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DUE AMORI
RACCONTO DI SALVATORE FARINA
VOLUME I
VI

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Nonostante la cura che Raimondo poneva per nasconderlo ai miei occhi, io compresi dopo alcuni giorni come il nuovo genere di vita a cui si era dato non riuscisse tuttavia a riempiere il vuoto profondo del suo cuore. Nei primi giorni egli prese parte ai nuovi piaceri con avidità; lo condussi ai teatri, alle adunanze chiassose di scapoli che da gran tempo avevo abbandonato anch'io, da per tutto ove si ride, si folleggia e si dimentica. Ma in ciò fare comprendevo io stesso l'insufficienza del mio rimedio; però pensai che il tempo avrebbe compito meglio di me l'opera che io aveva intrapreso. Stimai dunque miglior partito introdurlo in quelle poche famiglie che io conosceva e abbandonarlo poscia a sè stesso. Così feci. Ma ben tosto mi persuasi che ogni mio studio per ridonargli la sua pace era riuscito a vuoto. Quando Raimondo non ebbe più il mio eccitamento, trascurò le nuove conoscenze, e talvolta si tenne qualche giorno lontano da me senza avvisarmene secondo il consueto per mezzo di Charruà.

Evidentemente egli temeva i miei rimproveri; ma, forse per non mostrarsi ingrato, continuava a mostrar desiderio di vedermi, e per non peccare d'inciviltà si recava di tempo in tempo presso quelle famiglie che lo avevano accolto cortesemente nelle loro sale.

Fra le altre la contessa B. che aveva anch'essa passato parte della sua vita nell'America del Sud, s'era mostrata assai desiderosa di Raimondo. Egli vi si recava più volentieri, attratto dalla cortesia e dallo spirito della padrona di casa; ma si mostrava indifferente e freddo verso la folla di signore eleganti e d'artisti, da cui erano frequentati quei convegni notturni.

La contessa B. era una donna sui cinquant'anni; di modi affabilissimi, e di cuore ancor giovane. A poco a poco avea posto un grande affetto a Raimondo, e se avveniva che rimanesse alcun tempo senza vederlo, ne domandava a me con molta premura.

Naturalmente Raimondo si accorse di questo suo desiderio; e siccome egli era modesto e riconoscente a quel po' d'affetto che gli si offriva, fu tratto man mano a rendere più frequenti le sue visite. Così avvenne che capo qualche tempo le sue abitudini n'andarono affatto mutate.

Una sera, mentre Raimondo ed io discorrevamo in un canto della sala colla contessa, vedemmo venire incontro a noi un vecchio alto della persona ed una giovinetta sui diciotto anni. La contessa corse loro incontro, strinse la mano al vecchio, e baciò sulla bocca la fanciulla. Poco stante ci presentò il generale R. e la signorina Clelia.

Il generale era un uomo alla buona, di modi franchi e assai parco di parole. Se non avea toccato i settant'anni, certo era giù di lì; ma si conservava tuttavìa abbastanza in forze, sebbene la sua alta statura lo obbligasse a tenere il capo alquanto incurvato.

La signorina Clelia era una personcina dilicata, piuttosto pallida, con due occhioni neri e con lunghe treccie di capelli castani che lasciava scendere sulle spalle. Nell'insieme una creatura come se ne vedono tante; non affatto bella, e tuttavia ricca di doti fisiche; e se le falliva quella consapevolezza dei proprii meriti che è sì presso alla civetteria e che molti ricercano nella donna, spirava in compenso dai suoi occhi una candida espressione di ingenuità, e dall'abbandono delle sue membra e dalle sue movenze, una certa mollezza che non è difetto, e una tal quale indolenza piacevole. Clelia era una creatura buona. Parlava senza affettazione, senza guardarsi all'intorno per farsi ascoltare; sorrideva spesso; a quell'età il sorriso viene dal cuore; e se taluno le dirigeva la parola, sapeva starsene in ascolto-tutto ciò non è tanto comune come può parere. La sua parola era facile e chiara; diceva tutto il bene che sapeva-quando si mormorava di qualcheduno, taceva; se lo poteva senz'offendere, mutava discorso-palesava i suoi gusti senza tenersene-era presto fatto a dirli, i suoi gusti, ed infinito ad enumerarli: amava tutto. Tale mi parve dopo alcuni giorni ch'io l'ebbi in pratica la signorina Clelia.

Se non che io non seppi alla prima indovinare la sua condizione. Il vecchio generale la chiamava talvolta: "figliuola mia;" ma il più spesso: "signorina;" però se io poteva argomentarne del suo affetto paterno, era ben altra cosa della sua qualità dì padre.

Ma in una radunanza d'amici di casa l'è assolutamente impossibile di tener per gran tempo la tua curiosità, senza che trovi cento disposti a pagartene. I ciarlieri e i curiosi sono le razze più numerose che pullulino sulla terra. E che Domine Iddio ti scampi dagli uni e dagli altri, però che per maggior malanno essi si vivono in ottima armonia, e i ciarlieri vendono per uso e consumo dei curiosi-e la sete di questi è per lo meno pari alla feconda produttività di quelli. Ma siccome avviene che il curioso sia alla sua volta ciarliero, anzi per ciò solo sia avido di sapere, in quanto trovi mezzo di dire, a conti fatti avviene che è sempre l'uditorio che si trova a mancare. Però i galantuomini che se ne vivono al di fuori, si vedono involontariamente trascinati al mercato dove si vende a gran ribasso.

Press'a poco in questo modo avvenne che io sapessi qualche notizia sul conto della signorina Clelia. Era orfana, o almeno passava per tale; in questo convenivano tutti; ma secondo gli uni il Generale era un tutore, secondo altri un padre che nascondeva una colpa-se taluno avesse osato, non si sarebbe arrestato dinnanzi alla sua canizie e avrebbe detto peggio.

Una sera io mi era recato secondo l'usato presso la contessa B., notai che Raimondo, che da qualche tempo s'era fatto frequentatore assiduo, non era venuto. La contessa me ne domandò notizie; risposi non averne; infatti in quel mattino egli non era stato da me. Il discorso si portò naturalmente sovra di lui; la signorina Clelia era seduta d'accanto e ci ascoltava. In quella entrò Raimondo. Fosse caso o istinto, i miei occhi s'incontrarono con quelli di Clelia; ciò bastò a farlo arrossire.

–Si parlava di voi, disse la contessa, ne dicevamo molto male, perchè temevamo che non veniste.

Raimondo si scusò con garbo; da qualche tempo avea fatto cammino nella galanteria.

Poco stante la conversazione nostra languì; Clelia non diceva motto-Raimondo s'era fatto tetro. Mi aspettava che secondo il suo costume di allontanarsi quand'era sorpreso da cotali malinconie, togliesse commiato. Ma con mia sorpresa egli stette. La contessa, che aveva in qualche pratica il cuore di lui, procurava distrarlo, ma inutilmente.

Un'ora dopo la signorina Clelia salutò la contessa, e uscì.

Raimondo non s'era quasi mosso; ma non andò guari che anch'egli lasciò l'adunanza. Io gli tenni dietro e lo raggiunsi.

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