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Nota. – Il presente discorso, tenuto la prima volta in Torino l'11 aprile 1900 per invito di quella Società di Cultura, venne quindi pubblicato nella Rassegna Nazionale.

Sull'orlo di un lago bizzarro che io amo, verde ai due capi, sottile e torto per sinuose gole di colli selvaggi e di montagne tragiche, sereno a mezzo il corso nell'arco di un golfo idilliaco, si affaccia allo specchio maggiore delle acque una densa e signorile corona di ombra. Sovente per le vie solitarie di quell'ombra fui preso dal senso di una bellezza che più si prometta di quanto si sveli. Non la scoprivo intera nel tremolar lucente del lago tra i tronchi, nelle pensose montagne assise a levante del bosco, nelle alte scene lontane, dorate di sole, che mi apparivano tratto tratto a settentrione. Mi sorgeva invece nel cuore e me lo riempiva di sè l'idea di una possibile parola unica nella quale consuonassero tante diverse voci di cose; di una profonda parola di bellezza, tentante e inafferrabile come la parola di accordi musicali che annuncino, preparino una successiva rivelazione di suoni e invece si spengano senza seguito nel silenzio. Così penetrato dall'anima occulta delle cose che mi figuravo desiderosa e incapace di esprimersi a me com'ero io di comprender lei, movevo alla più recondita sede di quel regno di ombra dove i maggiori alberi, fronteggiandosi in giro, congiungendosi a grande altezza in un'ascensione unica, fanno di sè ghirlanda e tempio a un cupo fantasma.

Una giovine donna, bellissima, dai capelli scomposti, dalle vesti cadenti, siede là sopra un alto seggio, piegato il busto gentile in avanti, puntati i gomiti alle ginocchia, strette le guance fra i pugni chiusi, fissi gli occhi tordidi nel vuoto. Il viso rivela una intelligenza forte che affonda nella follia. Nessuna cura stringe più costei nè del mondo nè di sè. Nessun vivente presuma, per esserle stato caro, poterle recar conforto. Ella non torcerebbe un momento gli occhi suoi avidi dalla visione di angoscia che la impietra; e tuttavia ci balena che possa repente balzar dal seggio con uno strido, avventarsi là dove guarda, tanto potente vita spirò nel marmo il grande artista che le pose nome «Desolazione». Si soffre davanti all'alta Dolorosa, e si gode intensamente di soffrire. Ci partiamo pensosi e la visione di lei ne persegue al sole, per le ombre che il vento scompiglia, lungo le rive sonore del lago scintillante. Non ci guasta l'incanto dei colori e dei suoni ma vi spira una malinconia segreta che lo rende più soave, infonde alle voci delle cose un accento nuovo e profondo. Pare che l'enigma di bellezza oscura onde avemmo dianzi turbato il cuore vi ritorni, lo prema più forte, quasi vi si disveli. I susurri del fogliame paiono prima dire dire incalzando e poi dolersi, nel venir meno, di non essere intesi.

Il dolore nell'arte: discorso

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