Читать книгу Due. Dispari - Federico Montuschi - Страница 6
Una festa
ОглавлениеThe walls started shaking,
The earth was quaking,
My mind was aching.
(ACDC)
Carmen non stava nella pelle per l’eccitazione.
Era una splendida domenica di sole e rientrava da San José, dove il giorno precedente aveva superato con il massimo dei voti il suo primo esame universitario.
Si era iscritta alla facoltà di Filosofia più per non deludere suo padre che per reale convinzione, ma riconosceva che i primi mesi di corso si erano rivelati una piacevole sorpresa.
Le materie, tutto sommato, erano interessanti ma era soprattutto dalle persone conosciute che aveva tratto i giusti stimoli per non pentirsi della scelta.
Le tornavano spesso in mente le parole di mamma Conchita che, pur non avendo viaggiato molto nella sua vita, amava ripetere che gli aghi della bilancia per valutare le situazioni sono sempre le persone, a prescindere dalla bellezza dell’ambiente circostante.
Passò il viaggio di rientro verso casa sull’autobus che collegava San José a Burgos inviando messaggi alle amiche e postando selfie allegri su Facebook.
Scese alla fermata della stazione ferroviaria di Burgos e, per sfruttare al meglio il primo giorno di sole dopo più di due settimane di pioggia, decise di allungare il percorso a piedi verso casa, passeggiando in totale relax sul lungo fiume, accompagnata dalla musica dolce e coccolante di Bon Iver: l’album For Emma, forever ago le era stato consigliato da Ronald, uno dei nuovi amici della facoltà, un ragazzo di San Josè decisamente interessante, con il quale fin dall’inizio si era creata una particolare sintonia.
Sia verso l’album di Bon Iver, sia verso il nuovo amico Ronald, Carmen provava le medesime intriganti sensazioni: non aveva ancora terminato di scoprirne le diverse sfumature e tonalità, e in ogni occasione trovava diverse chiavi interpretative della musica e della persona, scoprendo nuove intense emozioni.
Con l’auricolare nelle orecchie e lo sguardo fisso sul display del telefono per verificare in tempo reale i like dei suoi amici ai precedenti post su Facebook, s’incamminò sul sentiero sterrato che affiancava il fiume, costeggiando il bosco di pini di Burgos, noto per la sua aria balsamica.
Respirò a pieni polmoni e, per meglio godersi il momento bucolico, decise di staccarsi dallo smartphone, riponendolo alla bell’e meglio nella tasca anteriore della borsa a tracolla, già zeppa di quaderni e libri universitari.
L’erba umida attutiva i suoi passi.
Adorava quella sensazione di passeggiata sulle nuvole, amplificata dall’impatto cromatico del tramonto rosa e dall’aria fresca che, dopo le giornate di pioggia, le accarezzava la pelle del viso.
Camminava spensierata, con spirito leggero e occhi sognanti, e forse proprio per questo non si accorse della caduta del telefono nel prato, proprio accanto a una panchina sulla quale sonnecchiava a pancia in su un uomo, con un cappello da baseball calato sugli occhi e coperto sull’addome e sulle gambe da un foglio di giornale aperto.
Arrivò a casa dopo una mezz’ora di passeggiata, durante la quale lasciò correre i suoi pensieri senza redini e senza meta, giusto in tempo per la cena; ma, accortasi dello smarrimento del telefono dopo aver sistemato la borsa in camera, non riuscì a gustarsi il picadillo di patate con carne, servito con la consueta maestria dalla signora Conchita.
Mangiò di corsa, quasi senza proferire parola; cosa non difficile, peraltro, quando al tavolo sedevano anche Mar e la signora Conchita, che potevano discutere amabilmente per ore anche del colore dell’erba.
Papà giaceva a letto con una brutta influenza, fatto più unico che raro.
Senza di lui, la cena era sempre meno allegra.
Terminato il picadillo, Carmen lo raggiunse in camera per sincerarsi delle sue condizioni di salute.
«Papà ciao, come stai?».
L’ispettore Castillo, voltato sul fianco verso la finestra da cui si intravedeva una luna pallida, velata da nubi variegate che vagavano indecise nel cielo scuro, fece non poca fatica per girarsi verso la figlia.
«Male, Carmen. Ho quasi quaranta di febbre e alla mia età, credimi, una temperatura così la senti, eccome».
«Influenza. Sai che il termine influenza deriva dalla forma latina medioevale influentia, che significa azione degli astri sul destino umano?».
L’ispettore sembrò riprendersi.
Sentire sua figlia citare antiche forme latine lo riempiva d’orgoglio.
«Beh… e chi te l’ha detto?» chiese in modo volutamente provocatorio, con il solo obiettivo di proseguire quella conversazione.
«Mi hai obbligata o no a iscrivermi a Filosofia?».
L’occhiolino strizzato da Carmen fece subito abbassare il livello di tensione al quale l’ispettore Castillo era arrivato pressoché istantaneamente: sulla scelta della facoltà universitaria aveva un nervo scoperto, frutto delle infinite discussioni avute al termine della scuola superiore con Carmen, che non voleva proseguire gli studi.
L’aveva avuta vinta lui, alla fine.
«E quindi la mia influenza è dovuta a una congiunzione astrale negativa. Bella questa. Ma io, più che alla stella Sirio o alla stella Polare - che sono poi le uniche due che conosco - credo al maledetto vento gelido di questi giorni! Dillo ai tuoi insegnanti di filosofia!».
La risata fragorosa di Carmen fu accompagnata da una carezza alla mano del padre.
«È la prima volta che ti vedo a letto ammalato, papà…».
«Prima o poi doveva succedere, sai, figlia mia? Ma non preoccuparti: con un po’ di riposo, tornerò più in forma di prima. Tu, piuttosto, raccontami della tua giornata».
Quella del racconto giornaliero era una consuetudine che l’ispettore Castillo era riuscito a mantenere con Carmen, mentre Mar se n’era liberata da un paio di anni, stanca di dover rendicontare ogni aspetto della propria vita al padre ispettore.
«Ieri ho passato il mio primo esame universitario, papà!».
La voce di Carmen squillò nella stanza, fiera e felice.
«Ma come?!» disse l’ispettore «Io non ne sapevo nulla! Che esame era? Quanto hai preso? Cosa ti hanno chiesto? Raccontami tutto, subito!».
«Ti volevo fare una sorpresa!» rispose la ragazza sorridendo, descrivendo poi con dovizia di dettagli l’esame di Storia della Filosofia, rendicontando puntualmente le domande ricevute, le precise risposte fornite, i commenti degli amici, la soddisfazione al momento della registrazione del voto.
Castillo rimase ad ascoltare con la bocca semiaperta e la mandibola sul punto di cascare da un momento all’altro.
Aveva la commozione facile, quando si trattava della figlia.
Ma l’umore della serata ebbe un cambio repentino quando Carmen, terminato il racconto della giornata universitaria, passò alla cronaca del rientro a casa.
«Purtroppo in serata è successa una brutta cosa, invece».
«E cioè?».
Questa volta Castillo si raddrizzò faticosamente sul letto, puntellandosi sui gomiti, con aria preoccupata.
«Ho perso il telefono».
«Uff… poteva andare peggio. Ma dov’è adesso, porco cane?».
Carmen non poté non notare un principio di moto nervoso nella mano di suo padre.
«Papà, se lo sapessi, non l’avrei perso. So per certo che quando sono scesa dall’autobus ce l’avevo con me…».
Castillo iniziò a sudare.
«E poi? Che hai fatto? Ma parli del telefono quello bello, che ti abbiamo regalato a Natale, che fa le foto e i video e ha il navigatore e tutte quelle cose che a me non servono ma che a te piacciono tanto?».
«Esatto, papà. Purtroppo devo averlo perso durante la camminata che ho fatto attraversando il parco. Era così una bella giornata, accipicchia...».
«Senti Carmen, torna indietro, rifai il percorso al contrario, magari lo trovi in terra, no? Sai quanto ci è costato quel telefono?».
«Papà, la zona del parco della stazione la conosci, non è il massimo, sono le nove passate e fuori fa buio!».
Castillo si rigirò verso la finestra per verificare.
Lo spicchio di luna calante confermò l’affermazione di Carmen.
L’oscurità avvolgeva Burgos e, dall’oscillare delle fronde dei pioppi che costeggiavano la strada di fronte alla camera dell’ispettore, si era anche alzato il vento.
«E va bene, Carmen, se proprio non te la senti, lascia stare. Ma non pensare che avrai un altro telefono così, con quello che ci è costato! E lo sai, vero, che…» ma Carmen non lo lasciò terminare, interrompendolo cantilenando «… che io e la mamma facciamo sempre tutto il possibile per voi ma non possiamo permetterci e non vogliamo comunque comprarvi ciò che non serve».
Gli sguardi di padre e figlia si incrociarono e Carmen percepì lo sforzo di suo padre per rimanere serio.
«Amen» aggiunse allora lei, dandogli il colpo di grazia e riuscendo a farlo sorridere, prima di sciogliersi in un abbraccio di saluto.
Tornò in cucina raccomandandogli un buon riposo, che non tardò più di dieci minuti ad arrivare: l’ispettore, febbricitante, si addormentò pesantemente.
«Tutto bene?» chiese distrattamente Mar, rimestando il caffè fumante che la signora Conchita aveva appena preparato.
La risposta di Carmen fu anticipata dallo squillo del telefono di casa.
Le ragazze si guardarono stupite: da quando tutti in famiglia avevano un cellulare, l’apparecchio fisso era di fatto utilizzato solo da lontani parenti anziani per gli auguri di Pasqua e di Natale.
La signora Conchita sollevò la cornetta sotto lo sguardo attento delle sorelle.
«Sì, un attimo, gliela chiamo subito. Buona serata a lei, signore».
Carmen e Mar si guardarono per un attimo con aria reciprocamente canzonatoria, fino a che la voce della signora Conchita interruppe quella scena da spaghetti western.
«Carmen, è per te. Il signor Ronald, se non ho capito male».
Carmen si alzò di scatto dalla sedia, urtando con il ginocchio la gamba del tavolo, che per il contraccolpo fece cadere la tazzina di caffè caldo addosso a Mar, solo parzialmente protetta dal tovagliolo.
Il commento acido della sorella maggior non si fece attendere.
«Vedi, basta la telefonata di uno sfigato qualsiasi per farla uscire di testa. Che sorella rintronata mi ritrovo!».
Carmen era già volata al telefono, strappandolo dalle mani della madre, eccitata per quella telefonata inaspettata.
Era la prima volta che Ronald la chiamava, fino a quel momento si erano semplicemente frequentati all’università scambiandosi qualche messaggio Whatsapp e qualche like su Facebook, ma nessuno dei due aveva mai chiamato l’altro.
«Ciao, Carmen, come va? Scusa il disturbo, ma ti ho mandato un messaggio importante un paio di ore fa e mi aspettavo una risposta… ho provato a cercarti sul cellulare ma suona sempre a vuoto, mi stavo quasi preoccupando. Alla fine mi sono deciso a chiamarti a casa, spero di non disturbare la tua famiglia, davvero…».
«Ciao Ronald! Stai tranquillo, nessun problema. Non mi è successo nulla di grave, ho solo perso lo smartphone nel parco tornando a casa questa sera, porco cane. Per questo non ti ho risposto. Di cosa si tratta? È una cosa urgente?».
«Amo dare accezioni edulcorate al concetto di urgente, spesso abusato nelle nostra società, fanciulla mia».
Erano queste le risposte di Ronald che tanto piacevano a Carmen, quasi degli aforismi che lasciavano l’interlocutore con la sensazione di dover accelerare i giri del proprio cervello per riuscire a seguire i percorsi mentali di quel tipo strano.
Perché strano, Ronald, lo era davvero.
Alto, magrissimo, l’aria perennemente trasandata con i capelli lisci raccolti in una lunga coda di cavallo, gli occhialini stile John Lennon e una barbetta incolta che cresceva in modo disordinato, tralasciando le guance e concentrandosi quasi esclusivamente su pizzo e basette.
Non passava inosservato, quel ragazzo.
Ronald riprese il filo della risposta.
«Nelly e Alejandra organizzano un party per questa notte, siamo invitati anche noi, hai voglia di venire?».
«Wow! Una festa questa sera? Bene! E dove lo fanno questo party?».
«I genitori di Nelly hanno una residenza estiva proprio a fianco del cimitero di Burgos, in campagna, ci si arriva in meno di venti minuti in macchina da casa tua».
«Mmm... in campagna? Questa sera? Senza cellulare? Con così poco preavviso? Con mio padre a letto con un’influenza mai vista?».
«Esatto. In campagna. Questa sera. Con il mio cellulare. Con un’ora di preavviso. Con tuo padre a letto con una banale influenza».
La lucidità di Ronald era invidiabile, in quei frangenti.
Carmen si sforzò di valutare la situazione nel più breve tempo possibile; tutto sommato, non le sembrava che esistessero particolari controindicazioni all’idea di partecipare alla festa e il fatto di essere accompagnata da Ronald rendeva il tutto ancora più stimolante.
Suo padre stava sicuramente già dormendo, debilitato dall’influenza; sua madre si sarebbe messa a letto di lì a poco, stanca per la giornata e Mar stava iniziando giusto in quel momento il ripasso finale, che sarebbe durato quasi tutta la notte, prima dell’esame del giorno successivo.
Via libera.
Rispose all’amico illuminandosi con uno splendido sorriso.
«Va bene, Ronald, ci sono. Mi passi a prendere tu?».
«Certo, ti passo a prendere alle dieci. Ti faccio uno squillo quando sono sotto casa».
«Chissà chi ti risponde! Ti ho detto che ho perso il cellulare, lascia stare, non chiamarmi neanche sul fisso che qui saranno già tutti a letto o sui libri a ripassare. Io alle dieci scendo. A dopo!».
«Ah certo, è vero, me n’ero dimenticato. Allora ti aspetto e basta, alla vecchia maniera, eh? A dopo!».
Click.
Click.
Incamminandosi verso la doccia, Carmen sentì un piacevole calore salirle dalla pancia.
***
Alle dieci in punto Carmen scese rapidamente le scale antistanti alla porta di casa, passandosi una mano fra i capelli per tentare in extremis di sistemarsi il ciuffo ribelle che non era riuscita a domare con il phon in casa.
Il vento serale aveva spazzato via le nubi e i loro rovesci del pomeriggio; l’aria era frizzante e la luna piena, che sembrava verniciata con pittura fosforescente, dominava solitaria il cielo.
Ronald attendeva seduto in macchina, una Due Cavalli arancione, con una grossa ammaccatura sul paraurti anteriore, che aveva da tempo superato i propri anni migliori.
Teneva il braccio sinistro appoggiato al finestrino abbassato e fumava un cigarillo scuro di scarsa qualità, il cui odore (no, non lo si poteva chiamare profumo) aveva dopo poche boccate saturato l’aria dell’abitacolo.
Indossava una camicia a quadri bianchi e blu, portata sopra una maglietta di cotone bianca con un’improbabile immagine di una bandiera strappata del Regno Unito, jeans strappati e, ai piedi, un paio di sneakers Converse verde militare.
Carmen lo baciò su entrambe le guance prima di salire in macchina e iniziare a tossire.
«Ma cos’è sto schifo di odore?» chiese con tono volutamente acido, edulcorandolo subito con un sorriso che mise in bella evidenza le sue fossette.
«Roba di famiglia, Carmen, roba di famiglia. Di quella buona. È un cigarillo di mio nonno, lui ne ha fumati venti al giorno dai dodici anni in avanti».
«E quanti anni ha adesso?».
«Adesso? È morto. A quarant’anni, di tumore ai polmoni. Non l’ho mai conosciuto».
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Ronald aspirò profondamente una boccata di fumo.
«Scherzi, vero?» chiese Carmen quasi sottovoce.
«No, è vero che è morto, ma so per certo che ha vissuto felicemente, anche grazie a questi cigarillos che sono buonissimi... anzi, vuoi fare un tiro?».
«Non ci penso neanche, Ronald! Dai, parti che ho voglia di muovermi un po’. E smettila di prendermi in giro, somaro che non sei altro...». Ronald mise in moto, fece manovra per uscire dal parcheggio e partì con calma, accendendo lo stereo.
La musica dei Coldplay avvolse i pensieri leggeri e paralleli dei due ragazzi, che non parlarono molto, durante il viaggio, entrambi rapiti dalle poesie di Chris Martin e dalla sua voce a volte baritonale, a volte in falsetto.
In meno di un quarto d’ora di macchina arrivarono alla festa.
Nelly, la padrona di casa, attendeva gli invitati ciondolando con un candelabro in mano di fronte al grande cancello della proprietà, alle cui spalle si intravedeva il maestoso giardino della residenza di campagna della famiglia.
Nel centro del giardino, gli zampilli di un’antica fontana a base rotonda, illuminati dal basso da faretti colorati, si ergevano nel cielo, superando l’altezza della statua posta al centro della fontana stessa, un improbabile Eros malamente copiato da quello di Piccadilly Circus.
Nella zona esterna, antistante al cancello, si estendeva uno spiazzo verde che gli invitati già arrivati non avevano esitato a utilizzare come parcheggio, cosa che fece anche Ronald, entrando di muso nell’angusto spazio che restava fra una Clio amaranto e una Volvo Blu di grossa cilindrata.
«Grazie Ronald, ma così non riesco proprio a uscire» disse Carmen, dopo aver tentato di aprire la portiera con il massimo della delicatezza, per evitare di causare danni alla Volvo adiacente.
«Neanch’io,» ribatté lui «ma non devi preoccuparti: la Due Cavalli è un’auto a risorse infinite!».
Iniziò a girare una manovella che pendeva dal tettuccio, non distante dallo specchietto retrovisore, e piano piano fece decapottare la macchina.
«Grande! Questa sì che è un’auto moderna!» esclamò Carmen che, senza farsi pregare, saltò con agilità sui sedili posteriori e da questi, in un battibaleno, atterrò sul prato, imitata da Ronald.
«Ingresso alla festa in grande stile, eh?».
Nelly si era avvicinata, sempre con il candelabro acceso fra le mani per illuminare il prato, mostrando un sorriso radioso che si era costruita con cinque anni di cure ortodontiche e una cifra non indifferente sborsata da suo padre.
«Ciao Nelly! Splendida idea la festa di questa sera! Possiamo già entrare?» chiese Carmen, baciando su entrambe le guance l’amica e avviandosi verso il sentiero d’ingresso ancora prima della risposta.
«Certo, superate la fontana e tenete la destra. Seguite poi le luci, non potete sbagliare, ok?».
«No problem! Ho fatto cose più complicate nella mia vita» rispose Ronald con la consueta ironia.
S’incamminarono nel giardino seguendo, più che le luci, il suono della musica, sparata dal deejay a volume assordante; l’adiacenza al camposanto, in fin dei conti, garantiva che gli unici vicini della tenuta non si sarebbero mai potuti lamentare del rumore.
Misjudged your limits
Pushed you too far
Took you for granted
I thought that you needed me more more more!
« Boys don’t cry! Fantastica!».
L’emozione di Carmen sorprese Ronald, che per la musica aveva un semplice interesse superficiale.
«Ma come fai a riconoscere una canzone di trent’anni fa da due strofe orecchiate in sottofondo?» chiese guardandola dritta negli occhi, quasi a sottolineare il suo sentimento di sorpresa.
Carmen rispose con nonchalance, senza girarsi verso di lui.
«È una passione che mi ha trasmesso mio padre. Lui ha una cultura musicale sterminata e ha educato me e mia sorella a pane e rock, fin da piccole. E fin da piccole ci diceva titolo e autore di ogni brano e lo canticchiava nel suo inglese stentato che però ci permetteva di seguire il testo molto più facilmente che ascoltando le versioni originali, capisci?».
«Certo. La paragonerei a una forma di bilinguismo. Avete assorbito quasi inconsciamente la sua cultura musicale, come i bambini figli di genitori di differenti nazionalità imparano gratuitamente le lingue di papà e mamma, senza alcuno sforzo. Una sorta di apprendimento per osmosi, via».
«Più o meno...» rispose Carmen senza troppa convinzione, giusto un attimo prima di scorgere, poco dopo una leggera curvatura del sentiero sulla destra, l’ingresso al salone della festa.
La musica era alta e l’impianto diffondeva con particolare potenza i bassi, che sembravano rimbombare negli stomaci dei ragazzi.
Carmen e Ronald si buttarono in pista, illuminati da una strobo anni settanta che lanciava a intermittenza raggi fendenti di diverso colore, in pieno stile spade Jedi di Guerre Stellari.
Carmen prese al volo uno shot di vodka con limone appoggiato sul vassoio di un cameriere che si aggirava fra la folla e lo bevette in pochi sorsi veloci, senza smettere di ballare.
Le sembrò che la strobo aumentasse progressivamente la frequenza dei colpi Jedi e l’immagine le provocò un sorriso che, con quel po’ di carica aggiuntiva di vodka, divenne subito una risata.
Un altro cameriere con due baffetti che sembravano dipinti passò velocemente fra i ragazzi e Carmen non si lasciò sfuggire lo shot di tequila, che tracannò senza pensarci.
«Vacci piano, Carmen, che non sei abituata a bere» gridò Ronald, senza smettere di seguire il ritmo al centro della pista, cercando di superare con la voce i decibel della musica.
Ma Carmen sembrò non sentire e, poco a poco, sparì nella bolgia danzante, fagocitata dall’entusiasmo dei ragazzi festaioli.
***
Il taxi giunse nello spiazzo antistante al grande cancello della villa poco prima delle undici.
Il confuso andirivieni di persone nella zona dell’ingresso non era cessato, benché la maggior parte degli invitati fosse già stata dirottata verso il salone dei balli e nell’adiacente zona bar, dove l’alcool scorreva libero e, soprattutto, gratis.
La formula barra libre, nelle feste private, garantiva una percentuale di ubriachi ben superiore agli standard delle feste universitarie.
Un uomo di media corporatura scese dal taxi, pagò senza chiedere il resto e senza indugio si avvicinò al portone.
Sapeva, o forse temeva, che il suo arrivo sarebbe stato visto dai più come un fatto perlomeno anomalo, ma si sforzò di comportarsi nel modo più naturale possibile.
Indossava una maglietta di cotone azzurra con una piccola stella bianca sulla schiena, jeans scuri attillati e un paio di anfibi neri con le stringhe bianche.
In testa, portava un curioso cappellino rosso da baseball.
Nelly faticò non poco a nascondere la sorpresa.
«Padre Juan! Ma che piacere! Qual buon vento?».
Era certa di non averlo invitato, ci mancherebbe, invitare un prete a un party universitario in campagna.
Chissà com’era venuto a sapere della festa, e chissà cosa gli era scattato in testa per decidere di parteciparvi.
Nelly notò un velo d’imbarazzo nel suo interlocutore e per superare il momento d’impaccio preferì spiegargli subito la strada per arrivare al salone.
«Superi la fontana, segua il sentiero tenendo la destra, dopo poco troverà il posto, ok? Io arrivo fra pochissimo, sono già le undici, credo che gli invitati siano ormai tutti arrivati. E ho una voglia pazzesca di buttarmi in pista anch’io!».
La ragazza ammiccò senza alcuna malizia, ricevendo come risposta un sorriso sfuggente, solo accennato.
L’uomo si accese una sigaretta e s’incamminò, leggermente ingobbito, sul sentiero illuminato da piccole candele profumate.
L’arrivo al salone principale della festa fu per lui come un pugno dello stomaco.
Volume della musica altissimo.
Al centro della sala, ragazzi con capelli rasta che battevano violentemente tre bidoni di metallo amplificati, in completa simbiosi con il ritmo della musica sparata dai subwoofer a duemila watt, che sembrava volersi fare largo a gomitate fra le viscere di ognuno dei partecipanti.
Raggi di luce emanati dalla strobo che pendeva al centro del salone e profumi di dopobarba mescolati a odore di sudore nella calca.
Camerieri in tenuta apparentemente informale, ma tutti con cravattino bianco come segno distintivo, che giravano senza sosta nella sala brandendo su una mano tenuta alta, appena sopra le teste degli invitati, vassoi argentati colmi di alcolici e superalcolici, che venivano svuotati dopo meno di un minuto dalla preparazione.
Decise di restare ai margini della bolgia, appoggiato allo stipite della gigantesca porta finestra che in qualche meandro della sua memoria lo riportò a quanto studiato anni prima sulla concezione di architettura organica di Wright: garantiva la sostanziale continuità fra il grande salone e il parco antistante.
Osservando di sottecchi la situazione, notò che, ogni tanto, qualcuno usciva dal girone infernale per prendere un po’ d’aria nello sterminato parco della tenuta, dove capannelli di ragazzi e ragazze si formavano con sorprendente rapidità e con altrettanta velocità si scioglievano, sopraffatti dal richiamo della musica, troppo intenso per restare a lungo in giardino a chiacchierare.
Alzò gli occhi al cielo e notò come una lunga nuvola grigiastra stesse iniziando a velare la luna piena che, fino a quel momento, aveva dominato incontrastata la tiepida notte costaricana.
«Facciamoci un giretto» pensò, camminando a passi veloci verso la grande scalinata di marmo bianco che, partendo dal fondo del corridoio, si ergeva solenne alle spalle della sala da ballo.
La scalinata lo portò al primo piano, esattamente sopra il salone da ballo; nei momenti di maggior foga dei percussionisti, poteva sentire il pavimento vibrare.
Notò due porte di legno massiccio, una sulla destra e una sulla sinistra, mentre di fronte allo sbocco delle scale, attraversato il salone a base ovale, un’altra grande vetrata, del tutto simile a quella del pian terreno, permetteva di godersi una vista invidiabile sul giardino antistante.
La morbida moquette blu attutiva i suoi passi e questo gli diede la voglia di togliersi gli anfibi dai piedi, cosa che fece, proseguendo scalzo il suo giro esplorativo.
Attraversò la stanza e si godette per dieci buoni minuti il panorama, cullato dal buio, godendosi con calma la sigaretta accesa poco prima e divertendosi di tanto in tanto a osservare il fumo salire al soffitto bombato.
La nuvola sbiadita di qualche minuto prima, nel frattempo, stava completando la propria opera di copertura della luna.
Fu proprio durante uno di questi momenti di osservazione che, inaspettato, si verificò un black out; gli amplificatori del deejay erano degni di un concerto degli U2 e l’impianto elettrico dell’edificio non poteva essere dimensionato per reggere un simile carico.
Il silenzio dirompente lo colse di sorpresa, ma ciò non gli impedì di percepire una specie di rantolo proveniente da una delle stanze che si affacciavano sul salone.
Doveva essere un suono emesso da una ragazza, sembrava gutturale ma lui non riuscì a capire se si trattasse di un gemito di piacere o di dolore.
Decise di restare immobile, tendendo solo le orecchie e non potendo evitare di sentirsi come un setter che cerca affannosamente di localizzare le fonti dei suoni percepiti.
Il silenzio si fece avvolgente e, accompagnato dal buio pesto, gli provocò una sensazione di scomodità.
Recuperò gli anfibi, si avvicinò alla porta di legno massiccio da cui aveva sentito i rumori e, delicatamente, abbassò la maniglia di ottone, che non oppose resistenza.
Aprì la porta e si trovò in un’ampia stanza, nella quale, in un letto matrimoniale a baldacchino, due tipi in mutande sembravano accanirsi su una ragazza imbavagliata, nuda, legata per le mani alla testiera e per le caviglie alle gambe del letto, ai cui piedi erano ammucchiati i vestiti dei ragazzi.
Uno dei due era chinato sull’ombelico della sventurata, mentre l’altro sembrava accarezzarla con vigore sul viso.
Ebbe l’impressione che, più che carezze, si trattasse di tentativi per farle girare il viso e baciarla.
Lei resisteva, pur sembrando totalmente senza forze, emettendo gemiti confusi in evidente stato di shock.
La stanza era debolmente illuminata da candele sparse che emanavano un profumo di vaniglia intenso, che si mescolava con l’aroma della marijuana che altri due ragazzi stavano fumando, stravaccati su due vecchie poltrone rivestite di velluto verde.
La corrente tornò dopo pochi minuti, inondando di musica la stanza, nella quale nessuno sembrò accorgersi del suo ingresso.
I due giovani seminudi continuarono le molestie, fra risatine e sguardi d’intesa, mentre i due seduti, con gli occhi a mezz’asta, si passarono la canna battendosi un «cinque» con la mano libera.
Incrociò lo sguardo della ragazza ed ebbe l’impressione che lei fosse sul punto di piangere, benché la sua espressione fosse talmente vacua da risultare difficilmente intelligibile.
Non poté non ammirare il corpo nudo della giovane.
La sua pelle era bianchissima, le gambe muscolose.
I lunghi capelli lisci accarezzavano le spalle e le coprivano parzialmente il viso, scompigliati dalle mani dei due ragazzi sopra di lei.
Aspirò un ultimo tiro di sigaretta, gettò il mozzicone dalla finestra aperta e si sedette sul letto, accarezzandole le gambe.
Solo in quel momento i due che stavano fumando marijuana si resero conto del suo ingresso e, quasi stupiti da quell’approccio inatteso, iniziarono a battere a ritmo le mani, al grido di «Sesso, sesso!».
Gli altri due, senza fretta, si sfilarono le mutande, strusciandosi sulla ragazza a ritmo con i battiti di mani degli amici.
Togliendosi gli indumenti, si unì al coro degli stonati, iniziando ad accarezzare il corpo della malcapitata, dai cui occhi inumiditi iniziarono a scendere sottili lacrime salate.
Di fuori, la luna della notte costaricana si perse definitivamente, oscurata del tutto dalle nuvole.
L’orgia durò meno di dieci minuti ma, per lui, tanto bastò; l’eccitazione sfrenata, amplificata dall’effetto della marijuana, lo portò in brevissimo tempo a un orgasmo selvaggio e ansimante, che raggiunse mordendo le lenzuola sgualcite del letto a baldacchino e stringendo in estasi un lembo del cuscino.
Poi si rialzò, si sistemò i capelli, raccattò i vestiti dai piedi del letto, e fece un ultimo tiro di canna prima di uscire dalla stanza.
Stonato com’era, e con la vista offuscata, il salone del primo piano della villa gli sembrò girare su se stesso; ciò nonostante intravide nella penombra, nei pressi della grande scalinata, un ragazzo che sorreggeva la testa di un’amica, il cui corpo appariva abbandonato senza forze sulla moquette.
Si volse immediatamente dall’altra parte, per evitare impicci, sperando di non essere notato.
Ma il ragazzo, che appariva nervoso, gli chiese un aiuto, e i loro sguardi si incrociarono per un attimo fugace, impercettibile ma concreto, prima che lui, senza degnarlo di una risposta, scendesse le scale, diretto con andatura risoluta verso l’uscita della proprietà e passandosi di tanto in tanto le dita fra i capelli ancora sudati.
Si rese conto di aver dimenticato nella camera da letto il cappellino da baseball, che gli avrebbe fatto comodo per coprirsi maggiormente il volto, ma decise di non recuperarlo per evitare di intercettare nuovamente quel tipo e la sua bella addormentata, forse svenuta.
Attraversò il parco di fretta, con lo sguardo basso, facendo il possibile per evitare di incrociare gli sguardi della gente, arrivando al parcheggio con il cuore che batteva a ritmo superiore al solito, carico di adrenalina per l’esperienza di poco prima.
Numerosi taxi attendevano i reduci della festa; lui si infilò nel primo disponibile e, una volta entrato nell’abitacolo, si annusò le mani, impregnate di sesso della ragazza misto a marijuana, e finalmente si rilassò, sforzandosi di vergare nella propria memoria la memorabile orgia.
«Calle del Tesoro, grazie» disse con voce roca all’autista, rimanendo così, con gli occhi chiusi e le dita vicine alle narici, per qualche minuto, seduto sul sedile posteriore e cullato dagli echi della musica della festa, ormai lontano sottofondo di una serata unica, lasciandosi portare verso il suo destino.
Era atteso a un appuntamento che, a breve, gli avrebbe cambiato la vita, ma non lo poteva sapere.
***
Dal momento del black out, al piano terra la confusione aveva regnato sovrana.
Nelly si sgolava per chiedere ai partecipanti di restare tranquilli, assicurando che entro breve il guasto sarebbe stato sistemato.
Gli invitati, sull’onda dell’euforia della festa, non avevano perso l’occasione per intonare canti e balli, schiamazzando felici e incuranti dell’inconveniente.
Ronald ne aveva approfittato per divincolarsi dall’abbraccio verbalmente tentacolare di una sua ammiratrice che da quasi mezz’ora lo stava annoiando, impedendogli di cercare Carmen.
Si era fiondato nel giardino e aveva iniziato a chiamarla, tentando con scarso successo di sovrastare il volume dei cori dei festaioli ubriachi.
Aveva cercato di amplificare la propria voce aiutandosi con le mani, appoggiate a mo’ di megafono ai lati della bocca, ma i risultati non erano migliorati; aveva quindi provato a rintracciarla sul cellulare, dimenticandosi che era stato smarrito proprio quel pomeriggio.
Nel frattempo aveva iniziato a piovere, con grande soddisfazione dei reduci del ballo, sudati e stropicciati, fumati e bevuti, che approfittarono dell’acquazzone per una doccia rinfrescante a cielo aperto, improvvisando girotondi e canti da osteria, senza smettere di bere.
Era rientrato in casa e, attraversando il salone da ballo ormai semivuoto, si era diretto verso la scalinata di marmo bianco, che aveva salito di corsa, saltando i gradini a due a due, facendo attenzione a non inciampare per il buio.
Era arrivato nel grande salone con il tappeto blu scorgendo, appoggiata allo stipite di una porta, Carmen.
Le ginocchia sembravano non riuscire a reggere il suo peso; stringeva in mano una bottiglia vuota di vodka e, a occhi chiusi, cantava a squarciagola una canzone inglese che non era riuscito a decifrare.
Non si era accorta dell’arrivo dell’amico, che si era affrettato a prenderle con forza il capo fra le mani, chiamandola con foga.
«Carmen, Carmen! Sei ubriaca fradicia! Ti porto subito via, forza, non puoi restare qui in queste condizioni!».
Aveva parlato accavallando le parole, quasi balbettando, con una voce stridula: sotto stress, l’aplomb di Ronald, che tanto piaceva a Carmen, svaniva miseramente.
La ragazza si era immobilizzata per qualche secondo, cedendo poi tutt’a un tratto e abbandonandosi fra le braccia dell’amico, che la stese sul tappeto, incosciente.
Finalmente tornò la corrente e la musica, inaspettata ed esplosiva, riprese a pompare, contornata dalle grida ubriache dei ragazzi al piano terra.
Ronald lasciò per un attimo Carmen e corse da basso per recuperare un po’ d’acqua; entrando nel salone da ballo, ebbe l’impressione che i muri tremassero, la terra sobbalzasse, la sua testa fosse trafitta da una gelida lama di spada, ma trovò comunque la forza per attraversare la baraonda di ragazzi che avevano ripreso a ballare e raggiunse il barman, cui chiese una bottiglietta d’acqua fresca.
Risalì di corsa da Carmen, che permaneva stesa sul tappeto nell’angolo del salone, e vide in quel momento uscire da una stanza un uomo alto, riccio, con l’aria disordinata e l’aspetto trafelato.
Sembrava avesse davvero fretta, quell’uomo, ma era l’unico a cui Ronald potesse rivolgersi, in quel momento di necessità.
Gli chiese nervosamente un aiuto, incrociando il suo sguardo sfuggente, ma non ricevette alcuna risposta dal tipo, che scese di corsa le scale, dileguandosi nella ressa del piano terra.
«Stronzo!» gli gridò Ronald, pur con la voce coperta dal volume della musica, prima di rifocalizzare la propria attenzione su Carmen, versandole poco a poco l’acqua fresca sul viso e forzandola di tanto in tanto a berne qualche sorso.
La ragazza si svegliò tossendo, appoggiandosi con fatica sulle spalle dell’amico per riuscire drizzare la schiena, e cercando aria a pieni polmoni.
«Carmen, svegliati, ti prego!».
Le mani di Ronald tremavano per lo stato di tensione nel quale era entrato e la sua voce sembrava rimbombare sotto l’alto soffitto del salone, nonostante da sotto arrivassero gli echi della musica sparata dal dee-jay.
Carmen sbatté gli occhi in stato di semi-incoscienza, prima di inarcare d’un tratto la schiena e vomitare sul tappeto persiano.
Ronald fece un salto all’indietro per non sporcarsi, trattenendo a sua volta un conato e sforzandosi al contempo di non lasciarle la testa, che sembrava potersi staccare da un momento all’altro, tanto era privo di forze il corpo della ragazza.
«Portami a casa, Ronald. Per favore» fu la supplica di Carmen, masticata fra i denti, la fronte imperlata di sudore, i capelli zuppi e spettinati.
«Certo, Carmen. Ti porto subito».
Sollevò di peso l’amica, tenendola in braccio e sorreggendole la nuca, poi scese lentamente le scale, sentendo aumentare a ogni gradino il volume della musica proveniente da basso.
Attraversò il più rapidamente possibile il salone da ballo al piano terra e proseguì con fermezza per il sentiero nel parco, giungendo al parcheggio stanco e ansimante.
Fortunatamente, la Volvo che all’arrivo aveva impedito a Carmen di scendere era già ripartita.
Spalancò la portiera posteriore della Due Cavalli, adagiò delicatamente Carmen sul sedile bagnato - il tettuccio dell’auto era rimasto aperto per tutto il temporale - e si avviò verso la sua casa, chiedendole sottovoce di non sporcargli la macchina, nei limiti del possibile.
Da dietro, Carmen rispose affermativamente, con un semplice cenno del capo, prima di addormentarsi di colpo con un inaspettato accenno di sorriso sul volto, ebbra come mai lo era stata in vita sua.
Arrivata a destinazione, accompagnata fino alla soglia da Ronald, riuscì a malapena a entrare nell’appartamento, avvolta dal silenzio della notte, prima di crollare nel proprio letto ancora vestita.
Mar, china sui libri nella camera adiacente, non si accorse di nulla.
Si abbandonò a sogni turbolenti, di cui non sarebbe comunque rimasta traccia il giorno successivo.