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II.

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Le scienze sperimentali hanno una strana istoria. Nell'antichità un'infanzia vigorosa e fantastica, alla quale tien dietro subito decrepitezza lunga e sterile. Che cosa aggiungono infatti i bassi tempi di Grecia e Roma e tutto il medio evo all'opera d'Aristotile, di Ippocrate e di Tolomeo? Un incessante lavoro di ripetizione col quale la scienza, come girando sopra sè stessa, rimaneggiava sempre i vecchi elementi, apprestati in seguito in forma di autorità non disputabile. È ben vero che dai fornelli dell'alchimista e dalle combinazioni dell'astrologo e dalle ricerche di qualche ingegno solitario balzava talvolta qualche nuovo vero inatteso, chè il lavoro dell'intelligenza per quanto male avviato, non riesce mai inutile del tutto; ma in quei veri sparpagliati e fortuiti poco o nulla era ancora di scientifico, essendo solo scienza dove è «ordine di cognizioni» era soltanto buon governo di metodo; bensì come una preparazione ed un accenno a' tempi migliori. La virilità per le scienze sperimentali vien dopo la vecchiaia e sorge e si stende nel magnifico periodo, che va dal Rinascimento ai nostri giorni. Studiando quest'epoca del Rinascimento, si manifesta un complesso di fatti, che è conferma luminosa di ciò, che sopra dicemmo, sulla vera cagione che tenne inceppato lo studio della natura presso gli antichi; nè questo complesso di fatti parmi sia stato ancora, sotto un tale aspetto, meritamente illustrato dagli storici.

I primi ingegni, che cominciano a scuotere il giogo di Aristotile e della Scuola, vedono anzitutto il bisogno di una riforma nel metodo della scienza. Questo grido, dapprima solitario e sommesso, s'allarga mano mano e si rinforza, e diviene infine il grido universale degli innovatori, il motto d'ordine, si direbbe oggi, della scienza nuova. Comincia il Nizolio nell'Antibarbaro, e dietro lui una lunga schiera di scrittori, a studiare calorosamente le leggi del metodo, a cercare le fallacie del metodo antico, a proporre riforme. L'Aconzio già vi dice, che di 30 anni di studio 20 si vorrebbero impiegare nella ricerca del metodo, tanta importanza avea già presa nella scienza quella, che verrà poi chiamata metodologia. Non vi pare egli di essere ormai vicini ad udire quella sentenza: la scienza è il metodo, esagerata conclusione di un buon principio, alla quale si doveva giungere di poi? Che che ne sia di tale sentenza dell'Aconzio, il fatto è che in questo tempo nessun filosofo si mette più a speculare senza lungamente adoperarsi intorno alla questione metodologica, e le opere di Telesio, Bruno, Campanella, Sebastiano Erizzo e di tanti altri ne fanno fede. Da quelle opere si rilevano principalmente due opinioni: la prima, che gli antichi non conobbero il metodo sperimentale induttivo; la seconda, che in questa ignoranza degli antichi sta la vera ed unica cagione della sterilità e delle mille aberrazioni nello studio della natura. Ne dovevano dedurre a fil di logica, che a sanare le piaghe della scienza bastava mettere in onore questa miracolosa induzione; e così fu infatti. Francesco Bacone è disperato della logica antica: «Logica quæ in abuso est ad errores, (qui in nationibus vulgaribus fundantur) stabiliendos et fingendos valet potius quam ad inquisitionem veritatis, ut magnis damnosa sit quam utilis (Novum Organum Af. 12).» Il sillogismo, a suo avviso, è strumento debole e fallace, come quello che è «subtilitati naturæ longe impar» e bisogna cercare altro strumento, che faccia miglior prova. Questo è l'induzione: spes est una in inductione (Ib.). Così fatto modo d'argomentare da Bacone e dai contemporanei era messo innanzi come una novità, e insieme come una panacea a tutti i mali della scienza.

Però poteva sorgere una difficoltà: conobbero gli antichi teoricamente l'induzione? Bastava aprire in diversi luoghi i libri di Aristotile per persuadersi che sì: — «Distinguere vos oportet quot sit species argumentorum dialecticorum; est autem una quidem Inductio. (Επάγογή) altera vero Sillogismus (Dei Topici Lib. I. C. X).» E negli Analitici Priori (Lib. 2 C. 25); e altrove l'argomentazione induttiva viene accennata e descritta da Aristotile come parte importante della logica e comunemente adoperata nella scienza. Ma quando anche non ci soccorresse il testo aristotelico, non basterebbe egli per decidere la questione guardare alla scienza antica, che ci ha dato (che che se ne dica) meravigliosi frutti d'esperienza, sui quali come su fondamento si è andato innalzando l'edificio delle moderne scienze sperimentali? Conobbero adunque gli antichi la induzione perchè la praticarono; e basterebbe l'esempio di Aristotile, che nelle sue opere, sia metafisiche sia fisiche, si mostrò profondo osservatore, e sperimentatore, per i tempi, abilissimo; d'Aristotile ottimo maestro di cattivi scolari, che al suo esempio anteposero la sua autorità e la convertirono in giogo di servitù secolare. E qui al proposito nostro cade opportuno notare come Galileo, del pari che in tutto il resto, innalzi il giudizio sulla opinione dei suoi tempi, parlando del filosofo di Stagira. Mentre alle adorazioni del medio evo succedevano le contumelie, nè v'era omai filosofuccio arieggiante a novità, che non rompesse la sua lancia impertinente contro il Maestro, mentre a Bacone pareva forse dir poco chiamandolo disertor experientiæ, è bello sentire come ne parli Galileo: «Io stimo, che l'essere veramente peripatetico, ovvero filosofo aristotelico, consista principalissimamente nel filosofare conforme agli aristotelici insegnamenti, procedendo con quei metodi e con quelle vere supposizioni e principii, sopra i quali si fonda lo scientifico discorso, supponendo quelle generali notizie, il deviar dalle quali sarebbe grandissimo difetto. Fra queste supposizioni è tutto quello che Aristotile c'insegna nella sua dialettica attenente al farci cauti nello sfuggire le fallacie del discorso, indirizzandolo e addestrandolo a bene sillogizzare, e dedurre dalle premesse concessioni la necessaria conclusione... Fra le sicure maniere di conseguire la verità è l'anteporre le esperienze a qualsiasi discorso, non essendo noi sicuri che in esse, almanco copertamente, non sia contenuta la fallacia, e non essendo probabile che una sensata esperienza sia contraria al vero: e questo è pure precetto santissimo di Aristotile, e di gran lunga anteposto al valore e alle autorità di tutti gli uomini del mondo... Voglio aggiungere per ora che se Aristotile tornasse al mondo, egli riceverebbe me fra i suoi seguaci in virtù delle mie poche contraddizioni, ma ben concludenti; molto più che moltissimi altri, che, per sostenere ogni suo detto per vero, vanno espiscando dai suoi testi concetti, che mai non li sarieno caduti in mente.» (Lettera a Fortunato Liceti).

Da questo passo si rilevano due cose importanti alla conoscenza dell'ingegno di Galileo. La prima, che in mezzo alle furiose intemperanze degli amici e nemici d'Aristotile, egli, tanto bersagliato da questi ultimi, sapeva mantenere moderazione di giudizio; segno questo di grandezza d'ingegno e d'animo insieme: può di fatti osservarsi in tutti i tempi, che i più miti propugnatori d'una causa di scienza o d'arte sono quasi sempre coloro, che più la professano onoratamente. Se Galileo fosse stato un galileiano, l'avrebbero gridato galileiano fiacco e pauroso. La seconda, e di maggior momento, si è che Galileo non attribuiva lo smarrimento delle scienze sperimentali ad ignoranza di buoni principii metodici, che fosse in Aristotile e negli antichi; dunque a qualcosa altro di più intimo e profondo. E quale fosse la sua opinione su questo punto vedremo in seguito.

Intanto io mi chiedo: perchè la massima parte degli sperimentatori, da Aristotile in poi, invece di seguire la via segnata da lui, o si fermarono in un tritume di ripetizioni, o si lanciarono a bizzarrie ipotetiche senza fondamento? Perchè, in altri termini, avendo Aristotile prescritti, ai diversi ordini delle speculazioni, diversi e accomodati metodi, gli scolari suoi, dei processi del maestro, non ritennero che il deduttivo, e a quello forzatamente sottomisero tutto lo speculare umano? — E la ragione di questo fatto io trovo in una specie di ferrea necessità, che dovea tiranneggiare la scienza e trascinarla a male vie, una volta che per essa si era trascurato quel sommo criterio di metodo, che chiameremo cronotesiaco, dopo l'applicazione del quale si rendeva solo possibile assegnare e distinguere direttamente gli uffici della induzione e della deduzione. Senza di ciò la confusione era inevitabile. Mancava all'ingegno umano come la bussola nautica per orientarsi nell'immenso pelago della scienza. Infatti che giovava dire al filosofo: sperimenta bene; guardati dalla fallacia; va dai particolari agli universali; non dare assenso che al vero veduto, ecc. ecc. quando poi allo sperimentare si ponevano confini così smisuratamente vasti, che l'ingegno umano, anco privilegiato dello sguardo e dell'ali del genio, non li avrebbe potuti percorrere in molti e molti secoli? Avveniva ciò, che è facile immaginare. O l'ingegno umano comparava a dovere l'ampiezza e l'arduità del cammino alle sue forze, e ne riusciva scorato e scettico: o poneva fede in queste ultime troppo più che non ne meritassero, e allora doveva gettare coraggiosamente da sè quelle, che Gioberti chiama «le grucce dell'analisi», e adattarsi alle spalle le ali d'Icaro, e volare, volare finchè la cera non sentisse al vivo i raggi del sole. A questo secondo partito pieno di vaghezza e di lusinghe, s'appigliarono gli antichi. Ecco perchè fu messo il metodo deduttivo a governo di ogni speculazione dai dotti, e riuscirono alle entelechie, agli orrori ed agli amori della natura, agli spiriti ed alle proprietà occulte dei corpi, alla finalità invocata ad ogni tratto a spiegare il fenomeno, agli almanacchi sul moto perpetuo, a tutto insomma il vecchio e bizzarro corteggio della fisica insegnata nella Scuola. Nessuno si meravigli e rida per ciò. L'ardimentosa e sottile epoca delle Somme doveva necessariamente venire a questo; era il tentativo immaturo della unità, era un gigantesco sforzo enciclopedico, impotente perchè precoce, che mettevano in piedi sull'arena quel grandioso e ruinoso edifizio.

La più valida prova che i primi autori del Rinascimento ed i contemporanei di Galileo non colsero nel segno quando vollero studiare il difetto fondamentale del metodo l'abbiamo da questo, che molti di essi, con tanto ostentato amore di novità, continuarono gli errori antichi e poco sperimentarono di importante e di nuovo.

Che valse a Francesco Bacone l'avere tanto predicata l'esperienza? Nessuna scoperta fisica di gran rilievo sappiamo di lui; sappiamo invece che e' combatteva il sistema di Copernico come assurdo, quando parecchi in Italia e fuori l'avevano abbracciato e lo dimostravano; e ne' suoi libri, allorchè viene alla pratica minuta dello sperimentare, dice e fa a sproposito il più delle volte. La scolastica, l'abborrita scolastica, lo tiene ancora pel suo robone di Cancelliere. Rispetto ai nostri più illustri italiani Telesio, Campanella e Bruno, tutti sanno che il primo molto propugnò l'osservazione, poco seppe con frutto adoperarla. Fondò l'accademia Cosentina, che dovea rigenerare la fisica, ma nei suoi atti ebbe poche glorie a raccontare e nemmeno in questo può essere paragonata a quella posteriore del Cimento, genuina derivazione della scuola di Galileo. Nella vita il Campanella, osserva molto giustamente Alessandro D'Ancona (Vita), che egli nei primi passi sta al rigore del metodo, ma come la speculazione comincia a farsi complicata difficile, tutto a un tratto balza fuori dalla esperienza e comincia ad universaleggiare tranquillamente, come uno scolastico nè più nè meno. Quell'arditissimo ingegno di Giordano Bruno mostra le qualità più disparate e cozzanti: in alcune sue opere egli si collega a Raimondo Lullo, alla Kabbala, a quanto di più vieto e bizzarro hanno la scolastica, la teurgia e la divinatoria: in altre è mente rigorosa e sublime; tocca speculando altezze nuove e precorre ai progressi della scienza di qualche secolo. È noto che alcuni anni prima di Galileo egli combattè Tolomeo, e difese la teorica Copernicana; ma si badi agli argomenti che ve lo indussero. Ogni dilettante di matematica è in grado di conoscere ora la debolezza e gli errori dei calcoli, coi quali Bruno tenta sostenere Copernico; il vero argomento della verità di quel sistema egli lo trae dalla sua metafisica, e ci tocca andar seco a trovarlo lontano, ben lontano dall'ordine induttivo. L'universo, dice Bruno nella Cena delle Ceneri, è come un tutto divino; non ha limiti e versa in perpetuo movimento; dunque la terra non può essere suo centro, non può essere immota. E nel primo dialogo Della Causa Principio et Uno: «Se la terra, dice, non istà immobile nel centro del mondo, non ha nè centri nè fini: allora l'infinito si trova già di fatto nella visibile creazione della immensità degli spazi celestiali: allora finalmente il complesso indeterminato degli esseri forma una unità illimitata, prodotta dalla primordiale unità, che è causa delle cause.» Colla prima argomentazione il sistema di Copernico è posto a priori da Bruno come conseguenza della sua ontologia; colla seconda e' fa del medesimo sistema una prova di questa; che bisogno vi è omai più d'esperienza? Essa viene naturalmente esclusa da tal cerchia di speculazioni trascendentali.

Questi due aspetti della filosofia del Bruno noi riscontriamo in tutta la scienza di quell'epoca. Per un verso si vede lo sforzo dell'ingegno umano a raccogliersi in sè, ordinarsi, disciplinarsi, rattemprarsi nello studio del vero, abbandonando le vane investigazioni e i traviamenti della fantasia; è la filosofia di Leonardo da Vinci, di Cartesio, di Galileo che vuol trionfare. Ma, d'altra parte, voi non trovate tempo più di quello innamorato delle scienze occulte, dell'ipermisticismo e di tutte le altre capestrerie dello spirito: è il tempo aureo dei Paracelso, degli Agrippa e di tanti altri impostori o sognatori, tantochè vi paiono e in gran parte sono rinnovate tutte le più pazze cose dell'epoca Alessandrina. In mezzo a questi due estremi ondeggiano, come spinti da una forza misteriosa, quasi tutti gli ingegni del Rinascimento. Essi accolgono in sè le contraddizioni più strane. Giambattista La Porta, sottile e giusto sperimentatore, precursore di Galileo in iscoperte di gran momento, viaggia tutta Europa per raccogliere i segreti degli astrologhi e degli alchimisti in cui ha vivissima credenza. Campanella e Bruno, mentre che rendono servigi sommi alla scienza, il primo studia i modi dell'estasi, il secondo cerca, e dice aver trovata la ricetta con cui stregare gli uomini a distanza. Cardano s'illustra nelle matematiche e nella fisica, e fa profezie, l'ultima delle quali gli costò, dicono, la vita. (V. Libri. Storia delle Matematiche). Qual è ingegno libero e gagliardo in quel tempo, che non si pieghi all'astrologia, e non bamboleggi cogli oroscopi? Tasso e Guicciardini credono alle streghe; ci crede perfino Machiavelli, e trova in segni celesti la causa de' fatti civili, egli che con tanto acume aveva scoperto nelle passioni del cuore umano le vere sorgenti delle vicende degli uomini e degli imperi! (V. discorso sulla prima Deca). Che più? Persino l'ingegno altissimo di Isacco Newton piega a queste ubbie e ammette, per esempio che sette sono i colori dello spettro non tanto per ragioni sperimentalmente accertate, quanto per il mistico significato del numero sette; perchè sette sono i sacramenti, sette le trombe dell'Apocalisse etc.

Un così bizzarro miscuglio di scienza nuova e d'opinioni viete, di libertà filosofica e di superstizioni volgari, che avviluppa il pensiero in quest'epoca, ha causa dal non essersi ancora introdotto nella scienza il primo e più sostanziale del miglioramento metodico. — Vi ha bisogno anzi tutto di chi metta le mani in quella unità enciclopedica enorme e nebulosa, e ne tragga le diverse scienze per modo che ognuna di esse, senza rompere i vincoli di fratellanza, viva a sè, di vita sua, esercitandosi in un ordine di ricerche proporzionate all'indole e al fine proprio. La fisica stia contenta allo studio dei corpi; l'astronomia alla osservazione degli astri, dei pianeti, delle comete e degli altri fenomeni celesti: la medicina alla cura dei morbi, e via via, cacciando dalle singole scienze quelle fastidiose questioni metafisiche, che ad esse le hanno come impigliate e le tengono da secoli sospese nel vuoto e ne impediscono il libero svolgimento. È il gran principio della divisione e della libertà scambievole delle scienze, che bisogna applicare. — In secondo luogo è necessario formarsi un concetto della potenza dell'ingegno umano, meno superbo e lusinghiero al certo, ma più giusto e conducente a pratica utilità. Non è dato a mente d'uomo abbracciare tutto e di tutto rendersi ragione: molte volte è sapienza il confessar d'ignorare, e Socrate di tale sapienza andava lieto.

Breve; ad inaugurare i tempi nuovi si richiedevano due massimi criteri metodici. Uno per le scienze, che rompesse l'artificiosa unità medioevale, affine di dar luogo a conveniente distinzione e libertà; un altro per l'intelletto che lo invigorisse mantenendolo ne' suoi debiti confini, proporzionando l'ambito e l'arduità delle speculazioni ed esperienze alla capacità delle facoltà speculative e sperimentali, capacità vista ed accettata sotto i due aspetti; cioè assoluta per la natura finita dell'intelletto, relativa e cronotesiaca, vale a dire commisurata allo svolgimento storico dello scibile pervenuto a quei dati termini in quella data epoca. I precursori e contemporanei di Galileo nulla intesero di questo che era il più essenziale. Qual è problema infatti nell'ordine della scienza, che essi non si mettano a risolvere? Qual è mistero nell'universo, dall'Assoluto ai più bassi fenomeni di natura, che essi non vi spieghino appuntino? Uno scienziato moderno, che prenda ad esame un'opera di quel tempo, non può a meno di stupire alla facilità e all'audacia smisurata colla quale vi si tratta e risolve ogni cosa. — Cardano nella sua famosa opera De Sublimitate si fa dallo spiegare i principii di tutte cose: la materia, la forma, gli elementi, il cielo, la luce; poi passa a considerare i corpi misti, le pietre, le piante, gli animali; per questa via giunge all'uomo, che studia nella pienezza di sua natura, senso, intelligenza ed anima; viene quindi a trattare degli oggetti, sui quali l'anima esercita le sue facoltà, le scienze, le arti ecc; infine prendendo la risalita, Cardano, non senza avere prima toccato dei diavoli, monta agli angioli, a Dio, all'universo. D'alcune opere basta mostrare il titolo ad argomento della sconfinatezza di loro contenuto. Un'opera di F. Patrizi ha sul frontespizio: Nova de universis philosophia, in qua aristotelico methodo, non per motum, sed per lucem et lumina, ad primam causam ascenditur; deinde novo quidem ex peculiari methodo tota in contemplatione venit Divinitas; postremo, methodo platonico, rerum universitas a conditore Deo deducitur. Alla quale vaghezza di tutto abbracciare e intendere e rinnovare, si mostra preso non meno degli altri Francesco Bacone: e valga a dimostrarlo la sua maggior opera — Instauratio magna — il cui solo titolo è un programma di riforma enciclopedica, il contenuto uno dei più insigni documenti della baldanza dell'ingegno umano. E basterebbe entrare per poco nella storia delle singole scienze di quel tempo, per accorgersi come ogni progresso doveva essere fortemente impedito sì dall'intreccio e compenetrazione delle diverse scienze fra loro, come dal non essersi mai commisurata l'arduità dei temi alla capacità dell'ingegno umano in sè stesso considerato, e rispetto al «momento» storico nel quale versava. — Come volete, a mo' d'esempio, che la medicina si lanciasse innanzi spedita, quando nelle scuole, dal XIII al XV secolo, prima di rendersi conto di una malattia, lo studioso doveva rispondere a cento questioni della seguente risma: Utrum complexio et mixtio sint formæ substantiales. — Utrum intellectus agens et materialis sint idem in substantia. — Utrum intellectus semper intelligat. — Utrum spiritus vitalis sit subtilior animali — utrum nervus sentiat per se vel non. — Utrum virtus possit comprehendi sub aliqua trium potentiarum — utrum anima intellectiva sit una vel simplex, etc. etc.? (V. Puccinotti, Storia della medicina).

Il riformatore chiamato a restaurare davvero la scienza sperimentale ed il suo metodo doveva dunque andare più a fondo che i suoi contemporanei, e mettere la scure nella vera radice del male. Doveva anzitutto, col lume della buona critica, apprendere alla scienza una virtù fino allora sconosciuta o derisa; la virtù della modestia, derivata da retta conoscenza di quello che può l'ingegno umano in un dato tempo, di fronte agl'infiniti segreti della natura. Indi, per mettere armonia di relazioni tra le forze dell'ingegno ed il suo lavoro speculativo, doveva il riformatore proclamare la divisione delle scienze, rompendo l'unità farragginosa in cui erano avvolte, sostituendovi l'unione gerarchica e la scambievole libertà.

Galileo coll'opera e cogli scritti pose questa doppia riforma, così che in lui potè solamente sistemarsi e compiersi l'opera del Rinascimento. Egli fece ancora di più: antivide le esagerazioni del suo sistema, e pensò, come vedremo, a prevenirle e correggerle, abbracciando così colla potenza meravigliosa del suo ingegno critico il passato e l'avvenire della scienza.

Teste quadre

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