Читать книгу La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 19

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Obbediva, e lo sguardo tornato al suo ufficio si volse curiosamente d'attorno per conoscere il luogo. Questo però non era singolare in nulla: presentava vastissima stanza fabbricata a volta; in parte illuminata da una lampada, che gettando tutta la luce sopra Rogiero, teneva quasi all'oscuro due uomini sedutisi ad una tavola posta a qualche intervallo da lui. Rogiero guardando se la sua scorta lo avesse abbandonato, si accôrse che su l'entrare di quella stanza se n'era partita. Pose pertanto ogni sua attenzione ai due personaggi rimasti. Le vesti loro apparivano semplicissime; nulla accennava in essi altezza di sangue, ed opulenza di stato; nè altra cosa era osservabile in loro, se non che il volto quasi tutto coperto di un drappo nero.

Quegli, che, per quanto, si poteva conoscere, aveva maggiore autorità, si levò da sedere, e stese la mano verso Rogiero in atto di favellare; ma si adoperò invano a profferire parola, chè un subito tremito gl'invase la persona, e ricadde su la sedia dalla quale si era levato. Allora il secondo, quasi volesse prevalersi del suo turbamento, di subito cominciò:

«Le molte cautele adoperate nella vostra venuta, o Rogiero, devono servire meno a dimostrarvi la nostra diffidanza per voi, che l'altezza del pericolo in cui noi tutti adesso versiamo. Non vi prenda poi nessuna maraviglia di questo mio ragionamento; fra poco vi apparirà chiaro di per sè stesso. Intanto persuadetevi bene di ciò, che dove il fatto, il quale siamo per isvelarvi, fosse manifesto a chi ha il potere della spada, le nostre teste certamente cadrebbero, ma la vostra non andrebbe salva. Nè ciò diciamo per atterrirvi: se voi foste stato capace di passioni codarde, non vi avremmo chiamato a intendere un segreto che nessuno ci costringe a farvi sapere. È lungo tempo che noi vi osserviamo. I misteri più riposti del vostro cuore sono stati da noi conosciuti. Noi sappiamo tutto….. nè alcuna cosa ci occorse di scorgere in voi, che magnanima e generosa non fosse. Vero è però che noi avremmo desiderato tenervi all'oscuro di tutto, finchè, cessato ogni pericolo, aveste potuto raccogliere lietissimo frutto. E questo non già per poca stima, bensì pel grande amore che abbiamo per voi. Ma ora, siccome osserviamo tutto giorno avvenire, la prudenza ordisce e la fortuna tesse, secondo l'antico proverbio: non piacque ai cieli disporre quello che l'uomo aveva proposto. La morte vicina, ed ahimè! troppo certa, di personaggio principalissimo, impegnato in questo negozio, rende vano ogni nostro disegno, e ci costringe a quello che aborrivamo fare.»

«Non sarebbe forse mio padre questo moribondo?» domandò tutto agitato Rogiero.

«Calmatevi….. i vostri casi domandano un cuore che senta, una mano che operi, un volto che dissimuli. Ditemi, conoscete voi le vicende della casa di Svevia?»

«La casa di Svevia! La storia di questa famiglia mi riuscì sempre sopra le altre piacevole e grata; ma quantunque non siasi accumulato sul mio capo un molto avvolgersi di anni, pure non vive casa in Italia di cui non conosca l'origine e la storia…..»

«Voi dunque rammenterete, Rogiero, che numerosi furono un giorno i figli dello imperatore Federigo II, e rammenterete pure suo primogenito essere stato Enrico, eletto Re di Lamagna, vivente il padre, ora volgarmente conosciuto col nome di Enrico lo sciancato, però che la malignità degli uomini non sia soddisfatta della sventura degli oppressi, ma li desideri ancora o ridicoli, o infami. Questo infelice principe, di non troppo fermo volere fornito, e della nostra religione amatore caldissimo, concitato dalle istanze di Gregorio IX, e da quelle dei molti nemici di suo padre, stimò fare cosa grata all'Eterno, sottraendo l'Impero di Lamagna al dominio di un respinto dalla comunione dei fedeli, qual era Federigo II. Ahi! che, guasto da malvagi consigli, non conobbe aborrire Dio le guerre parricide, e la sua maladizione abitare nella casa dell'empio, che osò nella scelleraggine del cuore sollevare la mano contro l'autore dei suoi giorni. Appena conobbe Federigo l'amara novella, abbandonata la Italia, valica celerissimo l'Adriatico e perviene a Vormazia. La gente stava adesso spaventata a vedere chi primo dei due, il padre o il figlio, avrebbe osato trarre la spada. L'eterna pietà non consentiva, che anco questo vituperio si registrasse nella voluminosa storia degli umani misfatti. A Dio non piacque indurare il cuore del figlio:—pallido, sbigottito, meno pauroso della pena che sconfortato dal rimorso, co' piè nudi, la testa rasa, vestito di sacco, col capestro al collo, tenendo nelle mani la croce, venne a Vormazia; traversò, non curante gli scherni, la folla della gente che aveva atterrita con la sua colpa, e disperatamente piangendo si gettò a misericordia ai piedi del suo genitore, e lui scongiurò, non a risparmiargli il castigo, chè troppo sentiva averlo meritato la sua scelleranza, ma sì a volerlo benedire, e avanti la sua morte richiamare col dolce nome di figlio. Invano l'orgoglio offeso procurava sdegnarsi, invano la tradita autorità paterna mantenersi severa; le lagrime sgorgavano dagli occhi di Federigo, ed il suo cuore sentiva tutta la verità di quella sentenza, che la gioia è figlia del dolore. Scendeva dal trono, al collo del figlio le braccia amorosamente gettava, e lui per gli occhi, per la fronte, e su la bocca baciando, col nome di suo figlio diletto a chiamare ritornava. Oh! vera pace sarebbe stata quella; e perdono durevole. Ma tra le bestie feroci, che la natura ha formato, vivono, o Rogiero, e sventuratamente troppi, tali uomini, ai quali l'aspetto del cielo sereno par gemito; che si nudrono di veleno e di fiele, e renunzierebbero volentieri agli agi, alla vita, e a Dio stesso, per deliziarsi nello spettacolo di un uomo che sospira dal profondo della miseria, e sorridere a cotesti singulti: e mentre furono concesse così strette facoltà per giovare più di quella che non si vorrebbe abbiamo potenza per nuocere. Visse, e vive, o Rogiero, quel figlio del peccato, che suscitando ad ogni momento sospetti nel cuore di Federigo, ed ogni più incolpabile azione di Enrico volgendo in delitto, di mille insidie, e d'infiniti delatori circondandolo, ora con la calunnia, ora con la compassione…. Ma che mi trattengo io più a svolgere ad uno ad uno tutti gli accorgimenti della infamia? Essi sono più di quelli che si possono numerare, e che l'onestà può intendere. La sua perfidia fu insomma tanto avventurosa, che Federigo, fieramente infellonito contro il suo sangue, quel male arrivato figliuolo decaduto dal trono di Lamagna chiarisse, e a lui stesso lo consegnasse, onde in qualche carcere della Puglia col pane del dolore e con l'acqua dell'angoscia gli facesse consumare la rimanente sua vita. Nè stette molto che fu annunziata a Federigo la morte di Enrico, il quale riaprendo il cuore alla pietà paterna sentì tanto amaro cordoglio del suo soverchio rigore, che chiusosi in una stanza si dispose a lasciarsi morire di fame; se non che i suoi più fedeli cortigiani a gran pena, favellandogli attraverso la porta, poterono indurlo a por giù quel fiero proposito, e a ristorarsi di cibo. Il rammarico di Federigo non era tale però da rimanersi celato: una epistola imperiale dettata dall'illustre Segretario Piero delle Vigne, e spedita al clero siciliano diceva: Per quanto grande possa essere la colpa dei figli, non diminuisce in nulla l'amarezza che la natura fa sentire ai genitori nel punto della loro morte;¹ e però ordinava, che di magnifiche esequie si onorasse, stimando così compensare con la vanità della pompa un'anima che aveva condannata a inaridirsi nell'onta. Ma Enrico viveva: Federigo e il suo feroce consigliere erano stati delusi…»

¹ Petri de Vineis. Epist. liber 1.

«Viv'egli Enrico lo Sciancato?» gridò Rogiero, che ascoltando attentamente questo racconto non potè reprimere un moto di meraviglia.

«Troppo duro sarebbe, o figliuol mio, lo stato nostro quaggiù, se la pietà profonda che ne regge non ci fosse stata cortese di alcuno di quegli spiriti compassionevoli nati a temprare i misfatti, pei quali di giorno in giorno la nostra stirpe scellerata aumenta il tesoro della vendetta di Dio. Uno di questi bennati pose la Provvidenza a lato del consigliere di Federigo, e volle che in lui ogni sua fede riponesse: a questo furono gli atroci misteri svelati: a questo fu dal consigliere imposto che si trasferisse in Puglia; quivi col laccio, col ferro, o in qualunque altro modo, s'ingegnasse di spegnere Enrico, e poi in tutta fretta ne recasse in corte la nuova. Partiva il messo; con la nuova della morte di Enrico tornava, ma Enrico era stato salvato.»

«Oh! che possa essere io il primo ad annunziarlo a Manfredi; certo grande gioia sarà quella del Re a tanto grata novella!» interruppe Rogiero.

«E il figlio pure dell'infelice Enrico,» continuava senza badargli l'uomo misterioso «da crudele ambizione perseguitato, fu sottratto alla morte, surrogando in sua vece il cadavere di altro fanciullo defunto per naturale malattia.»

«E vive egli?» domandò Rogiero.

«Vive.»

«Perchè dunque non palesarlo a Manfredi?»

«Perchè il tradire la innocenza frutta il disprezzo degli uomini, e l'ira di Dio.»

«Manfredi lo restituirebbe in reale condizione.»

«Manfredi lo ucciderebbe prima che se ne sapesse parola, per risparmiarsi anche la spesa dei funerali.»

«A chiunque voi siate.» rispose con terribil voce Rogiero «che così meno che onesto favellate del mio Re, faccio solenne protesta, che non ne tolgo vendetta in questo luogo perchè non siete vestito di armi convenienti. Nondimeno fino da questo punto dichiaro voi mentitore, e cavaliere sleale, e me pronto a sostenere con lancia, spada, e pugnale, o a piedi o a cavallo, a primo transito, o a tutta oltranza,¹ il Re Manfredi di Svevia, il più virtuoso signore di tutta la Cristianità.»

¹ Modi cavallereschi antichi, equivalenti ai moderni primo sangue, ultimo sangue. Vedi Fausto, del Duello.

«Accetto la sfida, e sostituisco un campione

«Si avanzi il campione,» disse Rogiero, traendo la spada; «chi sarà mai costui?»

«Quantunque in cavalleria non sia lecito domandare il nome del cavaliere, voglio non pertanto soddisfarvi: egli è il figlio di Enrico, il nepote di Manfredi.»

«Dov'è egli?»

«In questa stanza.»

«Io non lo vedo…. Sarebbe forse quel vostro compagno silenzioso, che si vanta figliuolo di Enrico?»

«Non egli nasce da tanto illustre lignaggio.»

«Dunque?» disse Rogiero guardandosi intorno.

«Dunque, siete voi stesso.»

«Io nepote dell'Imperatore Federigo!» gridò tutto stupefatto Rogiero, e la spada gli cadeva dalla mano tremante. «Ma perchè….» dopo riprendeva a fatica quasi anelando «ma perchè non palesarmelo innanzi? Perchè, invece di sospettare tanto vilmente del Re Manfredi, non manifestargli l'esser mio? Il tempo ha forse calmato l'odio, se pure il Re lo ha mai sentito pel suo fratello Enrico, ed egli mi avrebbe accolto con quello amore col quale si accolgono i più cari parenti….»

«Il tempo consuma il cuore che odia, ma l'odio…. oh! l'odio non cessa neppure col palpito del cuore.—Egli scende nei sepolcri, ed agita perfino la polvere dei morti. Egli è la sola passione immortale concessa all'anima costretta dentro spoglie mortali. Ma ora non è proposito di odio; si tratta di cruda, fredda, calcolata ambizione.»

Benchè la mente di Rogiero fosse da gran tempo assuefatta a veementi commozioni, pure non potè di tanto sopportare quelle che referimmo senza che la sua testa si smarrisse. Gli si affacciarono agli occhi globi di luce: gli oggetti circostanti parvero volgerglisi attorno; uno indefinibile spossamento gl'invase la persona, e suo malgrado lo costrinse ad abbandonarsi.

L'uomo che gli aveva fin qui favellato stava immobile a riguardarlo, come se dal suo stato angoscioso ricavasse argomento di piacere; ma quegli che era rimasto taciturno, balzò premuroso dalla sedia, lo sostenne cadente, gli fu cortese di ogni soccorso, e quando lo conobbe tornato in sè con voce soffocata gli domandò: «Vi sentite confortato?»

«Oh! non è nulla,» rispose Rogiero «assolutamente nulla:» ed ostentando sicurezza allontanava le braccia di lui; «un breve disordine qui nella mente…. ma ora è tutto passato.»

«Ei mi rifiuta!» Disse, con suono che più che a voce umana rassomigliava al bramito di una fiera, quel silenzioso, e a passi lenti ritornava al suo luogo.

«Rogiero, nostro pensiero, prima di favellarvi, era condurvi presso vostro padre. Veramente sarebbe compassione celarvelo: egli è miserabile avanzo di tal vita, che l'ira e la follia hanno lacerato a vicenda; e questo avanzo adesso sta nel dominio della morte. Pensate dunque qual fiero spettacolo voi dovrete sostenere.—Lo stato di debolezza in che adesso vi scorgo, mi fa grandemente temere per la prova alla quale siete chiamato.—Se non volete subirla, sta in voi. La vista del padre moribondo è più angosciosa di quello che cuore umano possa soffrire.» Tutto questo discorso fu fatto dal primo favellatore, il quale ad ogni periodo si soffermava, quasi per godere della impressione dolorosa che faceva nell'anima di Rogiero.

«Tacete, uomo spietato,» riprese questi: «se le vostre parole sono profferite da voi per gioire del mio affanno, la vostra perfidia non è cosa mortale; se per consolazione dell'anima afflitta, siete il meno destro confortatore di quanti vissero al mondo. Tacete, ve ne prego. Pur troppo io conosco quanto questa amarezza contristi! Io era nato per amare, e per quanto si fossero moltiplicate al mio sguardo le cose che si amano, esse non avrebbero potuto esaurire giammai quell'immenso affetto che nascendo sortii. E pure io non conobbi padre, nè madre, nè consorte, nè amico, cui indirizzare il desio dell'anima mia. Questo fuoco, non trovando modo a svilupparsi, ha consumato il principio che doveva alimentarlo. Era rimasta una sola scintilla, e questa deve brillare un momento, come la meteora della notte, e morire…. Muora, ma brilli. Sento che in questa notte io devo affatto mutarmi, sento avvicinarsi un tormento inudito finquì; già mi si abbrividiscono le carni, le viscere mi si dirompono, e questi travagli derivano dalla immaginazione soltanto!… Proviamo fin dove l'uomo può patire, e il destino perseguitare: proviamo, che sia la voce di un padre su l'anima del figlio, comunque voce di padre moribondo.»

Agitato da profonda passione, mosse contro cotesti uomini, che gli stavano davanti; e benchè tacesse, parve minacciarli, dove non lo avessero celermente condotto all'oggetto del suo desiderio. Quei due si levarono tosto, ed avendogli fatto cenno di rimanere un poco, s'incamminarono alla estremità della stanza opposta all'uscio pel quale era entrato Rogiero. Per via uno di loro parlava all'orecchio dell'altro: «Io da qui innanzi, Conte di Caserta, amo avere la vostra approvazione. Che parvi dunque del mio operato?»

«Guarda se la misericordia di Dio è grande…. pure tu mi appari più scellerato assai che egli non sia misericordioso.»

«E sì che le mie parole suonarono religione, e virtù.»

«Tanto è vero, che non si dà momento in cui Satana si mostra così terribile, come quello in cui si veste da Santo.»

«Troppa grazia,» rispose sorridendo il Conte della Cerra; e cavata una chiave, schiuse una porticella assicurata da forti sbarre di ferro. Ciò fatto, vi sporse il capo e chiamò: «Gisfredo! Gisfredo!»—Dopo poco tempo comparve una testa, poi le spalle, e il petto di un uomo, come quando ascendiamo una scala. Il Conte della Cerra gli si fece all'orecchio; lo domandò di alcuna cosa, alla quale avendo egli risposto col cenno del capo affermativamente, si volse a Rogiero, e disse: «Potete avanzarvi.»

Accorse Rogiero, e senza esitare si cacciò giù per la scaletta strettissima. I due Conti gli tenevano dietro: Gisfredo lo precedeva facendogli lume con la lanterna che aveva recata. Egli poi, per quanto studio vi ponesse, non potè conoscere nè anche chi fosse questo Gisfredo, perchè il suo volto andava come quello degli altri ricoperto di drappo; ma dall'afferrarlo ch'ei fece alcuna volta all'improvviso, come fingendo di cadere, dal suo volgersi rattissimo e sospettoso, dallo smarrimento delle pupille, ch'egli osservò attraverso i fori del drappo, allorchè gli prese la mano, e quasi per caso gliela pose su la guardia del suo pugnale, si accôrse essere costui un uomo di frode, anzichè di aperta violenza.

La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII

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