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Costarica, Primavera 2015

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Head full of dreams unclear

Make the days seem twice as long.

(Ben Harper)

La primavera del 2015 fu, per il villaggio di Burgos e per tutto il Costarica, particolarmente fredda.

Alle canoniche piogge torrenziali che dal mese di Aprile accompagnano i pomeriggi dei ticos costaricani, quell’anno si era affiancato un abbassamento inaspettato delle temperature, che aveva portato alla maggior parte degli abitanti del villaggio le tipiche malattie della stagione fredda.

L’ispettore Castillo non aveva fatto eccezione.

Aveva da poco superato i cinquant’anni e, a memoria, l’ultima volta che aveva avuto la febbre alta frequentava la quarta elementare.

Al tempo era un bimbo esile, con presunti problemi di crescita (pesava poco più di venti chili e non superava il metro e venticinque di altezza); ora era un uomo massiccio (nessuno si poteva permettere di dargli del grasso!), si avvicinava al metro e ottanta e pesava quasi un quintale.

Due baffoni neri gli si stagliavano sul viso olivastro, dando risalto agli zigomi alti e ben pronunciati; la signora Conchita non smetteva di ricordargli che, da giovane, assomigliava a Clark Gable e che avrebbe fatto meglio a intraprendere la carriera cinematografica piuttosto di quella investigativa, visti i risultati ottenuti.

In quelle circostanze, Castillo lasciava parlare la moglie, alzando impercettibilmente il sopracciglio sinistro, e si ficcava in bocca il sigaro tagliato che teneva sempre in tasca.

Non lo fumava da ormai dieci anni - tanto era il tempo passato dall’infarto – ma succhiarlo di tanto in tanto gli stimolava la concentrazione e soprattutto, in condizioni di stress, gli dava sollievo, riappacificandolo momentaneamente col mondo.

Da dieci giorni non riusciva ad alzarsi dal letto, la febbre che non scendeva sotto i trentanove gradi gli impediva di reggersi sulle gambe - già di per sé non particolarmente forti, considerato che da tempo non praticava alcun tipo di sport - e la tosse ancora secca non poteva che peggiorare nei giorni successivi.

Tutto sommato, essendo un uomo molto pragmatico e tendenzialmente ottimista, Castillo riusciva ad apprezzare i lati positivi che la situazione presentava: in quei giorni di malattia, la signora Conchita, per esempio, gli serviva colazione, pranzo e cena a letto e addirittura lo assecondava quando lui la chiamava per cambiare i canali del vecchio televisore Saba, costruito quando ancora i telecomandi non esistevano e sopravvissuto chissà come per più di trent’anni agli inevitabili acciacchi di un’ormai veneranda età, oltre che ai maltrattamenti di Castillo nei suoi rari momenti d’ira domestica.

In più, terminata la colazione, le figlie Mar e Carmen - ventidue e vent’anni di età - gli portavano il quotidiano nazionale e quello locale, appena sfornati dall’edicola in fondo alla strada, e per due ore Castillo si godeva la lettura integrale dei giornali, un privilegio che, da sano, neanche la domenica riusciva a garantirsi.

Un paio di volte al giorno chiamava in ufficio, per verificare se fosse tutto a posto.

Rispondeva immancabilmente lo Slavo - e chi sennò? - il suo unico dipendente, potendo definire dipendente qualcuno che, senza avere paga fissa, risponde al telefono, sbriga le commissioni burocratiche dell’ufficio, pulisce le scrivanie una volta a settimana e fa anche da autista nelle uscite di lavoro in giro per il paese.

Per fortuna, almeno dal punto di vista della salute, quel ragazzo sembrava indistruttibile.

In quei giorni di malattia, in assenza di eventi o d’informazioni di particolare rilevanza (non che in quel paesino ci fosse mai troppo lavoro per un ispettore privato, a dire il vero) quelle telefonate fra Castillo e lo Slavo si risolvevano inesorabilmente in un rispettoso scambio di convenevoli, con auguri finali di pronta guarigione da parte dello Slavo nei confronti del suo capo.

Quella mattina non fece eccezione.

«Pronto, ciao, sono io, Castillo».

«Ah, buongiorno, ispettore, tutto bene?».

«Decisamente no, Slavo, ho ancora la febbre e la tosse non passa. Quando ero ragazzo con un freddo come questo andavo in giro a torso nudo! Ora mi è bastato camminare dieci minuti con un alito di vento fresco per ammalarmi…».

«Mi dispiace, signor Castillo».

«Tutto bene in ufficio? Sono arrivate le bollette di Marzo? Devo controllare se mi hanno tolto il canone del modem».

«Sì, sì, sono arrivate, gliele ho lasciate nel primo cassetto».

«Aprile subito e controlla se mi fanno pagare ancora il modem».

«Aspetti un attimo che le vado a prendere».

Lo Slavo lasciò la cornetta sul tavolo - l’ufficio dell’ispettore non era dotato di cordless, troppo costoso per l’utilizzo che ne faceva - e a passo svelto raggiunse la scrivania di Castillo, aprì il primo cassetto, estrasse la bolletta e tornò al telefono. «Eccomi. Allora, aspetti un attimo che verifico».

«Dai, che fra un po’ devo fare il sonnellino del mattino, sennò come faccio a guarire?».

A Castillo parve di vedere il mezzo sorriso che comparve sulle labbra dello Slavo.

«Mmm… direi di sì, ci stanno ancora addebitando il canone del modem. Seicento novanta colon, capo».

«Ma come? Non avevi disdetto il contratto il mese scorso? Già siamo in un bel periodo di vacche magre, se poi spendiamo per cose che non ci servono dove finiremo? Maledetti quelli di Telefonica!».

«Sì, sì, capo, avevo disdetto, avevo disdetto, stia calmo. Più tardi sento io Telefonica, vedrà che sistemo tutto. E poi, capo, il fatto che nel 2015 Internet non ci serva secondo me è tutto da dimostrare…».

«Facile a dirsi, per te che non paghi» ringhiò Castillo, interrompendo bruscamente lo Slavo, che sembrò non farci caso.

Conosceva l’ispettore e la sua indole bonaria da quasi un anno e mezzo, ormai, e cioè da quando una tiepida mattina di Gennaio, poche settimane dopo essere arrivato a Burgos ed essersi installato nella Locanda Hermosa, sbirciando di passaggio l’interno dell’ufficio di Castillo e trovandolo particolarmente in disordine, si propose all’ispettore per dargli una mano nelle faccende operative.

Altro non sapeva fare, lo Slavo, ma aveva voglia di ricominciare la sua vita in quella nuova realtà, anche partendo dal basso.

Castillo aveva accettato, specificando che non gli avrebbe dato un salario fisso, considerate le ristrettezze economiche in cui versava; lo Slavo aveva accettato senza lamentarsi, visto che era arrivato dall’Italia con un imponente carico di contanti, figli della sua vita precedente, che da una stima grossolana gli sarebbero comunque bastati per almeno cinquant’anni di vita in Costarica.

Lo Slavo riprese con tranquillità la conversazione telefonica interrotta dal burbero intervento dell’ispettore.

«Piuttosto, ispettore, le volevo dire che questa mattina è passato un signore chiedendo di lei. Diceva che gli avrebbe fatto piacere conoscerla».

«E chi era?».

«Non lo so. È rimasto fuori dalla porta, aveva una sciarpa che gli copriva la bocca e gli occhiali scuri. In testa mi sembra portasse una specie di basco, o qualcosa di simile. È stata veramente una questione di attimi, appena gli ho detto che lei aveva la febbre ha girato i tacchi ed è sparito, dopo avermi squadrato da capo a piedi. Non mi ha messo molto a mio agio, sinceramente».

«Beh, se dovesse tornare digli che mi può chiamare a casa, senza problemi. Vuoi mai che ci sia finalmente qualcuno che ha bisogno di noi per risolvere un caso serio, invece delle solite baggianate. E ora metti giù e precipitati da Telefonica, chiarisci la questione del modem e fatti stornare l’addebito in fattura, ok?».

«Sì, capo, ok, tranquillo, ci penso io. Buona giornata, ci sentiamo domani!».

Ma lo Slavo sapeva che la telefonata non poteva terminare in quel modo.

Effettivamente Castillo non gli diede il tempo di riattaccare.

«Dove credi di andare, furfante?».

Lo Slavo sbuffò, non prima di aver allontanato la cornetta dalla bocca. La voce dell’ispettore arrivò puntuale:

Relax, said the night man,

We are programmed to receive! You can check out any time you like... but you can never leave!

«Facile, capo… Hotel California, Eagles».

«Anno?».

«1976».

«Bravo ragazzo. Ti trovo sempre ben preparato, mi fa piacere».

«Già. Grazie capo. A domani, si rimetta in fretta, mi raccomando».

Click.

Click.

A Castillo piaceva mettere alla prova lo Slavo sul rock.

Per lui era un segno di affetto (era una passione condivisa) e, in più, lo faceva sentire ancora giovane, illusione quotidianamente cancellata dallo specchio nel momento più impietoso della giornata, quello del primo mattino, col suo corredo di barba ispida e occhi pesti.

Lo Slavo stava al gioco, a volte divertito, a volte rassegnato.

In fin dei conti, l’ispettore era per lui il primo punto di riferimento importante, in quella terra straniera.

Castillo riattaccò il telefono, stanco come se avesse corso la maratona di San José, e si abbandonò a un profondo sonno ristoratore, cullato dal morbido materasso e avvolto nella coperta fino al mento, proprio come quando era bambino.

***

Lo Slavo era atterrato all’aeroporto Juan Santamaria di San José, Costarica, una sera di Dicembre del 2013.

Aveva da poco superato i trent’anni e proveniva da Milano, dove si era lasciato alle spalle un omicidio, una malattia mentale vinta grazie a cure costose e un’identità balorda, tutti elementi superati grazie a un nuovo passaporto (falso) e, soprattutto, a un nuovo portafogli (pieno).

Viaggiava carico di soldi provenienti da un traffico d’armi nato in Croazia, qualche mese prima, al quale aveva partecipato quasi per caso, ma che gli aveva fruttato un bel gruzzolo di contanti, tenuti ben nascosti nel doppio fondo del bagaglio imbarcato sul volo intercontinentale Milano - San José.

Sapeva di rischiare, alla dogana, con quel carico di soldi nascosti, ma aveva confidato - non senza brividi - nelle maglie larghe dei controlli a campione svolti dalla polizia costaricana sui bagagli in ingresso.

Gli era toccata la sorte di non avere la valigia ispezionata e, superato anche il controllo dei documenti, aveva tirato un sospiro di sollievo, rendendosi conto proprio in quel momento che la fuga dal proprio torbido passato si era realmente concretizzata.

Fuori pioveva, una pioggia fine ma costante, fastidiosa, che gli penetrava prima nell’anima che nelle ossa.

Uscendo dall’aeroporto, si era infilato nel primo taxi disponibile e, in uno spagnolo un po’ stentato, ma comunque dignitoso, aveva chiesto al tassista di portarlo al quartiere italiano.

Il tassista, un tipo basso e sudato, con un mozzicone di sigaretta appeso alle labbra, lo aveva guardato strano.

Quel ragazzone biondo, alto, muscoloso, con la camicia a quadri e i Ray-Ban appoggiati alla fronte, nonostante fuori il buio avesse già abbracciato le stradine mal illuminate nella zona circostante l’aeroporto, gli ricordava il personaggio di un videogioco che lo aveva accompagnato anni addietro, ai tempi della scuola superiore.

Duke Nukem, se non ricordava male.

Il ragazzo viaggiava con un solo bagaglio e non smetteva di guardarsi in giro con occhi da furetto, che si spostavano con incredibile rapidità da destra a sinistra, mentre il capo si manteneva immobile.

«Non esiste un quartiere italiano a San José, signore» aveva sentenziato il tassista, senza girarsi.

Dal sedile posteriore non era giunto alcun commento.

Incerto sul da farsi, il tassista era rimasto a osservare nello specchietto retrovisore la reazione del ragazzo.

Nulla.

Nessun movimento di muscoli facciali, nessuna reazione emotiva.

Nessun tick nervoso.

Il tassista aveva aspirato una profonda boccata da quel che rimaneva del mozzicone di sigaretta e aveva atteso, tamburellando le dita sull’appoggia braccio della sua Citroen Picasso blu.

La pioggia insisteva sul parabrezza e sul lunotto posteriore con martellante monotonia, ma questo non sembrava scomporre il passeggero.

Il tassista si era sentito nell’obbligo di rompere quel silenzio che lo stava mettendo in uno strano imbarazzo:

«Non le voglio mettere fretta, ma per correttezza le dico che il tassametro è già partito».

«La ringrazio. Parta pure».

«E dove vado? Le ho detto che a San Josè non esiste una comunità italiana, mi spiace».

«Parta per favore. Faremo un giro nella zona circostante alla città. Le dirò io quando fermarsi, non si preoccupi».

Il ragazzo sembrava gentile.

Il tassista non era abituato ad avere passeggeri che utilizzassero frequentemente forme quali «la ringrazio», «per favore» o «non si preoccupi».

Aveva ingranato la prima ed era partito, accelerando poco a poco, cercando di staccare il meno possibile lo sguardo dallo specchietto retrovisore.

Quel ragazzo da un lato lo intrigava, ma al tempo stesso lo spaventava, o qualcosa di simile.

Aveva uno sguardo furtivo e innaturalmente rapido e non smetteva di accarezzare impercettibilmente la sua valigia, che non aveva voluto riporre nel bagagliaio, quasi in trance.

«Ha fatto un lungo viaggio?» aveva chiesto il tassista, più per prassi che per reale interesse.

Era la domanda più banale da rivolgere a un passeggero in arrivo da un volo intercontinentale.

«Sì. È la prima volta che prendo l’aereo. A dire il vero è anche la prima volta che esco dall’Europa».

«Lei è italiano?».

«Sì…» aveva risposto il ragazzo quasi sovrappensiero, salvo poi correggersi subito «… cioè no. Sono slavo, ma ho sempre vissuto in Italia. Manco lo parlo, lo slavo, ho vissuto in Jugoslavia fino a quattro anni, poi è scoppiata la guerra civile e i miei genitori sono scappati in Italia. Ho imparato l’italiano e ho dimenticato lo slavo».

«È scoppiata una guerra civile in Jugoslavia?».

Il tassista si era vergognato della propria ignoranza nell’istante stesso in cui aveva terminato di porre la domanda, ma ormai era tardi e la risposta del ragazzo non si era fatta attendere.

«Già, è scoppiata una guerra, anzi, sono scoppiate diverse guerre… e che guerre! La federazione si è fatta letteralmente a pezzi, negli anni novanta. Prima la Slovenia, poi la Serbia, la Croazia, il Montenegro… e tutte le altre regioni a ruota, una dopo l’altra, guerre interne massacranti, con la comunità internazionale che stava a guardare. Meglio non commentare, davvero».

Il tassista, pentito di aver posto quella domanda così sconveniente per reggere il dialogo con uno sconosciuto, aveva deciso di lasciare per qualche istante un silenzio denso di pensieri per entrambi.

Era stato il ragazzo a riprendere la conversazione.

«Qui da voi invece le cose sono più tranquille, vero?».

«Beh, noi siamo la Svizzera del Centro America, non lo sapeva?».

«Francamente, no».

«Noi, dopo la guerra civile del 1948, abbiamo dismesso l’esercito. A cosa serve un esercito in un paese come il nostro? Il governo ha destinato le risorse militari all’istruzione e alla cultura. Ne siamo molto fieri. I nostri ragazzi studiano, invece di combattere. Pura vida, signore, pura vida».

Gli occhi del tassista si erano illuminati.

Era infinitamente orgoglioso della propria nazionalità e non perdeva occasione, durante ogni viaggio dall’aeroporto verso la città, di decantare ai propri passeggeri le lodi del Costarica, terra unica, costellata di ricchezze naturali e di un patrimonio culturale, oltre che umano, inimitabile.

«E lo sa, signore, che il Costarica ha l’indice medio di felicità più alto del mondo?» aveva proseguito, entusiasta.

Il ragazzo aveva risposto senza troppa enfasi.

«E cosa sarebbe, questo indice medio di felicità?».

«Semplice,» aveva ripreso il tassista «si tratta di una statistica elaborata a livello mondiale su centoquarantanove paesi, basata su un questionario che prevede un’unica domanda: in una scala da zero a dieci, quanto si sente soddisfatto, complessivamente, della sua vita?».

«Interessante; e quali sono i risultati?».

«Beh, il Costarica è primo in classifica. Indice medio di felicità superiore a nove punti. Pura vida, eh?».

«Già…» aveva concluso il passeggero laconicamente, quasi in contrapposizione all’entusiasmo del tassista, continuando ad accarezzare la valigia.

Non aveva dato seguito alla discussione, distratto dall’arrivo di un temporale e di un lampo che, inatteso, aveva squarciato il cielo scuro.

Al tassista sarebbe piaciuto continuare a tessere lodi della sua amata terra, dalla quale non si era mai allontanato in trent’anni di vita, ma, nonostante gli sforzi, non aveva trovato alcuno spunto interessante per riempire il momento di silenzio che si era creato, inondato unicamente dal ticchettio della pioggia pesante sui vetri del taxi.

L’auto si era fermata a un semaforo.

Il tassista si era girato per un attimo verso il ragazzo, lo aveva guardato di sfuggita e il suo ghigno indecifrabile gli aveva provocato un disagio che si sarebbe risparmiato volentieri.

Era ripartito premendo a fondo il piede sull’acceleratore, come se volesse fuggire dalla situazione che si era creata e, seguendo una strada quasi deserta immersa nell’oscurità, aveva raggiunto in breve tempo le campagne circostanti l’aeroporto.

Il ragazzo non aveva smesso di guardarsi attorno e sembrava apprezzare quel vagabondaggio senza meta.

«Dove siamo?» aveva chiesto dopo qualche minuto di silenzio.

«Siamo nei pressi di Burgos, signore».

Il passeggero aveva scrutato l’orizzonte fuori dal finestrino del taxi scorgendo, in lontananza, un paesino abbarbicato alle basse montagne del Costarica centrale.

Il buio ovattava i pochi rumori che provenivano da fuori.

Il temporale aveva lasciato spazio a un meraviglioso cielo stellato e a un intenso odore di zolfo, che aveva ricordato al ragazzo la sua infanzia in montagna.

Memoria olfattiva, la più radicata nei sensi dell’uomo.

«Burgos, ha detto? Perfetto. Mi lasci qui, per favore. Mi piace».

Il tassista aveva raggiunto in breve tempo il centro del paese, nel quale la locanda Hermosa contendeva da anni alla chiesa di San Isidro il dominio architettonico su piazza Allende.

Aveva accostato nei pressi dell’ingresso e, senza spegnere il motore, era sceso per aprire la porta al ragazzo.

«Sono trentacinquemila colon, signore» aveva detto senza guardarlo negli occhi, quasi vergognandosi con se stesso per la disonestà di quel prezzo.

Il ragazzo non aveva battuto ciglio, affondando la mano nella tasca laterale dei pantaloni ed estraendo un portafogli gonfio da sembrare sul punto di esplodere.

Apertolo, aveva fatto scivolare nelle mani del tassista quattro banconote da diecimila colon.

Prima che lo richiudesse, il tassista era riuscito a fissare per un attimo quel portafogli.

Non aveva mai visto così tanto contante fra le mani di una persona.

Ma non aveva avuto il tempo per farsi domande strane, perché il ragazzo lo aveva congedato nel migliore dei modi possibili, dal suo punto di vista.

«Tenga pure il resto. La ringrazio. Buon rientro, buona notte».

***

In una comunità ristretta come quella di Burgos non era facile ricoprire l’incarico d’ispettore privato, soprattutto per uno come Castillo che aveva deciso di rifiutare, a prescindere, qualsiasi tipo di indagine legata a possibili infedeltà coniugali.

Per questo, in nome della propria coscienza deontologica, o, che dir si voglia, dell’amor proprio che sempre lo aveva guidato nei momenti di decisione, negli ultimi mesi non aveva trovato neanche un incarico, eccezion fatta per un’indagine su una truffa ai danni di una nonnina che si era vista sparire dalla notte alla mattina i risparmi di una vita dal conto corrente.

Una bazzecola, per uno come lui.

Aveva risolto il caso in meno di tre giorni, grazie anche ai propri amici di San José, vecchi compagni del comando di polizia nazionale, che, tramite analisi incrociate sui movimenti bancari dei parenti della signora, avevano individuato facilmente la mela marcia della famiglia, un nipote dal curriculum apparentemente immacolato ma noto alle forze dell’ordine locali per il consumo smodato di droghe sintetiche.

Non era la prima volta che la polizia gli passava delle indagini; succedeva soprattutto quando, come nel caso della nonnina, il comando di San José era impegnato su operazioni ben più importanti - quella volta si era trattato di narcotraffico internazionale - non sapendo che farsene di banalità di quel tipo.

In quelle circostanze la polizia si rivolgeva a lui, con una sorta di subappalto, sapendo di andare sempre a colpo sicuro.

Incarico consulenziale, con clausola di pagamento ex post, a caso risolto; il tutto senza alcuna formalizzazione, fra persone di fiducia ci si intende così e lui, dopotutto, era un ex collega che, dopo anni di onorato servizio, si era messo in proprio, ma aveva mantenuto tutti i contatti importanti che si era creato soprattutto nei tre anni in cui aveva ricoperto il ruolo di capo della polizia nazionale.

Era stato un periodo duro, con quel ruolo così importante, di un’intensità mai provata prima: tre anni di sfide professionali da responsabile della polizia della capitale.

Un sogno, da bambino.

Ma poi la signora Conchita era stata malamente investita sulle strisce pedonali di un incrocio a San José da un povero ubriaco che cercava nella bottiglia un’improbabile consolazione alle proprie pene d’amore, e i dottori avevano detto a Castillo che la moglie, operata d’urgenza, sarebbe dovuta rimanere a riposo per almeno sei mesi.

E Castillo aveva avuto l’occasione per rivalutare a freddo la propria situazione, riconsiderandola alla luce della nuova emergenza.

Pura vida era stato il tema ispiratore nei momenti chiave della sua esistenza.

Era un’espressione la cui semplicità era inversamente proporzionale alla rilevanza del messaggio che trasmetteva.

Si era reso conto che, in quel particolare momento, pura vida significava poter lavorare a cinque minuti da casa, poter affiancare anche tutti i giorni, se necessario, la signora Conchita nella faticosa riabilitazione, poter seguire da vicino la crescita delle figlie, al tempo in piena adolescenza.

Pura vida.

La decisione fu presto assunta: il poliziotto Castillo, capo del comando di polizia nazionale a San José, riconsegnò la stella argentata al responsabile dell’ufficio del personale, accompagnata da una lettera di dimissioni irrevocabili per motivi familiari; affittò un bilocale sfitto nel centro di Burgos, proprio di fianco alla locanda Hermosa, e vi attaccò all’ingresso una vecchia placca dorata recuperata nel solaio di casa, regalo di qualche Natale precedente dei colleghi del comando per la risoluzione di un intricato caso di sfruttamento della prostituzione minorile, sulla quale con un punteruolo d’acciaio cancellò, con lavoro certosino, la parola «Grazie», sovrascrivendola con «Isp.».

Gli sarebbe piaciuto completare l’opera, scrivendo per intero «Ispettore», ma la fatica esagerata che gli era costata incidere le prime tre lettere lo fece desistere.

«Isp. Castillo», recitava la nuova targa.

Artigianale, ma efficace.

Lui si sentì rinascere.

Il paese di Burgos aveva finalmente un ispettore privato e lui, ancora una volta, aveva seguito il suo cuore per una decisione importante.

Pura vida.

Due. Dispari

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