Читать книгу Leopardi - Federico De Roberto - Страница 8
CLASSICISMO E ROMANTICISMO.
ОглавлениеUn terreno arido s'irriga, un albero che pende si raddrizza: l'arte corregge la natura. Quali mezzi furono posti in opera per modificare la pericolosa disposizione di Giacomo Leopardi? Parleremo a suo luogo dell'azione della famiglia: questo è il momento di narrare la sua educazione intellettuale.
Con tanta smania d'azione, con tanta e tanto precoce capacità di vivere, il giovanetto recanatese passa i migliori anni dell'adolescenza sui libri. “Io sono andato un pezzo in traccia della erudizione più pellegrina e recondita, e dai 13 anni ai 17 ho dato dentro a questo studio profondamente, tanto che ho scritto da sei a sette tomi non piccoli sopra cose erudite (la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato).„ Non soltanto la salute del corpo è rovinata; ma quella dello spirito è peggiorata. Il lavoro della mente diviene, a scapito dell'attività dei muscoli, il suo bisogno, il suo amore. Infermo, egli lavora ancora sei ore il giorno; e dice d'essersi così moderato “assaissimo.„ E oltre che l'eccesso, il genere stesso del suo lavoro mentale gli è pernicioso. Lo studio d'una disciplina esatta, di una scienza sperimentale, sviluppando il senso dell'osservazione reale, fomentando la nativa facoltà del raziocinio, avrebbe, se non soffocato, moderato almeno la fantasia; e se non aiutato, almeno non repressa la capacità d'azione. Egli studia invece quella filologia, quelle “spente lingue dei prischi eroi„ che lo segregano dal mondo moderno, che lo fanno vivere nel passato, che popolano il suo cervello di figure antiche e favolose. La sua fantasia è capace di dar corpo alle ombre, il suo sentimento s'infiamma per esse. Quando egli legge un classico, la sua mente “tumulta e si confonde„; quando legge Virgilio “m'innamoro „, confessa, “di lui.„ Abbiamo visto che rifà i canti ed eccita dentro di sè i sentimenti di Simonide, dei fedeli al nume del mare; reciprocamente: attribuisce i sentimenti suoi proprii a Saffo, a Bruto minore. Leggete le sue lettere: egli non parla d'altro che di scrittori greci e latini: di Omero, di Virgilio, di Callimaco, di Orazio: chiede notizie ai suoi corrispondenti di Giulio Africano, ne dà intorno a Dionigi e all'Eusebio del Mai; quando il dotto abate ritrova i libri di Cicerone della Repubblica si commuove sino a scrivere una canzone. E traduce la Batracomiomachia, due volte; la Titanomachia, gl'Idillii di Mosco, un canto dell'Odissea, un altro dell'Eneide; e ragiona delle Arpie, e compone tutto un libro sugli errori popolari degli antichi. Non si contenta di studiare e tradurre: se pensa di scrivere un romanzo storico, intende che debba essere “sul gusto della Ciropedia.„ Un simile proposito dimostra sino a che segno egli è lontano dal suo tempo. Quando egli porge l'orecchio alle voci che vengono di fuori, ode gli echi d'una lotta vivace: classici e romantici si accapigliano. Naturalmente egli è coi classici; lo farebbe ridere chi pensasse di ascriverlo all'altro partito. E nondimeno s'inganna.
Classicismo e romanticismo non sono soltanto due scuole letterarie, ma due stati della coscienza e quasi due diverse qualità di anime. L'indole di chi ha seguito le tradizioni è calma ed equilibrata, o capace di frenarsi e di obbedire a certi consigli di moderazione e di prudenza, a certi precetti di ordine e di misura. Nature ribelli hanno sempre tentato di esprimersi liberamente; ma tanto forte è stata l'efficacia dell'insegnamento, che o si sono ultimamente piegate, oppure il loro esempio è rimasto senza imitatori. Altrettanto è avvenuto in politica: i tentativi di affermare i diritti dell'individuo contro le potestà consecrate dalle leggi secolari sono rimasti lungamente sterili. E la rivoluzione politica coincide con la rivoluzione letteraria. L'autorità dei maestri vien meno per quella stessa causa che distrugge ogni altra autorità nel consorzio sociale: la filosofia del secolo XVIII, tutto esaminando e tutto ponendo in forse, prepara una nuova era nel mondo; il primo romantico è il primo rivoluzionario: Gian Giacomo Rousseau. Ma le origini del romanticismo sono ancora più remote. La signora de Staël ha ragione di dire che la divisione della letteratura in classica e romantica si riferisce alle due grandi età del mondo: a quella che precedette e a quella che seguì lo stabilimento del cristianesimo. L'anima pagana, idealizzando la natura, aveva estrinsecato un certo tipo di perfezione e se n'era appagata; ma lo spirito umano, irrequieto indagatore, non poteva trovar sempre nella natura un pascolo adeguato; doveva anzi presto o tardi riconoscere che il mondo della coscienza è senza fine più vasto e ricco che non il mondo delle cose. Questo scontento della realtà, quest'ansia di novità, questa specie di ripiegamento dell'anima in sè stessa, furono in grandissima parte opera della predicazione cristiana. Se l'ideale classico, cioè pagano, continuò ad essere onorato lungo tempo dopo che la dottrina di Cristo mutò la faccia del mondo, ciò dipese in gran parte dalla prevalenza della razza latina, nella quale il paganesimo, come serenità di sentimento, come ludicità di visione, era quasi connaturato. Quel che c'è di triste e di dolente nella fede cristiana era quasi inaccessibile a una gente vissuta sotto cieli chiari, in riva ai mari tranquilli, sopra terre feconde quasi sempre sorrise dal sole. Inconsapevolmente essa professava il nuovo culto con le forme antiche; i vecchi riti e i vecchi miti sopravvivevano: un giorno, quando la rinnovazione dell'ideale pareva compita, il paganesimo rifiorì e il classicismo trionfò con la Rinascenza. Ma la nuova fede, intanto, penetrava più a dentro fra la gente del Nord. Gli uomini vissuti sotto cieli foschi, sulle rive di mari lividi, su terre ingrate, erano meglio preparati al nuovo verbo che insegna a disamare la terra, che dice la vita terrena un doloroso viaggio. Questi uomini non potevano vivere all'aperto, dissipando la loro attività in giuochi e feste; il raccoglimento dell'anima, l'esame della coscienza riusciva loro più facile; alla mortificazione della carne erano meglio preparati. Quando essi videro che cosa i Latini avevano fatto del cristianesimo, protestarono e fecero valere la loro protesta. Lungo tempo ignorati o mal noti, questi Nordici cominciarono a prender parte alla storia del mondo, produssero ingegni che ne espressero gl'ideali: a poco a poco il loro genio esercitò come un fascino sui Latini, disposti dalla stanchezza ad apprezzare la novità. Se pertanto la filosofia del secolo decimottavo, con i suoi dubbii e con le sue negazioni, fa impeto contro la scuola classica, l'invasione delle letterature nordiche accresce la vigoria dell'assalto. E la rivoluzione francese scuote la società dalle fondamenta, e Napoleone sconvolge il mondo: il sangue scorre a fiumi, dalle ghigliottine, sui campi di battaglia; gli Stati si trasformano, i confini si slargano, gli eserciti corrono dall'uno all'altro capo dell'Europa, i popoli si avvicinano: nuove visioni di cose tragiche o insolite passano dinanzi agli occhi della nuova progenie: i consigli di chi vorrebbe tornare alla compostezza, alla semplicità, alla serenità del passato non sono più uditi; ma gli ansiosi che hanno iniziato il mutamento non vi trovano la quiete, sibbene un'ansia nuova, più acuta. In questo tempo nasce Giacomo Leopardi.
Egli può ben credersi classico, può bene appartarsi dal mondo moderno, può bene suscitare dentro di sè l'antico: non potrà far mai che questo antico torni realmente, non può distruggere in sè o d'intorno a sè gli effetti dei secolari o dei nuovi rivolgimenti. Chi più vuol essere classico, chi è animato da un più vivo sdegno contro i moderni, partecipa nondimeno a questa modernità e, senza volerlo, lo dimostra. Il Leopardi confessa apertamente d'essere stato durante un certo tempo con i moderni. Questo tempo è lo stesso durante il quale egli è ancora vivace, capace di muoversi, di operare. “Io da principio aveva il capo pieno delle massime moderne, disprezzava, anzi calpestava lo studio della lingua nostra; tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal francese.„ Rammentiamoci di Chateaubriand il quale disse di sè: “J'étais Anglais, de manières, de goût et jusqu'à un certain point de pensées.„ Come il Francese cerca il nuovo in Inghilterra, così l'Italiano lo cerca in Francia: l'indirizzo è diverso, ma identica è la spinta interiore per la quale le cose note e vicine sono sdegnate, e ricercate le insolite e nuove. Così mentre in Germania le menti si nutriscono di Young e di Ossian, e Schiller e Goethe si appassionano per Shakespeare; in Francia la signora de Staël introduce il romanticismo tedesco; e Alfredo de Musset a diciassette anni preferisce non esser nulla se non potrà essere Schiller o Shakespeare, e Chateaubriand legge Werther prima di scrivere Renato — Ugo Foscolo lo ha letto in Italia prima di scrivere Jacopo Ortis — e Sainte-Beuve parla con tenerezza di Klopstock, e Carlo Nodier trae l'ispirazione da “cette merveilleuse Allemagne, la dernière patrie des poésies et des croyances de l'Occident.„ L'ardente e immaginoso fanciullo recanatese cerca anch'egli ed ama gli stranieri; e tale è la foga che egli mette in questa come in ogni altra sua passione, che arriva a disprezzare Omero, Dante, tutti i classici; ma il giovanetto riflessivo tosto comprende che la disciplina della vecchia scuola è la più adatta a formare lo spirito, che questi classici, seguendo i principii ora disprezzati hanno espresso cose d'una imperitura bellezza. Allora egli si converte, s'immerge “sino alla gola„ nei “suoi„ classici; gli scrittori che cercano ispirazioni oltre l'Alpi eccitano il suo sdegno; lo Spettatore italiano, foglio romantico, gli pare “un mucchio di letame„; la Biblioteca italiana, giornale dei classici, ha le sue preferenze. Allora egli è considerato come uno dei campioni del classicismo; Pietro Giordani lo stima classico non soltanto di studii, ma anche di animo: “Più volte m'è venuto in mente che se ci fosse ancora lecito di ripetere i sogni platonici.... io vorrei dire ch'egli fosse una di quelle anime preparate da natura per incarnarsi in Grecia sotto i tempi di Pericle e di Anassagora; e da non so qual errore tardata sino a questi miseri giorni ultimi d'Italia; per mezzo i quali, parlando con voce italiana pensieri greci, come straniera passò.„ Ma il Giordani s'inganna anch'egli; l'anima che pareva greca era nondimeno del suo tempo; per quanto grande fosse la seduzione del mondo antico, il suo proprio mondo dal quale voleva fuggire la tratteneva con mille sottilissimi fili ed esercitava un'influenza costante su lei.
Consideriamo ad uno ad uno i caratteri del romanticismo come metodo letterario e come stato psicologico: vedremo quanti se ne trovano nel Leopardi. Letterariamente, i romantici insorgono contro l'imitazione. Per lungo tempo i grandi antichi sono stati considerati insuperabili; studio e dovere degli scrittori è stato quello imitarli. E il Leopardi, con tutta la sua infatuazione per gli antichi, quantunque anch'egli li abbia non poco imitati, pure critica il Monti perchè questo poeta “va con una ributtante freddezza ed aridità in traccia di luoghi di classici greci e latini, di espressioni, di concetti, di movimenti classici, per esprimerli elegantemente; lasciando con ciò freddissimo l'uditore„; e giudica che la coltura classica, così adoperata “più quasi nuoce di quello che giovi.„
Un altro punto intorno al quale romantici e classici battagliano è questo: l'arte deve figurare il brutto? o attenersi soltanto al bello? I classici sono per questo secondo partito, escludendo il primo rigorosamente; gli altri invece vogliono che il campo dell'arte si slarghi, che comprenda tutta quanta la natura. E intorno a questo argomento il Leopardi discorda dal Giordani. “Ella ricorda in generale ai giovani pittori che senza stringente necessità della storia (e anche allora con buon giudizio e garbo) non si dee mai figurare il brutto. Poichè, soggiugne, l'ufficio delle belle arti è di moltiplicare e perpetuare le immagini di quelle cose o di quelle azioni cui la natura o gli uomini producono più vaghi e desiderabili: e quale consiglio o qual diletto crescere il numero o la durata delle cose moleste di che già troppo abbonda la terra?„ Rispettosamente egli espone al maestro il suo concetto tutto diverso. “A me parrebbe che l'ufficio delle belle arti sia d'imitare il bello nel verisimile„. È vero che si appoggia all'autorità dei classici, di Omero, di Virgilio, di Dante, dei tragici; ma non è detto che i classici sieno tali in tutto e che i precetti dei romantici siano senza esempio di sorta. Nuova è la forza con la quale essi li affermano; e il Leopardi non si contenta dell'esempio, ricorre alla dimostrazione: “Certamente le arti hanno da dilettare, ma chi può negare che il piangere, il palpitare, l'inorridire alla lettura di un poeta non sia dilettoso? Perchè il diletto nasce appunto dalla maraviglia di veder così bene imitata la natura, che ci paia vivo e presente quello che è o nulla, o morto, o lontano. Ond'è che il bello, il quale veduto nella natura, vale a dire nella realtà, non ci diletta più che tanto, veduto in poesia o in pittura, vale a dire in immagine, ci reca piacere infinito. E così il brutto imitato dall'arte, da questa imitazione piglia facoltà di dilettare. Se un uomo è di deformità incredibile, ritrar questa non sarebbe sano consiglio, benchè vera, perchè le arti debbono persuadere e far credere che il finto sia reale, e l'incredibile non si può far credere. Ma se la deformità è nel verisimile, a me pare che il vederla ritratta al naturale debba dilettare non poco....„ Non si sente già venire Vittor Hugo il quale estenderà quest'idea e le darà forza di domma, protestando contro i pedanti che vogliono escludere il difforme, il brutto e il grottesco dalla riproduzione artistica, ed affermando superbamente: “Tout ce qui est dans la nature est dans l'art„?
Ancora: l'antica mitologia, della quale i poeti hanno fatto un secolare abuso, fuor della quale non si è trovata bellezza artistica, è sdegnata e derisa dai novatori: la fede cristiana torna invece ad essere onorata, le credenze religiose si ridestano e si affermano: l'arte narra i Martiri, celebra il Genio del Cristianesimo. Con tutto il suo paganesimo letterario, il Leopardi è pure nato nella fede di Cristo, ne sente pure la rinnovata seduzione; egli pensa pertanto di comporre ed abbozza gl'Inni Cristiani. I romantici non cantano solamente Dio, ma anche il diavolo; perchè essi credono che l'arte non debba escludere nulla, neppure l'orrido; e che dai contrasti nascono effetti nuovi, più potenti: essi dicono: “Nous vous donnerons de l'incroyable, de l'affreux, du terrible, de l'extravagant, et s'il le faut, le diable lui-même remplacera votre vieux Apollon....„ E il Leopardi abbozza anche un'invocazione ad Arimane, al genio del male.
I classici si rivoltano contro questa novità, vorrebbero attenersi esclusivamente alle letterature antiche, e bandire i moderni, gli stranieri, i nordici, dai quali vengono i maggiori ardimenti. Pietro Giordani divulga il consiglio che dà agli scrittori nostri la signora de Staël: “Dovrebbero, a mio avviso, gl'Italiani, tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche, onde mostrare qualche novità a' loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti all'antica mitologia; nè pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate; anzi il resto d'Europa le ha già abbandonate e dimenticate.„ Ma il Piacentino, che pare abbia fatto sue queste parole, traducendole, si schiera tosto dall'altra parte; e come il Monti si lagna che
Audace scuola boreal, dannando
Tutti a morte gli dèi che di leggiadre
Fantasie già fiorîr le carte argive
E le latine, di spaventi ha pieno
Delle Muse il bel regno;
così egli si duole che le nostre assonnate immaginazioni domandino, per risvegliarsi, “il fracasso, e quanto hanno di più frenetico e tempestoso le fantasie settentrionali„, e si ferma a dimostrare come siano diversi e discordi i genii delle due contrade. E il Leopardi si è doluto, come abbiamo visto, d'aver disprezzato Omero, Dante e tutti i classici e d'aver ammirato gli stranieri; nondimeno, se egli passa dal disprezzo all'ammirazione per i primi, e viceversa, non è già che segua da ultimo rigorosamente il nuovo indirizzo. Mentre il Giordani lo giudica classico d'animo e di letture, il Belloni, romantico, può dargli lode e cantare di lui, tanto moderato è l'uso che egli fa della mitologia. E, quanto agli stranieri, per comporre un trattato sulla Condizione presente delle lettere italiane, egli sente il bisogno di “infinite letture anche di libri stranieri.„ Egli legge, studia e cita l'iniziatore del romanticismo: il Rousseau, e si rallegra caldamente col Brighenti “della conoscenza ch'ella avrà fatta con Lord Byron, uomo certamente segnalato„; e giudica questo romantico, questo settentrionale, questo gran ribelle nell'arte e nella vita “uno dei pochi poeti degni del secolo, e delle anime sensitive e calde.„ E dà lode al Goethe perchè ha preso dalla realtà i casi di Werther; e se più circospetto è il suo giudizio sulle Memorie del grande poeta tedesco, noi vedremo che lo modifica. Queste Memorie, dice “hanno molte cose nuove e proprie, come tutte le cose di quell'autore, e gran parte delle scritture tedesche; ma sono scritte con una così salvatica oscurità e confusione, e mostrano certi sentimenti e certi principii così bizzarri, mistici e da visionario, che, se ho da dirne il mio parere, non mi piacciono molto.„ Ma più tardi al fratello Carlo, romantico deciso, più di lui ammiratore degli stranieri, scrive: “È vero che le tue lettere sono triste, ma son care e belle, ed io amo meglio di sentirti lamentare, che di lasciarti tacere. Il tuo stile si rassomiglia a quello del Goethe nelle Memorie della sua vita che ha pubblicato ultimamente. Io comprendo benissimo tutta la pena del tuo stato....„ Egli comprende anche lo stile del poeta di Faust dopo aver compreso lo stato d'animo che lo ha dettato.
Perchè, infatti, lo stile dei romantici e dei classici non è diverso per la diversità dei precetti retorici delle due scuole; ma perchè diversa è la condizione e l'indole dell'animo loro. Lo stesso Goethe spiega bene che i moderni non sono romantici perchè moderni, ma perchè deboli, malaticci, infermi; l'antico non è classico perchè antico, ma perchè vigoroso, forte, sereno. E se Giacomo Leopardi propende, quasi contro sua voglia, verso i romantici, ciò avviene perchè la sensibilità estrema e l'immaginazione esorbitante che abbiamo trovato in lui, sono i segni particolari di tutta la nuova fazione. “Noi Leopardi siam pieni di fuoco„, diceva Paolina, la sorella del poeta; due anni prima che Giacomo nascesse, l'autore delle Lettres Westphaliennes scriveva: “Toutes les imaginations sont en feu.... Jamais cette affection de l'âme qu'on nomme sensibilité ne fut exaltée autant que dans nôtre siècle; jamais le sentiment ne fut aussi analysé, aussi délicat, cela peut se remarquer même dans ses influences physiques, dans la prodigieuse quantité de maladies nerveuses qui se voit tous les jours. Les gens qui sont organisées d'une manière si irritable ont les passions plus vives.... On pourrait les nommer la secte des sentimentaux....„ E per il Recanatese il cuore è tutto, la sensibilità è tutto; egli si duole che tutti non sieno sensibili, “car je ne fais aucune différence de la sensibilité à ce qu'on appelle vertu.„
L'artista romantico, sdegnando l'imitazione dei vecchi scrittori, lasciando da parte le favole antiche, cupido di esprimere cose viste e sentite, capace di sentimenti che stima nuovi, squisiti, straordinarii, studia direttamente le sue passioni e la natura. Il Leopardi, discutendo col Giordani intorno alla prosa ed alla poesia afferma: “Da che ho cominciato a conoscere un poco il bello, a me quel calore e quel desiderio ardentissimo di tradurre e di far mio quello che leggo, non hanno dato altri che i poeti, e quella smania violentissima di comporre altri che la natura e le passioni; ma in modo forte ed elevato, facendomi quasi ingigantire l'anima in tutte le sue parti, e dire fra me: questa è poesia; e per esprimere quello che io sento ci voglion versi e non prosa, e darmi a far versi.„ Se quindi legge assiduamente i suoi classici latini e greci, e quanto più li legge tanto più gli s'impiccoliscono i nostri anche degli ottimi secoli, egli preferisce tuttavia i poeti ai prosatori; Cicerone, “una volta che la mia mente si trovava, come accade, in certa disposizione da bramare impressioni vive e gagliarde, mi parve (e fu in un trattato filosofico) più lento e grave che non si conveniva al mio desiderio di quel momento....„ Prosa e poesia non sono soltanto modi diversi d'espressione, ma anche diversi atteggiamenti dell'animo: la poesia è più sentimento, la prosa è più riflessione. Tra i più classici scrittori, in tempi che del romanticismo non esiste neppure il nome, i poeti sono naturalmente sensibili e immaginosi, hanno parte di quelle qualità che saranno proprie dei romantici e li distingueranno. Del pari i romantici sono naturalmente poeti per il calore degli affetti, per la vivacità dei fantasmi, anche quando non compongono versi. E la loro prosa è poetica, e il Leopardi che giudica il suo secolo poco o niente poetico e alle volte consiglia di porre da parte i versi e loda la prosa, linguaggio della riflessione e della filosofia; stima pure altra volta, perchè così vuole la duplicità dell'animo suo, che la prosa, per essere veramente bella, debba avere “sempre qualche cosa del poetico, non già qualche cosa particolare, ma una mezza tinta generale.„ C'è in lui un filosofo che si compiace nella lettura della classica prosa ciceroniana; ma c'è anche un poeta che, quando vede la natura dei luoghi ameni, nella bella stagione, si sente così trasportare fuori di sè stesso, “che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmene, e a lasciar passare questo ardore di gioventù e a voler divenire buon prosatore, e aspettare una ventina d'anni per darmi alla poesia.„ Non solamente egli preferisce la poesia, ma adora la musica: come tutte le anime sensibili del suo tempo, è deliziato da quest'arte che più e meglio della poesia parla al sentimento e all'immaginazione. Se la poesia è più romantica della prosa, la musica è l'arte romantica per eccellenza, l'arte nuova, l'ambiguo linguaggio delle nuove passioni perplesse, indefinite, inappagabili.
Desiderii infiniti
E visïoni altere
Crea nel vago pensiere,
Per natural virtù, dotto concento;
Onde per mar delizïoso, arcano
Erra lo spirto umano,
Quasi come a diporto
Ardito notator per l'Oceàno....
Mentre il poeta romantico attribuisce tanta potenza alla melodia, mentre chiama “mirabili„ le commozioni suscitate dalla musica, il filologo classico torna agli studii pazienti, all'esame dei testi antichi. L'uomo che risente alla lettura della Storia Romana del Niebuhr un piacere indicibile e che annovera fra le pochissime felicità della sua vita l'averne conosciuto l'autore, è lo stesso che sente le lacrime salirgli agli occhi udendo all'Argentina la Donna del lago.
Così l'intimo contrasto che abbiamo trovato fra le due potenti facoltà del suo spirito è accresciuto dall'educazione, dal dissidio delle influenze che ora lo spingono in un senso ora nell'altro. Ma, in verità, il contagio romantico gli si apprende ogni giorno più gravemente. Noi abbiamo considerato alcuni dei caratteri letterarii, rettorici, formali, del romanticismo; e abbiamo visto che, nonostante la sua fedeltà ai grandi antichi, il Leopardi pur s'accosta per questo rispetto ai moderni; ma se consideriamo il romanticismo non come forma ma come contenuto, non come metodo di scrivere ma come modo di sentire, troviamo nel Recanatese tutti i caratteri dei romantici veri.
L'immaginazione eccedente e la smodata sensibilità anticipano, tra costoro, la vita; prima e più che alle cose vere essi si affezionano alle figurazioni della loro fantasia. L'Harold di quel Byron che Giacomo amava tanto già prova il disgusto della sazietà quando ancora il primo tempo della sua vita non è trascorso. E la malinconia di Chateaubriand nasce quando “nos facultés jeunes et actives, mais renfermées, ne se sont exercées que sur elles-mêmes sans but et sans objet.„ E la fantasia dipinge ad Ortis “così realmente la felicità ch'io desidero, e me la pone davanti agli occhi, e sto lì lì per toccarla con mano, e mi mancano ancora pochi passi — e poi? il tristo mio cuore se la vede svanire e piange quasi perdesse un bene posseduto da lungo tempo.„ E il Lamartine, nel giorno che compie vent'anni è stanco come se ne avesse vissuti cento. Il Leopardi dice che in lui “l'attività interna si è consumata assai presto da sè medesima per il suo proprio eccesso.„
Le anime avvezze a spaziare nel mondo dei sogni, che non ha confini nè obbligazioni, potranno mai essere appagate dalla realtà precisamente circoscritta e severamente governata? “Quand tous mes rêves se seraient tournés en réalité,„ dice il Rousseau, “ils ne m'auraient pas suffi; j'aurais imaginé, rêvé, désiré encore. Je trouvais en moi un vide inexplicable que rien n'aurait pu remplir, un certain élancement du coeur vers une autre sorte de jouissance dont je n'avais pas l'idée et dont pourtant j'avais le besoin.„ E Chateaubriand: “On m'accuse de passer toujours le but que je puis atteindre; hélas! je cherche seulement un bien inconnu dont l'instinct me poursuit. Est-ce ma faute si je trouve partout des bornes, si ce qui est fini n'a pour moi aucune valeur?„ E il Leopardi vorrebbe “toujours sentir, toujours aimer, toujours espérer„ ma “le bonheur de l'homme ne peut consister dans ce qui est réel. Il n'appartient qu'à l'imagination de procurer à l'homme la seule espèce de bonheur positif dont il soit capable. C'est la véritable sagesse que de chercher le bonheur dans l'ideal....„ L'identità di queste disposizioni intime è manifesta. Ancora: Gian Giacomo preferisce le immagini agli oggetti che le hanno suscitate e, alle Charmettes, ama meglio la signora de Warens quando le è lontano che non quando le sta da presso. “Plusieurs fois j'ai évité pendant quelques jours l'objet qui m'avait charmé dans un songe délicieux. Je savais que ce charme aurait été détruit en s'approchant de la réalité. Cependant je pensais toujours à cet objet, mais je ne le considérais pas d'après ce qu'il était: je le contemplais dans mon imagination, tel qu'il m'avait paru dans mon songe.„ Sono parole del Ginevrino? E il Recanatese quello che le scrive. Egli chiede: “Suis-je romanesque?„ Sì, o, per meglio dire, egli è romantico. Romanzeschi chiama ancora, invece che romantici, i sentimenti idilliaci dell'amico Brighenti; ma poi, come la parola romantico è stata la prima volta adoperata per qualificare un paesaggio, così anch'egli l'adopera per qualificare un paese: a Pisa trova “un certo misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto veramente romantico.„
Nel sentire diversamente e maggiormente che gli altri, nel fuggire il mondo reale, nel concepirne uno idealmente migliore, i romantici si credono singolari, ottimi, unici. Il Rousseau scrive: “J'étais fait pour être le meilleur ami qui fut jamais; mais celui qui devait me répondre est encore à venir.„ Il Lamartine loda “ces âmes concentrées, quoique errantes, qui désespèrent de trouver dans les autres âmes ce qu'elles rêvent de perfection en elles-mêmes.„ E il Leopardi loda “quei pochissimi che sortirono le facoltà del cuore, i quali possono avere dalla loro parte alcuni di questo numero„, e crede che nell'amore nessuno lo eguagli: “non nasce un altrettale amor„ dice di sè stesso il suo Consalvo. Egli crede ancora che nell'amicizia nessuno senta come lui: “Chiamo voi medesimo in testimonio che un'altra persona che vi amasse ardentemente e immutabilmente come fo io, non l'avete ancora trovata nè sperate di trovarla: ed io come bramerei che ci fosse, non altrimenti, considerando me stesso, mi persuado affatto che non si trova.„ E il suo dolore e quello del fratello Carlo, che è un altro sè stesso, per la morte del fratello Luigi, non ha il simile: “Scrivimi come vuoi; scrivimi due sole parole come fo anch'io, perchè le cose che noi sentiamo non si possono esprimere, ed è ben naturale che le nostre lettere sieno come le grandi passioni, cioè mute.„
Per questo sentimento orgoglioso combinato con lo sdegno della realtà nascono nei romantici la misantropia e l'amore della solitudine. L'anima è sola, il mondo è un deserto, la civiltà un tradimento fatto alla natura; il ritorno allo stato patriarcale il solo saggio partito. Il Leopardi scioglie un inno ai Patriarchi; detesta i raffinamenti, i pervertimenti della società; ama di caldo amore la semplice natura. “Senza fallo„ scrive al Giordani, “io spero che vi sentiate meglio anche voi, contemplando questa natura innocente, fra la malvagità degli uomini.„ Il Renato dello Chateaubriand ha chiamato la folla “vasto deserto di uomini„; il Leopardi dice: “veramente per me non c'è maggior solitudine della gran compagnia.„ Il suo carattere “è di chiudere nel profondo di me stesso tutti gli affanni e le affezioni vere„; naturalmente è inclinato alla vita solitaria, e la canta, e canta il passero solitario, il costume del quale tanto somiglia al suo. Questo raccoglimento dà luogo più tardi a una smania, a un bisogno di dissipazione; allora egli dice che non è “nato alla pazienza„, che la solitudine “non è fatta per quelli che si bruciano e si consumano da loro stessi„; e insomma, come tutti i romantici, egli è inquieto, incontentabile, non sa quel che vuole: “A me piace moltissimo la compagnia quando son solo, e la solitudine quando sono in compagnia....„ Dopo aver educato sentimenti idilliaci, si compiace, come i suoi maestri, degli spettacoli tragici, delle convulsioni della natura: la sua Saffo classicamente esprime un pensiero romantico:
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
Ma il suo stato abituale è il tedio, il fastidio, la noia; come quello dei romantici che, non contenti di annoiarsi all'italiana, alla francese o alla tedesca, hanno preso ad imprestito lo spleen inglese. Il tedio lo affoga, la noia non solamente lo “opprime e stanca„ ma lo “affanna e lacera„; e tanto gli è abituale, tanto è connaturata in lui, che gli pare naturale, lodevole e grata: “la noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa.„
Noi dovremo tornare più tardi su questi punti: notiamo per ora come altri sintomi del male romantico si riscontrino nel Leopardi. Sdegnando il mondo e i loro simili, che faranno gli annoiati? Niente nella vita gli attira; essi soli sono perfetti: passeranno pertanto il loro tempo osservando sè stessi; l'analisi psicologica viene in grande onore. L'abito filosofico di studiare nella propria la natura di tutti gli uomini è afforzato nel Recanatese da questa mania del suo tempo; egli pensa che nessuno scritto è più eloquente di quello dove altri parla di sè stesso. E mentre una forma d'arte, il romanzo, già cronaca degli avvenimenti, diventa ora lo specchio dell'anima; mentre Stendhal compone i suoi primi romanzi psicologici; Giacomo Leopardi, quello stesso classico Leopardi il quale voleva scrivere un romanzo storico “sul gusto della Ciropedia„, pensa di comporre la Storia d'un'anima: “romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche, ma racconterebbe le vicende interne di un'anima nata nobile e tenera, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte„; pensa anche di comporre i Colloquii “dell'io antico e dell'io nuovo, cioè di quello che io fui, con quello ch'io sono; dell'uomo anteriore all'esperienza della vita e dell'uomo esperimentato.„
Se pure i romantici non fossero sdegnosi della realtà, se pure stimassero i loro simili e volessero frequentarli ed imitarli, vivendo come essi, ne sarebbero capaci? Le assidue analisi intime, l'intensità del pensiero, prima che nel Leopardi, in tutti gli altri romantici e nell'iniziatore della scuola attenuano l'energia volitiva e rendono incapaci di vivere: lo stesso Leopardi nota questa sua parentela col Ginevrino quando, enumerato nel Filippo Ottonieri i diversi generi di uomini, ragiona di quelli nella cui natura “è congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e di timidità: in modo che essa natura combatte seco medesima. Perocchè gli uomini di questa seconda specie.... non vengono a capo, nonostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addentrarsi all'uso pratico della vita, nè di rendersi nella conversazione tollerabili a sè non che altrui. Tali essere stati negli ultimi tempi, ed essere nell'età nostra, se bene l'uno più, l'altro meno, non pochi degl'ingegni maggiori e più delicati. E per un esempio insigne, recava Gian Giacomo Rousseau.„
L'incapacità di vivere come gli altri, l'assiduità delle meditazioni, la noia, l'inquietudine, la solitudine, producono la malattia del secolo: la malinconia, la disperazione, l'amor della morte. Se l'anima immaginosa e sensibile ha esaurito prima di vivere la sua forza vitale, se l'esperienza la scontenta, se il mondo la disgusta, se la solitudine la snerva, se gli altri la offendono, se la propria compagnia la stanca, dove resterà un rifugio? Nella morte, unicamente. A questa conclusione arrivano tutti i romantici. Werther si uccide, Ortis si uccide; i loro imitatori non sono soltanto legione nell'arte, ma anche nella vita. Una donna, la Staël, fa l'elogio del suicidio; un'altra donna, Elisa Mercoeur, tenta di asfissiarsi col profumo dei fiori. Vittorio Escousse a 19 anni e Augusto Lebras a 16, si asfissiano insieme perchè non si sentono al loro posto quaggiù, perchè manca loro la forza a ogni passo fatto avanti o indietro. Alfredo de Vigny riconosce che il suicidio è un delitto per la religione e per la morale, ma la disperazione può più che la ragione; e, se la vince, sarà da chiamar colpevole il suicida, il poeta, o non piuttosto il mondo?... Non occorre citare altri esempi. Miglior partito sarà dimostrare la forza di questo contagio. Giacomo Leopardi forse anche senza l'epidemia romantica avrebbe disperato; ma, senza le cause della sua disperazione che indagheremo fra poco ad una ad una, i germi del male diffusi nell'aria del suo tempo avrebbero attecchito e prodotto una grande rovina dentro di lui. Questi germi erano così virulenti che attaccarono e minacciarono per un momento la salute morale d'un uomo d'azione, dell'uomo destinato ad operare cose grandissime, dell'uomo che ebbe la massima energia e il massimo impero sopra sè stesso, sopra i suoi simili e sul mondo: Napoleone Bonaparte. “Je suis ennuyé de la nature humaine,„ scrive egli un giorno al fratello Giuseppe: “Les grandeurs m'ennuyent, le sentiment est desséché, la gloire est fade.„ Ed anch'egli si duole: “Un jour, au milieu des hommes, je rentre pour rêver en moi-même, et me livrer à toute la vivacité de ma mélancolie. De quel côté est elle tournée aujourd'hui?„ Ed anch'egli pensa alla morte: “Du côté de la mort. Dans l'aurore de mes jours, je puis encore espérer de vivre longtemps, et quelle fureur me porte à vouloir ma destruction?... Que faire dans ce monde?... Puisque je dois mourir, ne vaut-il pas autant se tuer? Si j'avais passé soixante ans, je respecterais les préjugés de mes contemporains et j'attendrais patiemment que la nature eût achevé son cours; mais puisque je commence à éprouver des malheurs, que rien n'est plaisir pour moi, pourquoi supporterais-je des jours on rien ne me prospère?...„
Se Bonaparte non sfuggì al contagio nei primi tempi dell'epidemia, con quanta violenza non deve essa comunicarsi più tardi, nell'infuriare del romanticismo, ad un'anima sensitiva e fantasiosa come quella del Recanatese?... Abbiamo visto che la potenza del sentimento poetico e dello spirito filosofico è in lui causa di un intimo disagio; questo disagio potrebbe essere, ma non è curato dall'educazione; tutt'altro. Una disciplina uniforme avrebbe potuto essergli salutare; ma egli nasce in un tempo travagliato, in mezzo a un campo di battaglia. Senza l'avvelenamento romantico, non è da credere che le sue facoltà poetiche, l'immaginazione e la sensibilità, sarebbero state represse a vantaggio delle altre; ma non sarebbero state esasperate come furono. E se pure il poeta avesse potuto sentire come i romantici, senz'altro, certo non sarebbe stato contento, come non furono contenti i suoi predecessori e compagni e seguaci; ma non avrebbe sofferto, come soffrì, per avere nello stesso tempo tanto assiduamente ripensato il pensiero antico. Mentre intorno a lui ciascuno scrittore lotta contro un altro, egli lotta con sè stesso: è classico e romantico a un tempo, è attratto dall'una all'opposta parte. Fra le due retoriche cerca un accomodamento: la letteratura s'indirizzi “verso il classico e l'antico„ col soccorso della filosofia, trattando soggetti “del tempo„, riconoscendo “la necessità di adattarsi al gusto corrente„; ma i sentimenti, gli atteggiamenti morali, grazie ai quali ogni altro scrittore si mette piuttosto con l'una che con l'altra fazione, non si conciliano dentro di lui o si conciliano per farlo soffrire; perchè, mentre il romanticismo lo disgusta del reale, il classicismo lo rende incapace di adattarsi al mondo moderno. Leggete il suo canto Alla primavera, che porta anche un secondo titolo: Delle favole antiche: vedrete che egli loda i tempi quando tutta la natura era animata, quando le candide ninfe e gli agresti Pani popolavano i fonti ed i campi, quando i fiori e l'erbe ed i boschi vivevano, quando Eco non era un “vano error di venti„ ma il dolente spirito di una ninfa infelice. Il sentimento che glie lo detta non potrebbe essere più classico; consideratelo più attentamente: troverete che non è tanto classico quanto pare; c'è dentro quella stessa scontentezza del presente e del vicino che spinge i romantici verso il passato e l'esotico. I romantici puri si rifugiano col pensiero nel medio-evo cavalleresco e cristiano; il Leopardi lo evoca una volta:
O torri, o celle,
O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi!...
ma gl'immensi studii fatti intorno all'antichità lo rivolgono di preferenza a quel mondo pagano dal quale dovrebbe rifuggire interamente per essere romantico del tutto; nel quale dovrebbe serenamente rifugiarsi per essere del tutto classico. Nato più presto o più tardi, il suo spirito avrebbe forse seguito una sola corrente e nella nettezza delle visioni e nella saldezza dei convincimenti avrebbe trovato forza e sostegno: l'età perplessa nel quale vive accresce il suo disagio. Se egli possedesse una nativa capacità d'equilibrio, a lui si potrebbe riferire ciò che il Giordani dice del Canova, e “pietosa„ sarebbe stata la provvidenza ponendolo “sul doppio confine della memoria e dell'immaginazione umana a congiungere due spazii infiniti, richiamando a noi i passati secoli, e de' nostri tempi facendo ritratto agli avvenire„; ma questa congiunzione, alla quale il Leopardi artista deve la sua grandezza, è anche un'altra causa del dolore dell'uomo.