in comunella collo scetticismo, costituisce, nell'ordine scientifico, la sua negazione più razionale ed il più valido suo preservativo. Infatti gli antichi, che non conobbero criticismo vero, patirono di tratto in tratto i più fieri assalti dello scetticismo. E naturalmente; poichè alla baldanza del troppo affermare la mente umana era tratta a contrapporre, per impeto di natural reazione, la smania del negare e il disgusto d'ogni speculazione e lo sconforto profondo, che tien dietro alle illusioni prosuntuose. Nessuno meraviglierà quindi di vedere alle scuole de' Pittagorici, degli Eleati e dei Joni, succedere l'epoca dei Sofisti. La Sofistica fu una forma di scetticismo col quale, omai stanco, il pensiero greco si vendicava dispettosamente di tutta quella baldanza sistematica mettendo in aperto quanto era di difettivo e di contraddittorio nelle tre celebri scuole. Lo stesso con altro intendimento aveva fatto per lo innanzi Zenone d'Elea. Questa epoca della filosofia greca è nella storia della scienza pari a quella assai penosa età dell'uomo, nella quale cadono le illusioni della giovinezza, e il vero della esistenza si presenta la prima volta all'anima nella sua austera nudità: se in quel brusco trapasso non ci sovviene una virile speranza si corre gran rischio di restarne per sempre anneghititi. Età questa degna di grande studio e feconda più che altra di utili ammaestramenti per chi sappia cogliere in quella sparpagliata diversità le cause, che l'hanno originata e segretamente la governano. Così il fisiologo nelle convulsioni più dolorose dell'organismo vivente impara a conoscere fenomeni e leggi, che nelle tranquille funzioni di quello non gli si erano manifestate.

Dopo viene Socrate. Egli ebbe senza dubbio ingegno altissimo, se seppe ficcar l'occhio così bene nella natura dell'ingegno umano e ne' bisogni della scienza del suo tempo, da poter accennare il vero rimedio. Tanto Senofonte che Platone ci mostrano Socrate di continuo occupato a rimuovere, coll'arguto obbiettare, gli intelletti da quelle speculazioni sconfinate e fluttuanti, volgendoli ad un tema meno proporzionato alle loro capacità e di fondamentale importanza per la filosofia: l'uomo interiore. Tra le scuole sistematiche, che presumevano spiegare ogni cosa, e la sofistica di tutto dubitosa bisognava un uomo, che tentasse almeno d'apprendere alla ragione quello, che essa può fare e quello, che non può. E in questo senso va presa la sentenza di Cicerone, avere veramente Socrate fatta discendere la filosofia dal cielo. Questo sublime ufficio non è senza pericolo grave. Dire agli uomini a cui tanto accomoda credersi sulla retta via, che la via è sbagliata; svegliare in essi la coscienza sempre disgustosa della propria debolezza; prescrivere certi confini agli ardimenti della ragione, è cosa che troppo spesso tira addosso gli odî del volgo zotico e dottrinario. Socrate lo imparò a sue spese e l'insegnò. Ma l'opera sua rimase: non già che dopo lui non ricominciasse subito la corsa vertiginosa de' sistemi, ma per molto tempo si durò a sentire l'effetto di que' potenti ritegni voluti da lui imporre alla ragione, e dell'esempio e della autorità sua si giovarono quanti tentarono poi di ricondurre la scienza al buon metodo.

Volendo trovare un uomo da porre a lato di Socrate in modo che, fatto luogo alle differenti condizioni dei tempi ed alle qualità originali, ciò che solo rende possibile il confronto, ne risulti vera somiglianza, bisogna discendere fino a Galileo. Ambedue vennero in tempo di passaggio ed inaugurarono un'epoca di rinnovamento che da essi prese nome: combatterono la presunzione, l'ignoranza e l'usurpata autorità. Socrate fu solo e Galileo ebbe compagni valenti nella sua opera; ma d'altra parte si noti, che Socrate discorrendo massimamente le verità morali ebbe a validissimo appoggio il retto senso degli uomini tutti, nei quali il germe dei veri di tal fatta non è mai spento in pieno, mentre Galileo, in questo poco o nulla poteva sperare, molto invece aveva a temere, che nelle speculazioni sulla natura fisica, il gran pubblico giudica solamente dalla autorità o dall'apparenza, e questa e quella stavano contro di lui; esempio il sistema Copernicano. Sotto pretesto di religione ambedue furono manomessi, perchè nelle arditezze innovatrici dell'ingegno, la superstizione di tutti i tempi ha veduto, a buon dritto, una minaccia. Se poi da queste somiglianze estrinseche si va a quella più riposta e sostanziale del carattere, mi pare di ravvisarla grandissima tra questi due in quella semplicità e schiettezza, che velano di modeste apparenze fatti meravigliosi. Donde principalmente la bella forma dello scrivere, congetturata nel primo dal leggere gli scolari suoi, manifesta nel secondo per le opere scritte, modello di stile. Ad ambidue è proprio l'epigramma garbato e la ironia fine, che già prese nome di socratica[1]; questa appare temperatissima in Galileo, ma si vede a segni manifesti che e' vi pigliava gusto, quando non fosse impedito dal sussiego spagnolo, già entrato nei nostri costumi come nelle nostre lettere, e del quale non seppe in tutto tenersi mondo Galileo. A ogni modo nel dialogo dei massimi sistemi, la figura di Simplicio mi pare un poco della famiglia di quelle dei sofisti nei dialoghi di Platone. Ma la somiglianza più importante, che accoppia queste due grandi figure nella storia della scienza, sta in questo: che come Socrate seppe trar fuori dal viluppo enciclopedico del sapere de' suoi tempi la scienza dell'uomo interiore, Galileo ne trasse la fisica, per opera del suo ingegno critico validamente esercitato sulla scienza contemporanea ed anteriore.

Teste quadre

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